Month: aprile 2018

Sotto una Buona Stella _Letture

       

Era un bel po’ di tempo che non scrivevo qualcosa su Richard Yates. Lo faccio ora nel presentare l’ultimo dei suoi titoli pubblicati in Italia, “Sotto Una Buona Stella”, all’esordio assoluto in italiano nonostante si tratti del secondo romanzo del Nostro e sia vecchio quasi mezzo secolo. Evitare di ripetere quanto già detto in precedenza è impossibile, e allora lascio parlare la recensione. Giudizio arrotondato a 9.0 perché non si possono affibbiare a Yates meno di cinque stelle… 

 

Robert Prentice è un diciottenne fresco di diploma, ma non esattamente il classico giovanotto di belle speranze. Nell’imminenza di un futuro che già bussa prepotente alla sua porta non ci sono impieghi favolosi, né relazioni con fanciulle da cartolina, bensì i campi di battaglia europei del secondo conflitto mondiale ormai agli sgoccioli. Il ragazzo non sarà certo un fenomeno di maturità e consapevolezza ma non pare darsi pena del destino che incombe. In fondo, la guerra può rappresentare un’opportunità formidabile e fare di lui l’eroe che ha sempre sognato di essere, nell’ingenuità di quelle sue prospettive così limitate. E poi, a guardar bene, che cosa lascia a casa? Una famiglia che è solo sua madre Alice, donna assillante oltre ogni immaginazione, e nient’altro: beni, passioni, progetti concreti. Proprio nulla. Nemmeno la suddetta casa, in fin dei conti, visto che dai tempi lontani del divorzio dei genitori ha sempre vissuto la pena di un’esistenza girovaga attraverso gli Stati Uniti, un patetico e lento declino – dal benessere impossibile della buona società di provincia a sistemazioni sempre più umili e avvilenti – a rimorchio della donna e delle sue ambizioni ormai irricevibili.

 

Il fronte come fuga dall’infelicità e dal vuoto delle sue giornate, il fronte come riscatto definitivo. Questo sulla carta, dove non fa una piega. Ma quelle speranze così gracili non potranno che infrangersi contro il muro della realtà, nel fango del Belgio, della Francia, della Germania, per tradursi in una nuova forma di incompiutezza e smarrimento. Se non altro, però, il disincanto accumulato in pochi mesi avrà buon gioco nel mandare in pezzi quella vecchia catena, di frustrazione e dipendenza, che lo opprime dal primo giorno. Un futuro, forse, sarà ancora possibile per lui.

 

Impacciato, indifeso, invidioso delle coppiette che incontra per le strade di New York nell’ultima licenza prima di partire. E’ così che ci viene presentato (ri-presentato in realtà, essendo già apparso in uno dei racconti di “Undici Solitudini”) il mite, imbelle Bobby, primo vero alter-ego dello scrittore di Yonkers, qui al secondo romanzo (“A Special Providence” sarà pubblicato nel 1969, otto anni dopo “Revolutionary Road”). Per inquadrare Alice con la necessaria precisione, non occorre molto di più, anzi. Bastano un paio di pagine e la si è già riconosciuta senza possibilità d’errore, la madre di Yates che abita tutte le sue opere con quell’intonazione tra lo sfatto e il nevrotico, e un bicchierino di whiskey sempre a portata di mano. Una donna inerme, minuta, stanca, ansiosa di piacere e di non passare per la fallita che è. Una donna che sognava di affermarsi come artista eminente, scultrice che plasma la creta e lavora la pietra grezza, ma le cui velleità sono state piegate presto da avversità di varia natura, un matrimonio senza capo né coda, un altro legame sentimentale minato dall’inganno e la grande depressione implacabile sullo sfondo, beffardo accompagnamento al disfarsi del suo personale sogno americano.

 

Un’ “odissea isterica”, la sua, alleviata solo dall’amore e la fede incondizionati di suo figlio, quel “meraviglioso cameratismo” a lungo vagheggiato e in cui si troverà a credere solo più lei, visto che il sentimento del ragazzo piegherà piuttosto verso una “pazienza cupa e amorevole”. Nei suoi confronti Robert pare dilaniato, tra il disprezzo silenzioso per la sua ignoranza, per il suo ottuso egocentrismo e le sue bugie, e l’impossibilità di affrancarsene, di sgravarsi di una pietà che è anche e soprattutto un “cercare rifugio nella consolazione” di quelle stesse menzogne condivise.

