Richard Brautigan

Zucchero di Cocomero _Letture

       

Riemergo dal mio buco nero giusto per concludere il mini-ciclo retrospettivo su Richard Brautigan, del quale ho già scritto a proposito di “Willard e i suoi trofei di bowling” e “Sognando Babilonia”. L’occasione è propizia, tuttavia, perché quello che presento stavolta è un romanzo favoloso. “In Watermelon Sugar” rappresenta una vera sorpresa, almeno per me che non aspettavo nulla più che un libricino bizzarro e ho invece incontrato un testo evocativo come pochi nel raccontare la morte prematura dell’utopia sessantottina (e delle utopie tutte): prematura anche perché il libro venne pubblicato proprio nel 1968, e il disincanto che lo abita ha del sorprendente. Allegorica, inquietante, favolistica, tristissima, è un’opera apparentemente marginale e in realtà potente. Ha una magia tutta sua (a mezza strada tra il quasi coevo “Where the wild things are”, celeberrimo albo illustrato, e una pellicola come “The Village”) e gioca con le sue regole, pretendendo dal lettore di adeguarvisi (un po’ tutto Brautigan è così, in fondo), ma proprio non lascia indifferenti. Stupisce che per la prima pubblicazione italiana ci siano voluti ventidue anni, e stupisce ancor di più che quella edizione di Serra e Riva del 1990, assai modesta, non abbia avuto seguiti: né la Isbn né Marcos Y Marcos, che negli ultimi due decenni hanno meritoriamente ripubblicato quasi l’intero catalogo dello scrittore di Tacoma, sembrano essersi accorti del romanzo più folgorante di Brautigan, il cui ingiusto oblio prosegue. Forse non c’è nemmeno ragione per stupirsi, in realtà, le cose più belle passano spesso inosservate. E poi a un autore amabilmente decadente come lui, il tenero e sfarfallante Richard che scrisse una volta “All of us have a place in history. Mine is clouds”, finire dimenticato nella catasta delle opere dimenticate del nostro ridondante presente sarebbe piaciuto senz’altro. Peccato però che sia stato accontentato così facilmente: quello in cui è stato confinato “In Watermelon Sugar” è un dimenticatoio che grida davvero vendetta.

E’ un protagonista-narratore senza nome (o con qualunque nome il lettore abbia cuore di dargli) quello che ci introduce nell’amena e inquietante comunità di Ideath, bellissima e splendente, dove tutto pare essere stato costruito grazie allo zucchero ricavato dagli onnipresenti cocomeri. In questa sorta di idilliaca comune, ognuno ha una mansione che svolge con continuità e serena abnegazione: la sua, dopo il sostanziale fallimento in qualità di scultore (non portava a termine alcun lavoro), dovrebbe consistere nella realizzazione di un libro, il primo che veda la luce a Ideath dopo trentacinque anni, ma il condizionale nel suo caso rimane d’obbligo. L’argomento, sempre che il testo venga effettivamente scritto, non potrà che vertere su Ideath stessa e la sua tranquilla esistenza bucolica, tra individui con pari dignità che convivono amabilmente in seno a una natura docile mentre ogni ipotesi di minaccia o disarmonia è fermamente mantenuta al di fuori dei suoi limitati confini: quell’incombente hic sunt leones rappresentato dalle sterminate cataste delle “opere dimenticate”, terra d’oblio e inquietudine da cui parrebbe cosa buona tenersi a debita distanza.

Il clima è pacifico, la caricatura stessa della beatitudine; lo spirito è solidale, amichevole, collaborativo, e non esiste l’ombra di un attrito. Certo questo quadretto celestiale presenta molte bizzarrie, e forse non tutto è oro quel che luccica: le stelle risplendono rosse, dei fiumiciattoli scorrono nel bel mezzo di case che appaiono prive di pareti, e nei loro letti vengono collocate per tradizione tombe in vetro illuminate da luci fosforescenti; non si contano le statue eclettiche d’ogni genere, e le trote che sguazzano indisturbate nei tanti corsi d’acqua. Per il resto tutto sembrerebbe rispecchiare una canonica piccola comunità nordamericana, non fosse che il centro pulsante di tutto è il grande opificio in cui si lavorano i coloratissimi cocomeri, e che i beni appartengono a tutti e a nessuno in particolare. Vi è tuttavia un impalpabile senso di minaccia che aleggia sulla comunità, che grava in maniera implicita come una nuvola nerastra e trae la sua origine direttamente dal misterioso passato del luogo: risale forse al tempo in cui le tigri parlanti sparsero il panico in zona decimando gli abitanti, prima di essere a loro volta sterminate, nell’illusione che con loro si potesse cancellare l’idea stessa della morte (da qui il nome dell’immaginaria confraternita); o, piuttosto, si tratta dell’influenza maligna esercitata dai cumuli di masserizie nelle distese di “opere dimenticate”, tra libri condannati all’oblio, impiegati esclusivamente come carburante, e insoliti artefatti dai quali è possibile distillare whiskey, una miscela diabolica che ha condotto alla perdizione l’irrequieto Inboil e i suoi accoliti derelitti.

