Willard e i suoi trofei di bowling _Letture

       

Brautigan, finalmente!
Giusto l’altroieri avrebbe compiuto ottantun’anni, non fosse che con lui siamo fermi al condizionale da più di tre decadi. Mi fa piacere che sia giunta l’ora di affrontare questo cappellaio matto della narrativa nord americana, questo hippie allegro e amarissimo che nemmeno gli hippie avrebbero voluto con loro, anche se forse era lui a isolarsi da tutto e tutti. Di Brautigan ho letto tre romanzi in pochi giorni, e poi più nulla. Forse mi tengo il resto per i giorni più adatti, chissà, l’impressione è stata di averne avuto abbastanza, che non si debba oltrepassare la soglia massima consigliata. Di lui sapevo quanto basta, giusto qualche nozione biografica. Non sapevo però che, almeno in Italia, è stato rimosso quasi del tutto come qualcosa di non gradito. Stringata in maniera persino offensiva la sua pagina italiana su Wikipedia, cassata quella a lui dedicata sul sito della Marcos Y Marcos (che ha pubblicato quattro delle sue novelle) , il suo nome nel relativo catalogo autori è assente e anche nei grandi negozi di libri online si trova pochissimo, tutto esaurito da secoli. Resta una canzone – “Brautigan (giorni che finiscono)” – che i Perturbazione gli dedicarono qualche tempo fa, e che ha più il sapore di un omaggio astratto. Così è inevitabile, pensando a lui, che affiori quel po’ di malinconia, indipendentemente dall’infelicità di un’esistenza travagliatissima, chiusasi per suicidio a soli quarantanove anni. Qui analizzo il primo dei tre testi citati, che è anche il più debole del lotto. Scritto in una fase particolarmente difficoltosa (e già declinante) della carriera, “Willard e i suoi trofei di bowling” si configura come un’operina bizzarra e nonsense, indebolita da qualche banalità di genere. Se il personaggio può ancora interessare (difficile perché lontanissimo dall’oggi), l’invito è a non partire da qui, un passatempo pure gradevole che si legge in un’oretta. Decisamente ha scritto di meglio, toccando punte di sbalestrata poesia che non meritano proprio l’oblio cui il suo nome pare destinato. Ne riparleremo, ad ogni modo, quando vi presenterò “Zucchero di cocomero”.

Bob e Constance sono una coppia ai limiti del patetico. Lei è una scrittrice di ventitre anni, apprezzata dalla critica e ignorata dal pubblico, lui un uomo colto e premuroso ma incapace in tutto, eccetto che nell’annoiare il prossimo e nel cedere poco per volta a un Alzheimer impietoso. Per dare un senso al proprio matrimonio dopo uno svogliato tradimento da parte della donna, che non ha portato altro che verruche nelle zone più delicate dei rispettivi corpi, i due imbastiscono uno “squallido teatrino di sadismo e disperazione”, a base di perversioni che – affogate nel mare magnum della plateale volgarità odierna – oggi fanno persino sorridere. Eppure nel loro legame così difettoso, dove letture fuori tempo massimo e giochini erotici ispirati a “Histoire d’O” servono come pur blandi surrogati di un brivido di piacere, regna una tenerezza sconfinata, con l’uomo che si affligge “per l’intera condizione umana” e la donna che, in silenzio, lo ammira. Al piano di sotto, in un piccolo condominio di San Francisco, vivono i loro amici John e Patricia, lui cineasta, lei insegnante di spagnolo, coppia eccentrica nel cui salotto risplende il bagliore “mistico” di una cinquantina di trofei di Bowling vegliati da un misterioso uccello gigante di cartapesta, il Willard del titolo, costruito con abilità da un artista hippie in seguito a un sogno e dotato di penetrante umanità, oltre che di uno sguardo cangiante. I cimeli sportivi appartenevano ai tre fratelli Logan, un tempo belle speranze di un’America pulita e ottimista, oggi devastati dall’ossessione per il furto subito e ridotti al rango di disumane maschere della ferocia, senza più un nome a identificarli nella loro recita da pallide macchiette (il “Fratello Logan lettore di giornalini”, il “Fratello Logan bevitore di birra”, il “Fratello Logan che fa tutto nervosamente”). Tra scherzi di un destino beffardo e esigenze di sceneggiatura, un fatale incontro tra queste tre piste narrative sarà inevitabile.

E’ poco più che un fumetto questo romanzo breve che Richard Brautigan scrisse a metà degli anni 70, in una fase in cui la sua penna scoppiettante stava scoprendo l’amarezza senza ritorno che lo avrebbe inghiottito. Tre storielle scorrono in montaggio parallelo fino all’intersezione conclusiva, ma le istantanee del presente e certi gustosi lampi in flashback sono proposti in maniera beatamente disordinata, sviando di continuo l’attenzione grazie a inserti incoerenti ma rendendo nel contempo inevitabile una previsione sul finale brutale che attende il lettore a un tiro di sputo dall’inizio. Nei frammenti del segmento relativo alla coppia felice “John + Patricia”, tutto l’interesse è riservato alla curiosa presenza in chiave nonsense degli oggetti che danno il titolo all’opera (e sembrano anche più vivi dei personaggi veri e propri), mentre gli spezzoni dedicati ai fratelli Logan (e indirettamente ai loro assurdi genitori, nonché alle tre misteriose “sorelle Logan”, sempre altrove, a far non si sa bene cosa) riescono deboli e farseschi, espediente letterario non troppo brillante per dare voce all’insensata violenza che albergherebbe per natura nell’animo umano, e a maggior ragione nell’America borghese e perbenista degli anni settanta. Per esclusione, le pagine più interessanti rimangono quelle riservate non senza affetto ai disastrati coniugi del secondo piano, eletti a emblema di un’incomunicabilità universale che non preclude, tuttavia, dignità dell’amore e che solo una follia cieca può annientare. Se questa operina non brilla insomma come altri testi dell’autore, Brautigan mantiene tuttavia una leggerezza nel tocco prossima al miracoloso e ha l’indubbio merito di farsi leggere d’un fiato al solo costo di qualche perdonabile banalità.

6.7/10

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