 

Ancora una volta i personaggi di Richard Yates appaiono schiavi indimenticabili. Di se stessi, ovvero dei propri sogni impossibili, ma anche degli altri, dei loro affetti e, come se non fosse abbastanza, dell’alcool in cui affogare tutta la loro sconfinata (e altrimenti non silenziabile) amarezza. Dopo un’introduzione a mo’ di ribalta condivisa, prima della partenza di Bobby per l’Europa, ecco lo sguardo del narratore americano seguire i suoi protagonisti come in montaggio alternato, la sua lucida prospettiva realista a fare da comune denominatore: il presente di Robert, dapprima giovane zimbello dei commilitoni nel campo addestramento reclute, quindi fragile soldatino senza carattere in balia degli eventi nel teatro bellico; e i trascorsi di Alice annientata nella solitudine, illusa dalla gentilezza del nuovo compagno, Sterling Nelson, tormentata dalla garbata disapprovazione della sorella Eva, pervicace nel suo ottimismo stoico e un po’ triste.

 

Rispetto alle altre donne dei romanzi di Yates, Alice è segnata da una disperazione placida e mai davvero rovinosa. Soffre in silenzio ma non si abbatte, nonostante quel senso di abbandono ritornante, e non si piega al rancore come diverse sue omologhe in altre opere (si pensi alla straordinaria Grace di “Cold Spring Harbor”), non è incattivita da un livore allo stadio terminale.

 

In ultimo, il ritorno al fronte e a un conflitto che si conclude nella desolazione. Un compagno d’armi morto fuori scena in modo assurdo, e tutto che sembra sempre più privo di senso, nella maniera più banale possibile. Se il cameratismo si rivela nulla più che una fugace illusione, la guerra stessa non potrà essere che l’espediente per espiare colpe soltanto immaginate. Ma anche questa, nel gioco a schema libero del caso, resta una pur vana speranza. A differenza che nei film, i combattimenti non plasmano eroi, non servono a regolare conti o a dimostrare alcunché. Soprattutto, non offrono risposte che già non si conoscano. L’implicito parallelo tra i due soggetti pare, in tal senso, evidente. Bobby sui campi di battaglia è come la madre in giro per gli States, sballottata da una destinazione all’altra senza mai riuscire ad essere l’attrice della sua stessa esistenza: entrambi inadatti, entrambi fuori contesto e fuori fuoco, entrambi rassegnati a mentire a se stessi per non dover guardare in faccia la realtà e provare a cambiare le cose. Ma se Bobby alla fine riuscirà a fare quel minimo scatto, il medesimo sussulto verrà negato ad Alice, e la sua resa all’inganno sarà ineludibile.

 

Pubblicato per ultimo in Italia solo grazie all’opera meritoria di Minimum Fax, “A Special Providence” è l’ennesimo grande romanzo del narratore statunitense. Forse il meno crudele, a dispetto dei temi affrontati, di certo il più autobiografico. In alcuni frangenti (su tutti la parentesi-miraggio in cui appare il falso gentiluomo Sterling Nelson, o la patetica fissazione con cui Alice si aggrappa a quella remota istantanea di notorietà, pubblicata da una nota rivista), siamo senza dubbio dalle parti del miglior Yates.

9.0/10

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Pornonazi _Letture

       

Oh, questo è davvero un romanzone favoloso e mi fa piacere presentarvelo. “Pornonazi”, titolo che è tutto un programma ed è assistito a dovere dagli stralci fuorvianti della critica piazzati con scaltrezza nella quarta di copertina. Poco nazismo grazie al cielo, almeno in termini nostalgici, e ancor meno sporcaccionate stile Cinquanta Sfumature. In cambio una spy story che si diverte a volare altissimo, specie quando il crepuscolo decadente si infiamma su una Germania prossima all’anno zero. Caldamente consigliato!

