Month: aprile 2010

Lisa Germano & Phil Selway @ Spazio211

27/03/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Lisa Germano di ritorno in Italia. Non da sola tuttavia, bensì accostata a Phil Selway in un improbabile pacchetto promozione per una serie di serate da tutto esaurito, di quelle che col senno di poi avrebbero dovuto essere ribattezzate “Specchietti per le allodole & Perle ai porci”. L’occasione, in teoria, era l’anteprima per l’esordio solista del batterista quarantaduenne, cimentatosi con il canto e la chitarra in un album che non ha ancora un titolo o una scaletta ma che a quanto pare è già stato realizzato, con ospiti di assoluto rispetto. Prima tra tutti proprio la Germano, evidentemente onorata di collaborare con il musicista e di accompagnarlo in giro per il mondo per questa tournee-test, pretesto eccellente per proporre ai suoi fan con non troppo ritardo le canzoni del proprio ottavo LP (tralasciando l’ottimo ‘Slush’ che uscì con l’aggiunta dell’estemporaneo marchio OP8 ed il contributo di Howe Gelb e della premiata ditta Burns&Convertino), ‘Magic Neighbour’. Di quell’ensemble creativa ha fatto parte anche il fidato bassista della fascinosa folksinger dell’Indiana, quel Sebastian Steinberg che fu titolare in uno dei gruppi più intriganti e sfortunati degli ultimi vent’anni, i Soul Coughing di Mike Doughty, e che in questa serata trionfale allo Spazio211 (“trionfale” è da intendersi in termini di incasso) si è fatto apprezzare nonostante i capelli bianchi ed i chili in vistoso aumento sull’addome. Un lancio per Selway – si diceva – ed in effetti il pubblico non ha perso l’occasione per dare il proprio sostegno al più attempato (e meno entusiasmante) dei cinque Radiohead. Almeno sulla carta e almeno prima di ascoltare le canzoni di questo songwriter dell’ultima ora, ché la musica che ci sarebbe stata propinata era destinata a restare un’incognita un po’ per tutti fino all’inizio. Certo non ci voleva proprio una fervida immaginazione per indovinare che di brani della band di Oxford non ne avremmo sentito mezzo, nemmeno un assaggio acustico di trenta secondi a mo’ di contentino. Ma andatelo a spiegare a chi i concerti di musica cosiddetta alternativa non li bazzica mai neanche per sbaglio e non ha magari neppure la maggiore età riportata sul documento d’identità, pur essendo in fissa sicura per questi stramaledetti (e inarrivabili) Radiohead. Miracoli della promozione: sul manifesto dell’evento basta segnare il nome di una band che non si esibirà per garantire ai locali interessati un afflusso spropositato di gente che mai si presenterebbe negli stessi posti una sera qualsiasi dell’anno, sempre che non ci suoni un Greenwood o un O’Brien beninteso. E così ecco la palazzina bassa del 211 incravattata già alle 21.30 da una coda all’ingresso che non si vedeva dai tempi delle più “calde” serate dello spaziale Festival, con intere legioni di pischelli intenti a sopravvivere nel giardinetto minato di stronzi di cane antistante il locale e a conquistarsi un biglietto prima dell’apparizione dell’odioso cartello “Sold Out”. Noi che siamo orribilmente puntuali (e avveduti, dai) siamo arrivati coi primi, risparmiandoci la fila e le temute chiacchiere con il più ributtante indie-freak dell’intero circuito live torinese (ed occasionalmente milanese), il famigerato Testa a palla. Comodamente (per poco) seduti sul gradino che, lo sappiamo, rivelerebbe ad un’attenta analisi l’impronta digitale delle nostre chiappe, abbiamo sorseggiato con amabile nonchalance il nostro drink assistendo con impazienza crescente a questa sorta di show dei record, il locale di musica dal vivo stipato di gente nella maniera più impressionante. Sondaggio ideale non realizzato: quante persone per ascoltare la malía scura di Lisa Germano? Poche, pochissime. In compenso i fan del buon Selway erano innumerevoli ed anche abbastanza spaventosi. Tra i nostri preferiti i due sedicenni che gridavano ogni trenta secondi “dai che adesso sul palco sale Dio” (buona idea per la sceneggiatura di una commediola con Jack Black ed il mite Phil nei panni dell’Altissimo) e soprattutto il loro coetaneo giunto sul posto con il vinile di ‘OK Computer’ da far autografare al musicista (non è uno scherzo purtroppo). La partenza ha spazzato via le loro certezze confermando le nostre, con buona pace di tutti coloro che credevano di assistere ad un certo tipo di evento e con somma goduria per noi pochi incalliti estimatori della Germano, una cantautrice di classe sopraffina. E’ stata lei ad aprire le danze in uno show pianificato con gusto decisamente sobrio, alternando brani dell’uno e dell’altra per rendere assai più variegato e piacevole l’ascolto. Con ‘Pearls’ siamo tornati indietro alla magia di ‘Lullaby For Liquid Pig’ e alla sua calda e toccante vena intimista. Personalmente lo consideriamo ancora una delle più riuscite tra le sue confessioni in musica e quello stile, così intenso e personale, ha in fondo segnato la matrice di tutto il live di Lisa, controllatissimo eppure forte di un magnetismo denso, scuro, irresistibile.

