Month: giugno 2011

La terza Anna

 

Con sei mesi di nuovi ascolti già andati in archivio, lo scrigno delle sorprese inizia a rivelare la ricchezza del proprio contenuto, dimostrando una volta di più che a cercar bene la qualità non manca e c’é sempre modo di rimanere piacevolmente impressionati dall’arte di qualche emerito artista sconosciuto. Tra i nomi che valgono una segnalazione ecco quello di Anna Järvinen, cantante nata ad Helsinki ma andata a cercar fortuna in Svezia, dapprima in una band chiamata Granada e solo poi, dopo tre dischi condivisi con il gruppo, in solitaria. E’ uscito da poco il nuovo ‘Anna Själv Tredje’, terzo album a suo nome e dal titolo volutamente ambiguo (lo stesso di uno dei più celebri quadri di Leonardo, ‘Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino’, ma anche qualcosa come “La terza Anna”, ben illustrato dalla fotografia in tripla esposizione della copertina), che per il sottoscritto ha assunto presto i contorni della rivelazione. Sarà che quando si tratta di folk-pop scandinavo so già di potermi aspettare grandi cose, sarà che è proprio all’incrocio di questi due generi che si nasconde spesso l’arte del sublime, sia come sia, questo piccolo lavoro indipendente mi ha profondamente convinto. Non è certo l’opera di una sprovveduta, o di un’emergente: la Järvinen ha quarantun’anni, dei suoi trascorsi si è già detto a grandi linee e, insomma, la sensazione per me è stata quella di esserci arrivato con colpevole ritardo. Non è mai troppo facile quando si tratta di Europa del nord. I talenti veri – ormai è acclarato – sono tantissimi. Il problema è scovarli, visto che da quelle lande si esportano per lo più metal, rock sciatto e pop commerciale (per quest’ultimo è meglio usare l’imperfetto) mentre nella sfera indipendente le ingombranti proposte dall’Islanda continuano a veder sacrificato tutto il resto, spesso a svantaggio degli ascoltatori che siano meno disposti a perdersi in estenuanti ricerche in rete. Io mi sono imbattuto in questo album entusiasmante come arrivando dal nulla e ho sentito subito il bisogno di correre a ritroso nel passato della sua autrice. Se dei Granada ancora poco posso dire, eccetto che le qualità di Anna erano ben visibili ma giocate a puro servizio di un gruppo, fortemente influenzate dalle allora (dieci anni fa circa) nuove sensazioni statunitensi e canadesi, le impressioni dai miei limitati assaggi di ‘Jag fick feeling’ e ‘Man var bland molnen’ hanno confermato che questa cantautrice finlandese non ha semplicemente tirato fuori un coniglio dal cilindro ma può vantare una voce ed una sensibilità melodica tutt’altro che comuni.
 
Come spesso capita, a piacermi è stata in prima battuta la copertina. Quel senso di dinamicità, di movimento quieto, ma anche il contrasto tra luce ed oscurità e l’eleganza: tutti dettagli che nelle dieci canzoni di ‘Anna Själv Tredje’ sanno imporsi con la giusta rilevanza, come coccarde di merito sugli orli di una cifra stilistica capace di omaggiare i classici restando sempre e comunque molto personale. Non da oggi, come dimostra la splendida gemma che chiudeva il disco d’esordio. In patria – meglio, in Svezia – l’hanno (giustamente) accostata ad una straordinaria artista folk tornata prepotentemente di moda dopo anni di oblio, Vashti Bunyan, forse per la capacità di rinnovare quel genere musicale aprendolo verso influenze che oggi (dal twee, al chamber, al dream) sono sempre determinanti per spingere a classificare un disco come indie-pop. Il brano di apertura, ‘Uppåt Framåt på Finska’, è in tal senso emblematico per la sintesi mirabile di inquietudine (dagli archi) e senso di pace (dai flauti), per il fascino silvano della pioggia registrata come accompagnamento a sonorità arcane, alla luminosissima trama acustica. Si sono fatti anche altri nomi, come quelli delle ben più note Sophie Zelmani, Stina Nordenstam e Annika Norlin, che in Svezia spopolano nel medesimo ambito, non senza merito: tutti certamente validi. Di mio aggiungerei un rimando all’inglese Nancy Elizabeth Cunliffe, per la sapienza con cui sa trarre il massimo da ogni strumento chiamato a recitare con parsimonioso coinvolgimento (‘Titta vi Flyger’), ma anche a Susanna Wallumrød (e Henriette Sennenvaldt, e tantissime altre), per l’incomparabile finezza del tocco scandinavo (qui comunque mitigato) e persino a Joanna Newsom e a Björk, in quei passaggi in cui la voce della cantante somiglia a quella di un folletto,  di una bimba, senza risultare comunque querula o fastidiosa. Lo spettro dei riferimenti non sarebbe tuttavia completo se si trascurasse di citare quell’inconsapevole maestro che, a livello di umori ed atmosfere, sembra aver profondamente influenzato Anna. Nell’avvolgente ed incantevole autoritratto notturno di ‘Lilla Anna’, ogni singolo elemento (viola, organo, batteria) pare riportare indietro le lancette di oltre quarant’anni direttamente al Nick Drake di ‘Bryter Layter’, quello meno tormentato. L’incanto nella voce della Järvinen è però modernissimo e riesce a conferire un’autenticità inarrivabile alle aspirazioni intimiste della finlandese, mentre il cinguettio dei passeri già guarda oltre, ad una nuova primavera.
 