E’ un romanzo veramente strano e tristissimo questo, una fantasiosa raccolta di allegorie e surreali invenzioni nonsense, per illustrare alla maniera dell’autore, in evidente anticipo sui tempi, l’inconsistenza e la fallacità di tante utopie o, meglio, della grande utopia degli anni sessanta. I personaggi di questo assurdo racconto incantato coltivano il sogno di un’esistenza anestetizzata, nel più radicale rifiuto della tecnologia e di qualsivoglia forma d’organizzazione gerarchica, convinti che infelicità e violenza possano essere banditi dal posto, estirpati ed emarginati in un remoto dimenticatoio come i manufatti e la cultura del passato ignoto. Ma il male in quanto tale, il male di vivere in primo luogo, non potrà essere silenziato a lungo nemmeno in questa sorta di stucchevole arcadia, e a farne le spese saranno quei pochi – come la malmostosa Margaret – che abbiano il coraggio di mettere in discussione la logica spersonalizzante su cui l’intero dorato sistema si regge. L’unica via d’uscita, purtroppo, sarà l’annullamento di sé, l’estremo rifiuto delle regole di questo allucinante “gioco di società”, e ciò non potrà che avvenire nel più eclatante dei modi possibili, tra inconsulti lampi visionari di feroce disincanto (la mattanza di gruppo nel vivaio delle trote, il suicidio della ragazza).

Non occorre altro per chiarire come, dietro la melensa armonia di questo piccolo universo con il suo garbo e la sua alienante democraticità, si nasconda la sconfinata amarezza di Richard Brautigan verso l’ideologia di un presente che si vorrebbe scevro da ideologie, ma non può esserlo. “Zucchero di Cocomero” si candida così a essere una delle sue opere in assoluto più gelide e disperate, pur attraverso un superbo lavoro di dissimulazione: nera, senza suono e dal sapore (apparentemente) dolcissimo, come il sole e i cocomeri del giovedì. Una parabola che non offre spiegazioni per la propria insensatezza (un po’ come la prima parte del film “The Village”, sicuramente influenzato da questo libro) ma sorprendentemente funziona: invita a porsi delle domande e illustra, pur nella sua natura di specchio deformante, l’attualità, in maniera tanto più efficace quanto meno parrebbe somigliarle. Il talento di Brautigan, almeno in questo caso, risiede davvero nell’aver saputo tratteggiare un grottesco affresco del suo tempo, affidandosi al fascino di un’intuizione letteraria che sembra (a dirla tutta) senza tempo, fuori da ogni prospettiva nota eppure quanto mai credibile.

(9.2/10)

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Sognando Babilonia _Letture

       

Secondo di tre appuntamenti con Richard Brautigan.
Provo a non ripetere quanto già scritto di recente a proposito di “Willard e i suoi trofei di bowling”, anche se mi rendo conto che la presentazione del personaggio resti lacunosa e questa nuova critica non faccia granché per invogliare una sua riscoperta, a più di tre decenni dalla morte. So che tre romanzi letti sui dieci pubblicati rappresentano un campione parziale, anche perché ogni testo dello scrittore di Tacoma era un po’ un mondo a parte, però non credo di dire una sciocchezza sostenendo che questo “Dreaming Of Babylon” rappresenta un episodio anomalo, persino sorridente e fumettistico, all’interno del suo catalogo. Una personale rilettura del genere hard-boiled, ironica, nostalgica e per nulla gravata dalle consuete allegorie (non sempre di facile interpretazione) o dal nonsense imbizzarrito grazie al quale l’autore di “Pesca alla trota in America” viene ancora blandamente ricordato. Forse mi è piaciuto anche per questo, nella consapevolezza che si tratta di un’operina assolutamente marginale. Un momento di svago, risalente al 1977, che anticipò il più lungo periodo di inattività per lo scrittore, cinque anni di paranoia e alcolismo galoppante (ma anche di viaggi in Giappone) chiusi con le ultime due amarissime pubblicazioni (postuma la seconda), “So the Wind Won’t Blow It All Away” e “An Unfortunate Woman”, e con quel maledetto colpo di 44 magnum alla testa.