 

Gli spettatori che non erano qui per lei, quasi tutti come detto, si sono mostrati sufficientemente rispettosi da seguire in silenzio la prova della statunitense, ancora convinti forse che avrebbero ricevuto presto quanto desiderato dalla loro benedetta star, in piedi sulla destra a strimpellare poche note di chitarra. Quando è toccato a Phil presentare il suo primo pezzo abbiamo ricevuto le poche indicazioni che ancora ci mancavano per dare forma ad un’opinione piena della serata. Il timidissimo Selway ha cantato la sua canzone con voce fragile ma non così incerta, presentandosi in tutta la delicatezza che evidentemente lo rappresenta a fondo al di là della maschera silenziosa che indossa dietro grancassa e rullanti nella sua band. In tutta la serata ha offerto una decina scarsa delle proprie canzoni, suonandole con una pacatezza encomiabile e la dovuta convinzione, fregandosene del fatto che per molti questa sua naturalezza si sarebbe tradotta in una posa stucchevole e fastidiosissima. Non per noi, che con la massima onestà possibile ci siamo sforzati di apprezzare i pregi di una formula indubbiamente genuina, per quanto assai poco originale e, soprattutto, senza sostanziali variazioni da un episodio all’altro. La prova sincera ma sostanzialmente monocorde dell’inglese è stata salvata e resa tollerabile dal garbo davvero squisito di Phil ma ancor più dal contesto in cui ci è stata regalata, proprio nell’abbinamento alternato con quella di una professionista di razza come la Germano. Canzoni come ‘Breaking Promises’, ‘Falling’ o ‘Running Blind’, annunciate da Selway, non sono parse malvagie per quanto un po’ esangui, insapori, laddove anche i titoli meno riusciti tra quelli scelti da Lisa parevano colorarsi quasi automaticamente di vita e di una luminosa, sottilissima, enfasi drammatica. Con il correre dei minuti abbiamo potuto celebrare la validità di alcuni (indiscutibili) dati di fatto. In primo luogo il divario tra i contributi di questi due headliner: lui ordinario ben più che nelle intenzioni, costretto a recitare la parte dell’innocuo ed un po’ patetico pesce fuor d’acqua in territori ben diversi da quelli cui è abituato, lei titanica nello sfoggio di un’energia invisibile eppure innegabile, sensuale nelle sue cadenze lente nonostante le rughe che non ricordavamo sul suo viso. Anche la palpabile rassegnazione dei fan dei Radiohead è parsa evidente: una tranquillità forzata e quasi auto-imposta che ha detto molto più dei fischi che non abbiamo sentito, a conferma di quelle innumerevoli e rumorosissime speranze della vigilia andate giustamente deluse. Osservando e prestando orecchio al Phil primattore verso la fine del concerto abbiamo avvertito una certa stanchezza, presto rimpiazzata da una fugace quanto efficace sensazione d’ilarità, spontanea e del tutto bonaria. Ci è tornato alla mente quel comico televisivo che a Zelig o in trasmissioni simili impersonava un parimenti delicato folksinger carioca, con analoga zucca lucida e maglietta verdeoro d’ordinanza. Selway ci perdonerà il colpo basso ma, all’ottava canzone della stessa risma, ci è apparso davvero come la più formidabile parodia di quel tizio della tivù. Non così mediocre di certo da meritargli quella dedica speciale ‘You Suck!’ sul bigliettino recapitatogli direttamente tra un pezzo e l’altro, in un momento in cui sembrava più logico raccogliesse qualche timido applauso piuttosto che l’insulto gratuito di un sicuro idiota. Sportivamente l’improvvisato cantante ha riso, ma dello stesso “riso che non si cuoce” descritto da De Amicis. Al microfono, con la chitarra, le tastiere o il violino, Lisa è invece andata avanti per la sua strada ottimamente scortata dai musicisti e da un Phil abbastanza triste anche negli accompagnamenti, con l’acustica, lo xilofono, un tamburo o una bottiglietta di minerale riempita con la sabbia. Nessun brano dal memorabile ‘Geek The Girl’, purtroppo, e pochissimi estratti anche da album datati, tipo ‘Candy’ o ‘Electrified’. Ricchissima invece la rappresentanza eletta dalla sua più recente fatica discografica, a riprova di come ‘Magic Neighbour’ fosse una raccolta di canzoni di tutto rispetto nonostante le non poche critiche miopi raccolte. I momenti migliori li hanno offerti una sinuosa ‘Suli-Mon’, la trasfigurazione dell’infanzia nell’incantevole ‘The Prince of Plati’ (dedicata al padre) o passaggi più coinvolgenti quali ‘Simple’ e ‘A Million Times’. Alla fine parecchi applausi da parte di una platea costretta ad ammettere che la sconosciuta icona indipendente sapeva il fatto suo, assai più del celebrato batterista rock. Spiace per l’affabile Phil Selway, ma questo è un successo che sentiamo anche nostro e che ci portiamo a casa molto volentieri.