In un disco in cui le note di merito sono numerose al pari degli artefici – ed una menzione speciale va anche alla produzione perfetta di Mattias Glavå (già con Håkan Hellström, Sambassadeur e Jens Lekman) – la voce rimane la protagonista incontrastata, capace di spaziare dalla formula delle confessioni delicatissime all’eleganza di un sussurro destinato a librarsi nella grazia infinita del canto (‘Vals för Anna’), oppure di riscattare con nuovi sfuggenti virtuosismi l’impostazione folk meno ardita di qualche passaggio (‘Hur Man Lättar Helt Enkelt’, il brano più “americano” del lotto). Per l’ascoltatore non svedese si perde purtroppo la poesia dei testi, anche se ‘Anna Själv Tredje’ ha comunque un gran numero di frecce da scoccare per fare colpo: i chiaroscuri che mettono in risalto refrain molto ariosi (quello ingentilito dall’harpsichord in ‘Mer än Väl’ è forse il migliore), l’inclinazione sottilmente malinconica, l’equilibrio di sobrietà e disinvolto talento, un controllo ed una calma assoluti che finiscono per infondersi anche in chi presti orecchio. E poi il garbo, l’onestà con la quale l’artista di Helsinki si racconta e in un certo senso si mette a nudo, senza mai uno strappo, un’esagerazione, una nota fuori posto o di troppo. Chi tema un disco eccessivamente umbratile o austero può comunque tranquillizzarsi: a conferma della piena padronanza di Anna alle prese con i registri più disparati, dopo un avvio per così dire riflessivo, nella seconda parte l’album svolta con decisione e si rivela via via più solare, amichevole, gradevolmente confidenziale, dalla serenità scintillante e lo straordinario nitore di ‘En Sommardag Som Stängs Av’ alla spensierata freschezza estiva di‘Regna Bort’ (che fa sua la lezione dell’indie-pop “agreste” degli ultimi Club 8), passando per la grazia sontuosa ma non barocca dell’accompagnamento della Stockholms Akademiska Orkester in ‘Händer’. Un disco semplice ma coinvolgente insomma, intimo e classico al tempo stesso, ideale per le serate calde che stanno arrivando ma perfetto probabilmente anche per l’inverno. Di sicuro, una delle più gradite sorprese del 2011.

 

0 comment

No Age + Abe Vigoda  @ Spazio211      29-10-2010

 

Doppietta incredibilmente rumorosa quella di questo live tutto feedback andato in scena sul piccolo palco di spazio qualche mese fa. Lotta apparentemente impari per i giovani Abe Vigoda, formazione californiana che su disco mi ha quasi sempre detto molto poco (discreto il recente 'Crush', abbastanza insulso il tropical punk dei tre lavori precedenti), al cospetto dei ben più rinomati No Age, uno di quei gruppi esaltati dalla critica più modaiola (e scortati con tutti gli onori da un hype sin fastidioso) ma – va detto – con piena cognizione di causa, per una volta. La presentazione al pubblico torinese dell'apprezzato secondo album 'Everything in Between' (uno dei miei dischi dell'anno per il 2010) non poteva che trasformarsi in un evento, indipendentemente dall'apertura affidata ad un'altra band statunitense. Ovviamente lo è stato, ma il merito va condiviso con l'orgoglioso e tostissimo set del gruppo spalla. Temevo di dovermi sorbire una versione più esagitata dei Vampire Weekend, col pop rimpiazzato da questa synth-wave per replicanti, ed invece gli Abe Vigoda si sono resi artefici di una prova rock assolutamente apprezzabile, con chitarre taglienti, sezione ritmica spaccatimpani (bravo l'imberbe batterista) e doping sintetico ridotto al minimo indispensabile. Un live gagliardo quindi, anche se non sufficiente per mettere in ombra l'esibizione di Randy Randall e Dean Spunt. I No Age hanno "spaccato", come dicevano i ragazzini sudaticci uscendo dal locale. Sono andati a segno suonando esattamente ciò che ci si aspettava da loro, ovvero un noise sibilante e schiumosissmo, ma soprattutto suonandolo al meglio. In questo senso – e solo in questo – si può dire che non c'é stata partita: i No Age sono autentici fuoriclasse e lo hanno ampiamente dimostrato. Serata molto divertente, comunque, credo che il report su indie-rock lo faccia trasparire con la dovuta ironia. Espediente necessario per raccontare anche la mia masochistica prospettiva di testimone e fotografo in prima fila, graziato per una volta dai marosi del pogo ma evidentemente troppo esposto e compromesso per risparmiarmi un paio di giorni senza udito. Il bello di serate come questa sta anche nella posizione scelta e difesa sotto al palco, inutile cercare scuse. E poi il sacrificio auto-impostomi mi pare ancora oggi il minimo, nel ricambiare la generosità rock di due band di questo livello.