C. Card è un detective particolarmente disastrato ma inguaribilmente ottimista. Senza più segretaria, auto, soldi per l’affitto e per mangiare, con una reputazione ai minimi storici, vive quasi da abusivo in un appartamento “così scuro che sembra l’ombra di un appartamento” ma non si perde d’animo e campa grazie a qualche meschino espediente. A salvarlo dalla disperazione sono le frequenti sortite in un rilassante universo di fantasia in cui tende a rifugiarsi da quand’era ragazzo, quella pirotecnica “Babilonia” che obnubila fatalmente le sue facoltà cognitive mettendolo senza posa nei pasticci più neri, e che lui stesso sceneggia sull’onda di un entusiasmo fanciullesco (nei panni dell’eroe senza macchia e senza paura, del campione di baseball o del superdetective, regolarmente affiancato dalla giunonica donna dei suoi sogni, Nana-dirat), ora in forma di pellicola cinematografica, ora di romanzo, di spettacolo shakespeariano, sceneggiato a puntate (“Smith Smith contro i robot ombra”) o di comic strip. Ridotto allo stremo da una sorte non esattamente benevola, abituato com’è a prenderla “in culo dai massimi sistemi”, ha l’insperata occasione per una rivincita coi controfiocchi quando – a metà del libro, praticamente – una misteriosa e sensuale cliente, gran bevitrice di birra, gli commissiona dietro lauto compenso il furto del cadavere di una prostituta, dall’obitorio in cui lavora un medico suo conoscente.

Come sempre, quando si parla di quest’autore folle ma accattivante, i margini per il non detto tendono a estendersi a dismisura, e il gioco bizzarro tra scrittore e lettore è mantenuto sul crinale di una farsa divertita e scoppiettante che annulla qualsivoglia criterio di veridicità nella fabula (e ancor più nell’intreccio, qui sabotato con malcelato piacere dai ricorrenti e coloratissimi inserti della fantomatica Shangri-La carnevalesca: valvola di sfogo, ribaltamento trionfalistico ed espediente narrativo cruciale in quanto fabbrica di spunti tragicomici per i segmenti in apparenza più seri). Un po’ come per le tre sorelle Logan in “Willard e i suoi trofei di bowling”, non è dato sapere le ragioni che spingano la femme fatale a commissionare il rapimento della salma, come non è dato sapere perché quella stessa committente e il suo autista dal collo monumentale “come una mandria di bufali” abbiano incaricato altre due distinte squadre di criminali (rigorosamente da strapazzo) per portare a termine con le buone o le cattive la medesima missione. E nemmeno c’è il tempo per provare a darsi delle risposte, visto che le ore dell’assurda giornata del tenero investigatore volano via come un refolo di vento, l’azione è ridotta all’osso, il nonsense è sconfinato (Dove va a finire tutto l’alcool ingollato dalla bellissima bionda? Perché “il Collo” scatta ogni volta che si pronuncia la parola “champagne”? Perché Smiley non smette di sorridere anche quando gli si spara in una gamba? Perché Babilonia sembra un baraccone pop peggio dell’America anni 60/70) e queste duecentocinquanta paginette vergate da Brautigan vanno via come il pane.

Un Richard più svagato (e ispirato) che mai confeziona con il giusto brio una sorta di agile romanzo pulp-umoristico, un noir macchiettistico, quasi una caricatura del genere hard-boiled dell’epoca. Al centro di tutto un personaggio, indimenticabile protagonista da fumetto, motore di una narrazione sfarfallante e gagliarda che ha nell’irriducibile tono ironico il suo vero propellente. Un libro prescindibile, insomma, quanto godibile.

7.5/10

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Willard e i suoi trofei di bowling _Letture

       

Brautigan, finalmente!
Giusto l’altroieri avrebbe compiuto ottantun’anni, non fosse che con lui siamo fermi al condizionale da più di tre decadi. Mi fa piacere che sia giunta l’ora di affrontare questo cappellaio matto della narrativa nord americana, questo hippie allegro e amarissimo che nemmeno gli hippie avrebbero voluto con loro, anche se forse era lui a isolarsi da tutto e tutti. Di Brautigan ho letto tre romanzi in pochi giorni, e poi più nulla. Forse mi tengo il resto per i giorni più adatti, chissà, l’impressione è stata di averne avuto abbastanza, che non si debba oltrepassare la soglia massima consigliata. Di lui sapevo quanto basta, giusto qualche nozione biografica. Non sapevo però che, almeno in Italia, è stato rimosso quasi del tutto come qualcosa di non gradito. Stringata in maniera persino offensiva la sua pagina italiana su Wikipedia, cassata quella a lui dedicata sul sito della Marcos Y Marcos (che ha pubblicato quattro delle sue novelle) , il suo nome nel relativo catalogo autori è assente e anche nei grandi negozi di libri online si trova pochissimo, tutto esaurito da secoli. Resta una canzone – “Brautigan (giorni che finiscono)” – che i Perturbazione gli dedicarono qualche tempo fa, e che ha più il sapore di un omaggio astratto. Così è inevitabile, pensando a lui, che affiori quel po’ di malinconia, indipendentemente dall’infelicità di un’esistenza travagliatissima, chiusasi per suicidio a soli quarantanove anni. Qui analizzo il primo dei tre testi citati, che è anche il più debole del lotto. Scritto in una fase particolarmente difficoltosa (e già declinante) della carriera, “Willard e i suoi trofei di bowling” si configura come un’operina bizzarra e nonsense, indebolita da qualche banalità di genere. Se il personaggio può ancora interessare (difficile perché lontanissimo dall’oggi), l’invito è a non partire da qui, un passatempo pure gradevole che si legge in un’oretta. Decisamente ha scritto di meglio, toccando punte di sbalestrata poesia che non meritano proprio l’oblio cui il suo nome pare destinato. Ne riparleremo, ad ogni modo, quando vi presenterò “Zucchero di cocomero”.