Febbraio 1941, Berlino. Karl Fußmann è un giovane chimico, magnetiseur amatoriale e feticista degli stivaletti. E’ appena stato assunto come assistente scientifico presso l’Istituto d’Igiene delle SS, al servizio di una “selezionata comunità di accademici falliti e addormentati”, per sintetizzare un rimedio contro la malaria che consenta alle truppe di Rommel di non rischiare di perdere la cruciale campagna militare nei deserti del nord Africa. Insofferente alle ipocrisie borghesi della bella società, l’“assembramento di larve e parassiti” frequentato dalla fidanzata Johanna, rappresentante di moda e cantante su lussuose navi da crociera, recita la parte di una tranquilla coscienza critica nel retrobottega del regime nazionalsocialista. Quasi subito viene assegnato alle dipendenze del sottotenente SS conte Ferfried Gessner detto Ferrie, aristocratico, sportivo, dandy, di bella presenza e con una passione per l’entomologia e i documentari.

 

Mentre il suo talento comincia a farsi apprezzare nei laboratori del Reich, è proprio il brillante superiore ad “assoldarlo” per una segretissima missione collaterale, consistente nel recapitare preziose pellicole a colori Kodak al suo cameraman di fiducia, Aurel B. Holsten, nell’arcadia montana di Berchtesgaden, alta Baviera. In questo luogo, prossimo al celebre rifugio hitleriano del Berghof, Ferrie e il suo sodale realizzano i film pornografici della loro clandestina società cinematografica, la Sachsenwald Naturfilm GmbH, a quanto pare su incarico di alti papaveri per far sì che le truppe non sfoghino i propri bollori con meretrici malate di sifilide, in realtà per ottenere ricchissime concessioni petrolifere dai magnati in Libia, pronti a fare follie per materiale di questo genere.

 

Proprio nella residenza del conte Gessner, Fußmann viene sedotto con l’inganno dalla fascinosa pornoattrice Lotte, che gli si concede nel bel mezzo di un’escursione nella natura e lo fa filmare a tradimento da Holsten, così che faccia da rimpiazzo al prestante coprotagonista della pellicola, resosi irreperibile. Per Karl è l’avvio di una perversa spirale di ossessione, minacce – dal protettore della donna, il sadico Detsen, come dal responsabile dell’Istituto di Igiene, Böhme, che sospetta traffici loschi – e sesso a pagamento nell’esclusivo bordello berlinese in cui la donna si prostituisce. L’attrazione è fatale, l’“incontro fortuito di un ombrello con una macchina da cucire”, ma l’inabbordabile tariffario del postribolo costringe il malcapitato, sull’orlo di un baratro emotivo ed economico, a chiedere un prestito al facoltoso padre di Johanna, nel frattempo messa incinta in una delle rarissime occasioni a disposizione della coppia.

 

Quando l’ambiziosa Lotte, pure coinvolta dalla relazione con il giovane scienziato, sceglie di inseguire il sogno di una carriera cinematografica di rango in quel di Babelsberg (la Hollywood tedesca) e rifiuta la sua proposta di matrimonio, Fußmann si vede costretto ad accettare l’ordine di trasferimento in Libia, per trovare sul campo un rimedio alla malaria dopo i reiterati fallimenti di uno svagatissimo (e ora morto, pare) Ferrie: è la sola via di uscita possibile all’intricato garbuglio in cui si trova invischiato e a una vita senza più stimoli accanto a Johanna e al figlio indesiderato.

 

Ma in Nord Africa il Nostro antieroe si trova coinvolto in una serie di eventi tragicomici e di rocambolesche situazioni, sfuggendo per il classico rotto della cuffia ai tentativi di assassinio di un paio di sicari vecchio stampo, al doppiogiochismo di chi proprio non si aspetterebbe e allo spietato Detsen, salvato per ben tre volte da uno strano angelo custode, il “ragazzo magnetico” Kornel, per poi fare ritorno in una Germania rasa al suolo solo diversi anni dopo. Negli Stati Uniti inarrestabili del primo dopoguerra sembrerebbe poter coronare il sogno di quella passione senza eguali con la sola donna che abbia saputo stregarlo anche se, a quanto attestano le indagini di un investigatore privato, mandato dai genitori di Johanna a investigare, il destino sembra avere per lui e Lotte ben altri piani, quando tutta la follia vissuta in cinque intensissimi anni gli presenta un conto salatissimo.