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Where’s the flood?

 

OK, questo post è rivolto a tutti i nostalgici dell’alt-country dei primi anni novanta, gli altri si astengano pure dal leggerlo se vogliono risparmiarsi reazioni allergiche o una devastante morìa delle cellule di Hype nel loro inossidabile organismo alternativo. Già solo il nome potrebbe causare effetti indesiderati e, se così fosse, qualcuno me lo segnali perché intendo recitarlo come un mantra, come il canto del muezzin almeno un paio di volte al giorno. Jayhawks. Dice qualcosa? Beh certo, non occorre aver studiato alla Pitchfork University per sapere che si tratta di una delle più importanti band americane del decennio passato, anzi no, di due decenni fa. Benissimo, ma qualcuno li ha provati? Cosa più importante, qualcuno ha loro notizie? E’ da un secolo che ho in sospeso questo pezzo su ‘Ready For The Flood’, opera scritta a quattro mani da Mark Olson e Gary Louris come primo segnale di un ritrovato legame tra i due cantautori. Le relative note che avevo scritto dopo aver ascoltato una manciata di volte il disco sono finite in fondo ad un cassetto rimanendovi un annetto buono. Eh sì, perché questo piccolo album è uscito all’inizio del 2009, quando novità ancora più confortanti sul conto di una delle band che più ho amato sembravano pressoché imminenti. Invece niente da allora e di questo lavoro minore mi sono scordato molto in fretta. A ragione, se lo raffrontiamo con i capitoli più riusciti della discografia di entrambi i protagonisti, nel segmento vissuto in condivisione come nei progetti sviluppati autonomamente. A torto, se si tiene conto della caratura dei due autori che lo hanno firmato, due giganti assai poco considerati oggi come oggi. Il presente sembra giocare a sfavore di Olson e Louris, non c’é dubbio. I due hanno raccolto poco da quando le loro strade si sono divise, e questo è vero soprattutto per gli ultimi dieci anni. Doveva essere aprile o maggio del 2000 quando uscì ‘Smile’, secondo LP dei Jayhawks senza Olson. Un disco che osava flirtare col pop, palesando l’insaziabile vena onnivora di Louris come creativo aperto alla contaminazione e alla leggerezza. E’ incredibile pensare che da allora la band di Minneapolis abbia pubblicato solo un altro album, ‘Rainy Day Music’, lontano peraltro sette lunghissimi anni. Per Olson, il vero purista tra i due, le cose sono andate meglio parlando di sforzi compiuti ed opere pubblicate, anche se il suo restare fedele ad un credo musicale ed estetico più rigido e datato lo ha condannato in una nicchia sempre più angusta e scomoda. Certo l’ortodossia delle proprie più ferme convinzioni stilistiche deve aver rappresentato una soddisfacente spinta, abbastanza per guardare ad un sempre più triste anonimato come un prezzo onesto da pagare. Mi piace credere che sia stato proprio ‘Rainy Day Music’ a smuovere le acque. Dopo anni di svolte briose, di psichedelia edulcorata in pillole dal gustoso sapore beatlesiano (in tutti i progetti che lo hanno visto in cabina di comando), Gary Louris ha sancito con quel disco l’esigenza di tornare alle origini: alle trame semplici, alle chitarre elettracustiche, al taglio dell’inessenziale, ai demo della Bunkhouse, al country-folk neanche più troppo alternativo ma suonato come Dio comanda. Dieci anni prima il loro ideale fratello in quella battaglia, Jeff Tweedy, era ancora ben poca cosa. Gli Uncle Tupelo avevano lasciato il segno, anche se molta della farina l’aveva messa Jay Farrar. I Jayhawks però erano meglio. I Jayhawks tra ‘Blue Earth’ e ‘Tomorrow The Green Grass’ per intenderci, quelli con la doppia guida. Poi le cose sarebbero cambiate enormemente con la loro separazione e la parallela crescita autoriale del leader dei Wilco, in direzioni che i due non si sarebbero mai sognati di prendere. Quasi in contemporanea con ‘Yankee Hotel Foxtrot’ e con ‘A Ghost Is Born’, ‘Rainy Day Music’ veniva ad annunciare un ritorno al piccolo mondo antico degli anni d’oro, dopo gli sfarfallamenti pop-rock del rilancio del marchio operato da Louris a breve distanza dalla paurosa sbandata della rottura. Tre anni più tardi Olson avrebbe divorziato da Victoria Williams, la cantante malata di sclerosi multipla per stare con la quale era uscito a sorpresa dai Jayhawks e questo avrebbe segnato automaticamente la fine dei Creekdippers, la band "coniugale", dopo ben sette LP. Naturale che Olson si sia trovato disorientato a quel punto. Senza compagna, senza band, perfino senza la casa costruita con le proprie mani a Joshua Tree. La fotografia di quell’amarezza e di quel momento di svolta si chiama ‘The Salvation Blues’, primo ed unico vero lavoro solista di Olson ed episodio cruciale per comprendere la controrivoluzione che il Nostro avrebbe preparato di lì a breve. Un album sofferto e maturo, intimo e confidenziale ma anche orgoglioso, con dentro il primo germoglio di un ritorno al passato remoto: ‘Poor Michael’s Boat’, una canzone scritta a quattro mani da Mark e Gary dopo ben dodici anni.

