Le vite di Dubin _Letture

       

Bello e faticoso questo romanzo del grande Malamud. Non è “Il Commesso”, non è “L’Uomo di Kiev”, ma si tratta pur sempre di un libro di levatura notevole. Che richiede molta pazienza al lettore, quindi chi ami il genere frivolo o avventuroso si astenga senza riserve. Beh, a dirla tutta le frivolezze non mancano, e così le “avventure”, per quanto si resti spesso e volentieri nell’orbita dei puri ragionamenti, quelli di una persona anziana e mai troppo appagata oltretutto. C’è un matrimonio stagnante a lasciare il segno, ma anche le corna proprie e altrui, con una bella figliola che non si dimentica. La resa psicologica è superlativa, così come quella atmosferica, o nel tratteggiare l’impassibile ciclo delle stagioni nella tranquilla campagna della provincia americana. Però rimane una lettura lenta e abbastanza crudele, quindi non mi riesce di raccomandarla fino in fondo.

 

William Dubin è un cordiale, spigoloso, disciplinatissimo (anche nella pancia, “sporgente ma non troppo”) uomo di mezza età. Di professione biografo, “improbabile” come tende a definirsi lui stesso ricordando il suo più celebre lavoro, quello su Henry David Thoreau, di cui l’aveva affascinato quell’esistenza a pieno contatto con la natura. “Scrivi le vite che non puoi vivere” è uno dei suoi motti, ovviamente rubato al pensatore di turno, e dietro l’aforisma si cela tutta la sua amarezza di eterno incompiuto. Dubin non è propriamente un entusiasta. Non della sua vita almeno, che rimane un sostanziale omissis, una stanza vuota in cui il Nostro parla da solo, si interroga, rimugina, si preoccupa per i figli lontani e si trova a commentare eventi o situazioni personali con le parole dei grandi personaggi da lui vivisezionati negli anni: Mark Twain, Hemingway, Montaigne, Samuel Johnson e via andando, con una certa predilezione per i tapini famosi – e morti anzitempo – del primo testo da lui pubblicato. Quando si mette all’opera, William “foggia e illumina vite”, si sente come “una formica che si accingesse a divorare una quercia”, bramoso di assimilare l’altrui esperienza per disporla in una “meditata centralità”. Già, l’esperienza. E’ proprio lei il suo tallone d’Achille, il centro nevralgico dei suoi crucci. Ne avverte il bisogno come una liberazione, per trovare davvero un senso alla quiete e all’appagamento tipici di un uomo che è arrivato alla sua età come senza aver vissuto, al centro di un matrimonio raffazzonato con una premurosa casalinga in via di appassimento, Kitty, cui sa di non aver dato abbastanza.

 

La sua nuova sfida ha il nome del poeta e romanziere David Herbert Lawrence, di cui possiede numerosi documenti inediti e per il quale ritiene di poter delineare un ritratto più sottile dei tanti già apparsi. Nell’affrontarla gliene si spalanca però innanzi una di gran lunga più accattivante, rappresentata da una giovane donna in carne ed ossa, la studentessa ventiduenne Fanny Bick, che sua moglie ha da poco assunto come donna delle pulizie. Imprevista, la passione travolge entrambi, ma non viene consumata a letto per lunghi tratti. Prima perché il biografo rifiuta la profferta carnale della ragazza, poi perché quest’ultima lo ripaga facendosi offrire una vacanza fedifraga a Venezia, in cui si concederà non a lui ma a due aitanti giovanotti del posto. L’esperienza, che tenderà a rivelarsi un “cercare la luna nel pozzo”, ha strascichi importanti sul suo metodico lavoro, distratto a più riprese dall’impertinente fantasma della fanciulla, e ancor più sulla sua coscienza via via più logorata dai sensi di colpa nei confronti della consorte. Dubin conquisterà la sua Fanny, a tempo debito e a maturazione (di lei) avvenuta. La perderà e la ritroverà ancora, affinandosi in nuove prodigiose forme di equilibrismo e menzogna. Nel mezzo, almeno un paio di annate all’insegna di tourbillon sentimentali, lacerazioni emotive e contraddizioni umorali: la gelosia nei confronti della giovane, la constatazione del proprio decadimento fisico nelle lunghe parentesi senza di lei, l’arida convivenza con Kitty (un vivere “fianco a fianco, ma non più assieme”), l’ossessionante follia per il proprio lavoro e insieme l’incomunicabilità verso quei figli, Gerald e Maud, cresciuti troppo in fretta e ormai irrimediabilmente altrove.

 

In “Le Vite di Dubin”, Bernard Malamud si è per certi versi superato. E’ stato a tal punto convincente nel tratteggiare la figura noiosamente stantia del suo protagonista da aver reso in buona parte tediosa, per esigenze di veridicità, anche la propria narrazione. A cinquantasette anni, come nei (notevolissimi) flashback giovanili, Dubin riflette infatti l’aspetto e il temperamento di un individuo anziano, sterilmente erudito e passivo a oltranza, un “romantico soddisfatto” cui è sempre piaciuto “desiderare”, uno che “gradiva la presenza delle donne” per un appagamento meramente estetico, contemplativo, uno che confessava candidamente di “sapersi dominare”, salvo poi ritrovarsi schiantato all’improvviso in un’avventura in prima persona del tutto travolgente. L’autore fa spesso riferimento alla “tetraggine” del suo antieroe, macerato dal tormento e da una routine che per chiunque sarebbe insostenibile. Ma i patimenti autoinflitti di Dubin li rivolge poi contro il lettore, straziato dall’interminabile pancia di un libro in cui nulla parrebbe accadere. C’è un momento in cui il protagonista si ritrova nell’angoscioso inverno del suo scontento, sperduto nel raggelante biancore di una tormenta di neve, disorientato nei boschi e impossibilitato a trovare una via di uscita. Bene, per chi legge le suggestioni sono le medesime, anche se a imprigionarlo non sono gli eventi atmosferici (pure resi con fisicità magistrale, così come le stagioni che si avvicendano sullo sfondo) ma proprio il romanzo, pungente e impassibile come i rovesci e l’isolamento. Un grande libro insomma, scritto in maniera superba e forte di una verità psicologica non comune, che richiede tuttavia una pazienza non meno proverbiale al suo fruitore.

7.6/10

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