 

Mai come nel caso di “Pornonazi”, le enfatiche etichette piazzate in controcopertina dall’editore suonano come un bieco specchietto per le allodole. “Sesso, molto sesso, nazismo, ancora più nazismo” recita il recensore del Guardian. Niente di più falso. Chi vada in cerca di uno squallido romanzaccio erotico casca male, perché di sesso in queste cinquecento e passa pagine ne incontrerà pochissimo. E meno male, vien da pensare, visto che il capitolo dedicato alla malata liaison carnale tra i due protagonisti è il più lungo e ripetitivo del libro, ancorché vergato da una penna eccellente e con la giusta dose di sarcasmo. Ma si devono rassegnare anche i patiti morbosetti del grottesco immaginario nazistoide, visto che di quella delirante ideologia in quest’opera non resta che un pallido simulacro, abilmente svuotato e messo alla berlina da un autore che non potrà certo essere tacciato di scomode o nostalgiche simpatie.

 

Il critico del Frankfurter Allgemeine Zeitung lo definisce “ideologicamente scandaloso” per tirargli la volata? Mente, o più prosaicamente non è abituato a maneggiare il politically uncorrect e ne fa oggetto di scandalo. Meglio glissare invece sul tizio del Leipzig Almanach (nientemeno!) che tira in ballo a sproposito i vari Quentin Tarantino, David Lynch e – poteva essere altrimenti vista la carne che sfrigola sul fuoco? – l’immancabile Houellebecq. Restando alle corrispondenze cinematografiche, più facile riconoscere echi del Visconti de “La Caduta degli Dei”, in una cornice dionisiaca e pimpante à la Russ Meyer, mentre è più che relativo l’eco dal postmodernismo da crepuscolo de “L’Arcobaleno della Gravità”.

 

Kunkel comincia senza clamori, con il controllo da manuale di una prima parte che è quanto mai ideale per introdurre un personaggio complesso come Fußmann, e insieme le ambiguità del ben più sfuggente Ferrie. L’andatura è piana e il bel mondo di una Berlino ora ignara e festante sull’orlo dell’abisso, ora ipocrita e disordinata dietro il rigore metodico della facciata d’apparato, è tratteggiato con misurata ferocia. A fare da contraltare farsesco, ecco peraltro le parentesi boccaccesche ma demenziali dei set a luci rosse nei boschi delle Alpi salisburghesi.

 

A inframmezzare una narrazione descrittiva che vede convergere i due protagonisti maschili, fino all’incontro quasi mistico con la “puttana angelicata”, pensano gli inserti epistolari di quella sorta di eminenza grigia che è il ginecologo Waldemar F. Pfister, socio occulto della Sachsenwald, maestro di una perversione di stampo scientista ed endorser della spregiudicata Lotte, in merito alle sconclusionate sceneggiature dei film. Della porzione di libro riservata al legame alquanto spinto tra Karl e la sua bella si è detto. L’impennata vera arriva però subito dopo, quando “Pornonazi” decisamente cambia passo. Con Fußmann in Libia i contorni si tingono di giallo e si sconfina in zona spy story con buona autorevolezza.

 

Ma il romanzo decolla e vola altissimo soprattutto quando racconta il disfacimento del Reich nella sfarfallante prospettiva dei decadenti Lotte e Holsten, persi nel loro mondo di stravizi e immoralità mentre tutto attorno crolla miseramente e la guerra è di fatto perduta. Il debole dell’autore per una ricostruzione storica certosina si esprime qui al meglio, senza silenziare la follia (auto)distruttrice del regime hitleriano ma senza tacere nemmeno le brutalità belliche delle truppe alleate, o quelle bestiali dei russi piombati su una Berlino allo stremo. Sono pagine crude, potenti, nerissime, eppure Kunkel trova il modo per regalare un ultimo sferzante ghigno tramite il cameraman della Sachsenwald. Non meno foschi e densi di inquietudini sono i capitoli riservati alla fuga dall’Africa di Karl e dell’amico Kornel, Doctor Magneto & The Quicksilver Kid, o al camaleontismo di un Ferrie rinato come principe degli opportunisti nel teatro postbellico. Inevitabilmente, considerato il tenore romantico e disperato di “Pornonazi”, il finale riserverà una buona fetta di miseria a tutti (o quasi) gli attori principali.

 

Peccato solo per quell’appendice di una trentina di pagine abbastanza insulsa, per come scelga di esplicitare un seguito che sarebbe stato ben più opportuno celare in un ininterrotto fuori campo. Un grande romanzo ad ogni conto, scritto magnificamente. E anche una storia d’amore (e morte) piacevolmente fuori dagli schemi.

8.5/10

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