 

Da una piccola e acerba collaborazione al rientro di Olson nella squadra il passo è stato breve, quasi naturale. Quando se n’era andato non c’erano stati strappi. Si era trattato di una scelta di vita radicale, non certo difficile da comprendere e accettare. Questo sicuramente deve aver contato, facendo sì che i rapporti tra i due leader (ma anche con Marc Perlman, altro membro storico dei Jayhawks) non si guastassero e la stima permanesse anche nella distanza. L’apertura da parte del gruppo è stata una mano tesa ad un amico in crisi d’identità. Mark ha iniziato suonando dal vivo con gli altri in una lunga serie di concerti negli Stati Uniti, dal 2007 a fine 2009. Gary ha precisato che quella dimensione sarebbe rimasta l’unica, salvo improbabili sviluppi successivi in studio, e questa sua previsione è stata presto smentita proprio da ‘Ready For The Flood’, la tappa successiva, orchestrata in fase di produzione da un consumato diavolaccio come Chris Robinson (per l’occasione sobrio fino al paradosso): un album tutt’altro che stratosferico ma senza dubbio incoraggiante, un lavoro utile a riannodare i fili di una vecchia amicizia e a dare smalto ad un’affinità entusiasmante, interrotta parecchio tempo prima. Il taglio del disco è rigorosamente elettracustico ed ha come risultato più immediato una vivida impressione di Jayhawks in versione unplugged. Come ogni collaborazione che si rispetti, gli equilibri tra le forze in campo sono assoluti e democratici (emblematica ed ecumenica ‘Turn Your Pretty Name Around’), evitando di dare spazio ad un primattore. In qualche caso (come l’apertura di ‘The Rose Society’) Mark pare prendere le redini in mano con Gary a suo agio nelle retrovie, in altri (‘Black Eyes’, ‘Bicycle’) è invece quest’ultimo a offrirsi come mattatore controllato, anche se è sempre la limpidezza dei rispettivi impasti vocali a svolgere il ruolo di protagonista. Questi brani pacatissimi, semplici, genuini, sono testimonianze d’un garbo d’altri tempi, con le loro belle armonizzazioni, la malinconia dei fuoriclasse, gli arrangiamenti eseguiti a regola, anche se alla prova dei fatti possono risultare un tantino fiacchi. Pure in momenti di maggior vivacità, dove osano come diversivi una chitarra elettrica (‘Chamberlain, SD’) o un mandolino (‘Bloody Hands’), i vecchi leoni si accontentano di bozzetti tutto sommato innocui e sembrano divertirsi: un elogio della tranquillità articolato in tredici stazioni, raffinato e sempre gradevole. Chiunque non abbia familiarità con questi artisti potrebbe trovarli soporiferi e il suo punto di vista sarebbe comunque legittimo. E’ indubbio che Mark e Gary non graffino come in passato, è evidente che non ne abbiano la minima intenzione. Sentirli così caldi e confidenziali (soprattutto il secondo) fa comunque piacere. Non è neanche vero che tutto il materiale usato sia poi così ordinario: ‘When The Wind Comes Up’, con ogni probabilità la più bella canzone del disco, è un gioiello acustico ricco di sfumature vocali e suggestioni emozionanti, frutto di una sintonia che rasenta la perfezione. Olson ha lasciato l’impronta. Il suo maggior pregio sta nell’aver quasi costretto alla sobrietà il compagno, più esuberante di lui ma spesso (si veda l’album solista ‘Vagabonds’, 2008) portato a calcare la mano con qualche inutile e ridondante esagerazione pop. Una dieta espressiva che, evidentemente, ha giovato ad entrambi. Tra aromi sixties ed un tono à la Simon & Garfunkel che non guasta (‘Saturday Morning on Sunday Street’), l’illusione di un ritorno alla pastorale americana di ‘Tomorrow The Green Grass’ (‘Doves and Stones’) e una collezione di brividi equamente ripartiti tra i primi Jayhawks ed i Golden Smog di ‘Jennifer Save Me’ (‘My Gospel Song For You’), un fascinatorio effetto madeleine è garantito. La riprova arriva indiscutibile con la chiusura di ‘The Trap’s Been Set’: sul filo di lana Olson e Louris giocano la carta di un coinvolgimento emotivo pieno, in un duetto di cuore e sicuro impatto che fa il verso vent’anni dopo ai brani memorabili di ‘Blue Earth’, con più consapevolezza e meno ardore. Questo lavoro gentile e discreto, offerto quasi in sordina agli aficionados dello storico marchio Jayhawks, non ha avuto per ora alcun seguito concreto. Ciò nonostante è lecito sperare che sia vero quanto cantato dai due nell’ultimo brano, che la trappola per i nostalgici sia effettivamente pronta. Non ci resta che attendere il frutto in un nuovo disco, con Olson, Louris, Perlman, O’Reagan e tutta la carica dei bei tempi che furono. Noi siamo pronti per la piena. Quando arriverà?

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Evan Dando @ Hiroshima

16/11/2009 _ Il nostro (altro) concerto

 

Parte con questo pezzo su Evan Dando una sorta di rassegna secondaria di live report, appositamente ideata per tenere traccia di alcuni concerti recenti che non hanno trovato altra cittadinanza in rete, oppure per raccontare con taglio più romanzesco alcune tra le migliori esperienze dal vivo cui ho avuto la fortuna di prendere parte.