Bob e Constance sono una coppia ai limiti del patetico. Lei è una scrittrice di ventitre anni, apprezzata dalla critica e ignorata dal pubblico, lui un uomo colto e premuroso ma incapace in tutto, eccetto che nell’annoiare il prossimo e nel cedere poco per volta a un Alzheimer impietoso. Per dare un senso al proprio matrimonio dopo uno svogliato tradimento da parte della donna, che non ha portato altro che verruche nelle zone più delicate dei rispettivi corpi, i due imbastiscono uno “squallido teatrino di sadismo e disperazione”, a base di perversioni che – affogate nel mare magnum della plateale volgarità odierna – oggi fanno persino sorridere. Eppure nel loro legame così difettoso, dove letture fuori tempo massimo e giochini erotici ispirati a “Histoire d’O” servono come pur blandi surrogati di un brivido di piacere, regna una tenerezza sconfinata, con l’uomo che si affligge “per l’intera condizione umana” e la donna che, in silenzio, lo ammira. Al piano di sotto, in un piccolo condominio di San Francisco, vivono i loro amici John e Patricia, lui cineasta, lei insegnante di spagnolo, coppia eccentrica nel cui salotto risplende il bagliore “mistico” di una cinquantina di trofei di Bowling vegliati da un misterioso uccello gigante di cartapesta, il Willard del titolo, costruito con abilità da un artista hippie in seguito a un sogno e dotato di penetrante umanità, oltre che di uno sguardo cangiante. I cimeli sportivi appartenevano ai tre fratelli Logan, un tempo belle speranze di un’America pulita e ottimista, oggi devastati dall’ossessione per il furto subito e ridotti al rango di disumane maschere della ferocia, senza più un nome a identificarli nella loro recita da pallide macchiette (il “Fratello Logan lettore di giornalini”, il “Fratello Logan bevitore di birra”, il “Fratello Logan che fa tutto nervosamente”). Tra scherzi di un destino beffardo e esigenze di sceneggiatura, un fatale incontro tra queste tre piste narrative sarà inevitabile.

E’ poco più che un fumetto questo romanzo breve che Richard Brautigan scrisse a metà degli anni 70, in una fase in cui la sua penna scoppiettante stava scoprendo l’amarezza senza ritorno che lo avrebbe inghiottito. Tre storielle scorrono in montaggio parallelo fino all’intersezione conclusiva, ma le istantanee del presente e certi gustosi lampi in flashback sono proposti in maniera beatamente disordinata, sviando di continuo l’attenzione grazie a inserti incoerenti ma rendendo nel contempo inevitabile una previsione sul finale brutale che attende il lettore a un tiro di sputo dall’inizio. Nei frammenti del segmento relativo alla coppia felice “John + Patricia”, tutto l’interesse è riservato alla curiosa presenza in chiave nonsense degli oggetti che danno il titolo all’opera (e sembrano anche più vivi dei personaggi veri e propri), mentre gli spezzoni dedicati ai fratelli Logan (e indirettamente ai loro assurdi genitori, nonché alle tre misteriose “sorelle Logan”, sempre altrove, a far non si sa bene cosa) riescono deboli e farseschi, espediente letterario non troppo brillante per dare voce all’insensata violenza che albergherebbe per natura nell’animo umano, e a maggior ragione nell’America borghese e perbenista degli anni settanta. Per esclusione, le pagine più interessanti rimangono quelle riservate non senza affetto ai disastrati coniugi del secondo piano, eletti a emblema di un’incomunicabilità universale che non preclude, tuttavia, dignità dell’amore e che solo una follia cieca può annientare. Se questa operina non brilla insomma come altri testi dell’autore, Brautigan mantiene tuttavia una leggerezza nel tocco prossima al miracoloso e ha l’indubbio merito di farsi leggere d’un fiato al solo costo di qualche perdonabile banalità.

6.7/10

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