Mai capito come funzioni la testa di Evan Dando. Mai afferrato il senso di una carriera gettata alle ortiche per via di un’incostanza a dir poco scellerata, e di tutta una serie di irritanti fragilità caratteriali che hanno minato successi commerciali e probabili affermazioni artistiche, mettendo a rischio perfino la vita di questo enigmatico cantante americano. Non importa. Dando è Dando e lo prendiamo come viene, anche perché il modo in cui si è reinventato negli ultimi dieci anni lascia presagire un più che dignitoso prepensionamento, sufficientemente maturo e – cosa più importante – al riparo dai burrascosi eccessi della sua età dell’oro. La fama arrivata comunque inattesa, dopo anni di gavetta hardcore melodica sulla scia di Replacements e Hüsker Dü, aveva il volto ambiguo del frontman capitato per caso: la stessa pulitissima faccia da schiaffi del figlio di papà degli esordi, giusto con qualche accorgimento estetico che lasciasse intendere un’inclinazione trasgressiva, una di quelle buone negli anni ruggenti della prima MTV generation. Capello lungo, aria finto angelica e look finto trasandato: un taglio che fosse buono per i teenager ma anche per i genitori, mica come certe bestiacce che passavano ugualmente in heavy rotation sugli stessi canali in quei giorni. Per fortuna le canzoni dei Lemonheads c’erano eccome e l’apparenza servì più che altro come richiamo. Evan il bello divenne famoso, corteggiato dai media e drogato perso. Cioé, perso non proprio, ma per un pelo. Seppe ritrovarsi dopo qualche tempo con un disco intenso e snobbato come ‘Car, Button, Cloth’, ma la popolarità già in declino e gli scarsi riscontri peggiorarono ulteriormente le cose sancendo la fine di quella prima esperienza a marchio Lemonheads. Di personaggi anche talentuosi eletti al rango di superstar e bruciati a velocità supersonica se ne erano già visti tanti, anche negli anni ’90, per cui il destino del vulnerabile cantante di Boston sembrava segnato irrimediabilmente, con buona pace di chi aveva amato le delicatissime canzoni di ‘Lovey’, ‘Come On Feel’ e naturalmente ‘It’s a Shame About Ray’. Una morte in preventivo quindi, ad andar bene un doppio tuffo carpiato nell’oblio ed amen. Invece no. Il ritorno di Evan, nel 2003, è stato di quelli silenziosi ma confortanti, una miracolosa testimonianza di come a volte gli strappi alla regola esistono, soprattutto quando si parla (a vanvera magari) di perdizione. Il riscatto affidato ad un piccolo album che ha dentro alcune delle canzoni che preferisco tra tutte quelle di Evan, ‘The Same Thing You Thought Hard About Is The Same Part I Can Live Without’ in testa. Soprattutto la rivoluzione nel tono adottato in termini di songwriting e produzione, la scelta di un basso profilo e di un orientamento confidenziale che nell’ultimo Lemonheads era stato effettivamente accennato ma che ora trovava il sigillo di un’autenticità piena e toccante, mai posticcia o di comodo. Un ottimo primo passo, dunque, come ritorno alla vita artistica, seguito dopo qualche tempo dall’opportuna riesumazione della storica ragione sociale e dalla rinnovata attitudine indipendente degli esordi. Per un vecchio fan come il sottoscritto si concretizzava la possibilità di ritrovarlo finalmente su un palco invece che nei soliti trafiletti sulle riviste specializzate. Il tour del rilancio me l’ero perso ma ho rimediato a fine 2008, con un nuovo passaggio italiano dei Lemonheads. Bellissimo concerto quello dello Spazio211 (al cui report si accede dalla foto qui sotto), una smentita definitiva al falso mito del cantante orco irascibile e, per contro, una conferma della sua sostanziale sbroccatezza, della sua vena strampalata e struggente, di quelle canzoni sempre uguali a loro stesse e sempre favolose, anche se sgualcite o costrette nella cornice di un’esecuzione sbrigativa e arruffata.

  

Ovviamente ci fu chi parlò male di quel concerto fermandosi alle etichette, piegandosi alla comodità di stereotipi vecchi di quindici anni e guardando con proverbiale miopia solo alla superficie dello show, senza capacità di soffermarsi tra le righe, nelle ellissi, nel "sottotesto", diciamo così. Quel critico così accorto e sicuro del fatto suo sarebbe inorridito assistendo ad uno dei concerti che Evan ha portato in tour alla fine dell’anno scorso, presentandosi con il proprio nome e senza una vera band di contorno, se non si considerà il vecchio (e fidatissimo) amico Chris Brokaw che ha aperto per lui molte date e, in qualche caso (non qui a Torino però), suonato qualche pezzo assieme a lui. Avrebbe sputato le peggiori sentenze il nostro caro recensore dabbene, presenziando ad un live che di promozionale aveva davvero poco o nulla (l’uscita discografica più recente – l’album di cover ‘Varshons’ – non è stata pubblicizzata da Dando che si è limitato ad includere qualche pezzo appena nel flusso torrenziale che è stata la sua esibizione) e che ha del tutto rifiutato il concetto di spettacolarità, limitando la performance ad una serie ininterrotta di brani elettracustici per voce e chitarra, in piedi sotto un faretto quasi spento davanti ad un pubblico che definire esiguo è dire tanto. Non so come la pensiate voi in merito all’impatto che un’esibizione dal vivo dovrebbe avere, quello che posso dire io è che la serata con Dando all’HiroshimaMonAmour è stata semplicemente magica. Trenta spettatori malcontati (ma motivati), un Evan all’apparenza non proprio lucidissimo ma sicuramente ispirato, pochi dettagli a rapire l’attenzione (come la foto delle figlie sulla chitarra) e poi unicamente la sua prova, sviscerata senza vere pause inannellando una dopo l’altra tante delle perle scritte in anni di carriera, tra quelle che meglio si prestavano per una simile resa sonora. Una sorta di collana che ci ha presentato Dando al di là della facile maschera dei Lemonheads, lontano dai riflettori, le sue canzoni al grado zero, senza inutili abbellimenti e dunque al massimo della loro purezza, rustica e delicata insieme. Il senso di uno show così unico sta tutto qui. Non è usuale affrontare un repertorio di tale qualità in una forma tanto inconsueta ma emotivamente potente come quella scelta dal sopravvissuto di Boston come intima e formidabile autoconfessione. Un collage lungo una buona ora e mezza, che ha tenuto insieme con coerenza straordinaria pezzi dell’unico passaggio solista di Evan (ottima ‘My Idea’), rari frammenti da ‘The Lemonheads’, un tripudio di successi dai due album più famosi e qualche rivisitazione di quelle già proposte in ‘Varshons’, album che, a parte qualche pessimo scivolone (vedi l’orrendo trash-pop di ‘Dirty Robots’) ha avuto l’indubbio merito di renderci una fedelissima cartolina del Dando di oggi, adulto, posato e (sottilmente) tenebroso come un Mark Lanegan dalla voce più umana. Non deve stupire che la cover di ‘Beautiful’, brano di Linda Perry portato al successo da Christina Aguilera (!), si sia rivelata una delle vette dell’intera serata: nell’interpretazione di Evan questa canzone ha trovato una sincerità davvero disarmante e pareva essergli stata cucita addosso dal primo istante. Un po’ come le foto scattategli in una penombra radicale, da lui espressamente richiesta al tecnico delle luci a inizio concerto: istantanee di cui per una volta sono soddisfatto (il link alla galleria è nella prima immagine in alto), in quanto credo abbiano colto la sua attuale bellezza ruvida, crepuscolare, lontanissima da quella delle copertine di ‘People’. Alla fine un sacco di applausi con lui che ci ha lasciati sorridente e non è più tornato sul palco, evidentemente sconfortato (come tutti noi peraltro) da una presenza così scarsa di spettatori. Dopo i saluti al bravissimo Brokaw al banchetto del merchindising, allestito per ospitare unicamente dischi dell’ex Come ed ex Codeine (e questo la dice lunga sulla totale indifferenza al business del ritrovato leader dei Lemonheads), fuori dall’Hiroshima ho approfittato per appuntarmi su di un foglio, tra una chiacchiera e l’altra, tutti i pezzi che ricordavo di aver sentito. Una trentina circa (un paio me li sono persi, mi sa) che presento di seguito come scaletta del live in ordine assolutamente aleatorio. A conti fatti, una canzone ogni spettatore. Ad un concerto dei Lemonheads, se vogliamo. Provate a dirmi che non é una cosa incredibile…

‘No Backbone’ / ‘Whoops’ / ‘Layin’ Up With Linda’ / ‘Hospital’ / ‘Repeat’ / ‘New Mexico’ / ‘Frying Pan’ / ‘December’ / ‘It’s All True’ / ‘My Drug Buddy’ / ‘Down About It’ / ‘Hannah & Gabi’ / ‘It’s About Time’ / ‘Why Do You Do This To Yourself?’ / ‘The Great Big No’ / ‘Pittsburgh’ / ‘Into Your arms’ / ‘Confetti’ / ‘Rockin’ Stroll’ / ‘All My Life’ / ‘That’s No Way To Say Goodbye’ / ‘The Outdoor Type’ / ‘Frank Mills’ / ‘It’s a Shame About Ray’ / ‘If I Could Talk I’d Tell You’ / ‘My Idea’ / ‘Beautiful’ / ‘The Turnpike Down’ / ‘In The Grass All Wine Colored’

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Folk Songs

 

Paradossi del mercato discografico. Quando una delle più grosse tra le etichette indipendenti sceglie il catalogo con le uscite per il mese di agosto, è fin troppo facile pensare che si limiti a trovare una collocazione temporale per qualche rimasuglio della precedente stagione, giusto per risultare in piena attività nel computo delle pubblicazioni e dare una pallidissima soddisfazione a chi si ostina a cercare validi prodotti musicali anche nei periodi più improbabili. Con i film non è cosi raro che, in mezzo alle tante nefandezze programmate in sala nelle settimane più calde dell'anno per la gioia del becero pubblico vacanziero, trovi un posticino in transito anche qualche pellicola meritevole, in ritardo magari di un paio di anni rispetto a paesi un po' più accorti del nostro. Questo capita naturalmente anche in ambito musicale, lo rileviamo spessissimo. Certo nel caso di 'Folk Songs', quinto album di studio (se si esclude una raccolta di B-side e rarità varie) per il promettente cantautore scozzese James Yorkston, la piena sincronia nella programmazione dell'uscita sulle due sponde dell'Atlantico alimenta proprio quella fastidiosa sensazione di scarto pianificato. La Domino tira a lustro la sua maschera più alternativa, gli artisti interessati non rompono le scatole e gli sfigati che ascoltano ancora generi come il folk non hanno motivi per lamentarsi. Fa un po' ridere solo il fatto che queste canzoni siano per molti versi quanto di più lontano si possa concepire rispetto all'immaginario agostano che ogni anno trova la più puntuale delle conferme nei tormentoni cialtroni che ci vengono propinati ad ogni livello. Ad agosto si deve fare casino, ci si deve divertire, occorre la colonna sonora giusta: pochi pezzi che imbambolino o spacchino, fino alla nausea. In questo quadro il disco di Yorkston è tutto un altro pianeta, refrattario alle mode, indifferente ai cliché commerciali e tenacemente fedele alla sua stessa denominazione, etichetta poco fantasiosa ma a marchio di qualità artigiana protetta. Nel pezzo su Monthlymusic ho inteso affrontare con ironia la (giocoforza) scarsa aderenza di questo lavoro agli stereotipi più raffermi nella sottocultura di riferimento per la stagione estiva, ma l'ho fatto rovesciando la prospettiva e promuovendo questa snobbatissima proposta come il più ideale dei rimedi contro la canicola, specie per gli sventurati che a Ferragosto non si godono l'anguria in spiaggia bensì l'afa cittadina. Io l'ho vissuto così ovviamente, e posso assicurare che questa rivisitazione ad ampio raggio dei più svariati traditional folk si è rivelata una gradevole quanto insperata via di fuga. Non immaginavo di poter tollerare così bene materiale fermo nel suo rigore di genere e nella sua conformazione espressiva in fondo assai limitata, quella degli esercizi di stile pure non accademici. Il merito è tutto di questo quasi quarantenne scozzese, uno cresciuto a strettissimo contatto con alcuni dei più validi artisti emergenti della sua generazione nel medesimo contesto musicale: Kenny Anderson aka King Kreosote, che l'ha lanciato all'interno del ristretto collettivo della Fence Records, ma anche Alasdair Roberts, forse il miglior folksinger "giovane" di tutta la scena britannica. L'aver lavorato a vario titolo (o anche solo l'aver condiviso il palco) con gente come Lambchop, Tindersticks, Beth Orton e Cathal Coughland (sì, proprio il mitico cantante degli indimenticati Microdisney), ha fatto il resto e non può che aumentare i pregi d'esperienza per un songwriter di nicchia ma anche di indubbio spessore, confermati da una lunghissima militanza nella scuderia Domino e da una serie di album molto belli (da segnalare almeno 'The year of The Leopard' e 'When The Haar Rolls In', tra i più recenti). Questo 'Folk Songs' è un capitolo a parte e merita un discorso a parte, per il quale rimando alla recensione e all'ascolto, naturalmente. Se il genere, le sonorità e gli standard in questione non vi urtano, questo album può rappresentare per voi una piacevole immersione in territori oggi così poco battuti anche nella scena alternativa. Un bignami che guarda più al folk british dei bei tempi andati (ma non solo a quello, è importante ribadirlo) che alle rivisitazioni yankee à la Fleet Foxes. Un bel diversivo dunque, oltre che una sorta di ricco ed affascinate compendio. Canzoni che non approdano quasi mai ma pulsano, si dispiegano in progressione incidendo poco per volta, nella ripetizione come nelle variazioni minime. Dentro si apprezzano l'incanto, un respiro antico, la pulizia scarna del taglio intimista ma anche una freschezza quasi floreale, spaziando tra un'ampia gamma di soluzioni come a voler smentire il luogo comune della musica folk come universo angusto e noiosissimo. Come comune denominatore la disciplinata purezza dello sguardo del cantautore, oltre alla pregevole fattura di arrangiamenti affidati in buona parte alla band dei Big Eyes Family Players, compagnia in cui suona tra gli altri (l'ho scoperto da non molto) anche l'eccellente Nancy Elizabeth Cunliffe.

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