0 comment

Luminous Night

 

OK, a questo punto sembra evidente che mi sto muovendo con estremo ritardo. Recuperare i dischi recensiti può andar bene a qualche mese di distanza, anche per formulare giudizi meno incerti di quelli della prima ora, ma quando ci si torna troppo a posteriori il senso di novità ha già lasciato il campo alla retrospettiva. Capita in particolare con quegli artisti così prolifici da lasciarti sempre qualche casella indietro, vedi Robert Pollard (già citato quest'anno), vedi John Dwyer dei Thee Oh Sees (idem) ed anche Ben Chasny dei Six Organs of Admittance, un altro di quei talenti che amano frammentarsi in una miriade di progetti rigorosamente attivi. Nel caso di 'Luminous Night' va segnalato come ulteriore inconveniente il fatto che l'album in questione ha fatto in tempo a diventare il penultimo per questa sorta di one-man band, visto che la Drag City (una garanzia) ha nel frattempo licenziato un nuovo album dei Six Organs intitolato 'Asleep on the Floodplain'. Avrebbe allora forse più senso presentare il disco vecchio parlando del nuovo ed in parte è quello che mi accingo a fare, evidenziando nella marginalità di entrambe le uscite il minimo comune denominatore che può raccoglierle nelle poche righe di questa mia laconica sentenza. Folk sperimentale, aulico, con puntate dreamy molto meno entusiasmanti di quanto si potrebbe immaginare ed una irriducibile passione per le lunghe divagazioni stumentali, prevalentemente in acustico ma con qualche occasionale deriva nel rumore. Questa a grandi linee la formula degli ultimi lavori di Chasny, interessanti più per il virtuosismo e la varietà a livello di teoria musicale che non per le emozioni autentiche suscitate, invero assai poche. Gli amanti di certe nuove tendenze della musica americana troveranno ancora un più che valido appagamento, visto che ogni lavoro a marchio Six Organs of Admittance conferma una spiccata tendenza a farsi specchio stilistico del proprio tempo, come un bignami in grado di miscelare – autorevolmente – fingerpicking eclettico e New Weird America (esiste ancora?), le contaminazioni drone e il cosidetto primitivismo, bassa fedeltà e trame al cristallo, bucoliche reminescenze del folk britannico dei primi anni '70, sporcature noise, sussulti barocchi, astrazioni space rock e, davvero, chi più ne ha più ne metta. Una caterva di spunti preziosi quindi, per giunta sviscerati da un musicista di altissimo profilo, il cui esito troppo dispersivo rischia però di lasciare in ombra le pur ricche suggestioni dei brani più riusciti, che non mancano certo. In attesa di opere più coese e impressionanti (come il suo gioiello, 'Dark Noontide') e di poterlo finalmente apprezzare dal vivo dopo averlo sfiorato in ben tre occasioni, non mi resta altro che guardare e passare. "Ascoltare" anzi. Ascoltare e passare.

0 comment

Songs With Other Strangers @ Hiroshima Mon Amour            22-10-2010

 

Quello della comitiva denominata 'Songs With Other Strangers' è stato senza dubbio uno dei concerti più insoliti cui ho avuto modo di assistere recentemente, oltre che uno dei più belli e coinvolgenti degli ultimi anni. Dire che, fin quasi all'ultimo momento, non ero neanche così convinto di andarci: va bene, tanti artisti anche internazionali coinvolti, ma il nome di Manuel Agnelli promosso quasi ovunque in esclusiva come sigillo ufficiale dell'evento e inevitabile specchietto per allodole non è che mi avesse proprio ben disposto. A fare la differenza e spingermi alla fine a non mancare è stato sì un nome, ma di quelli realmente irrinunciabili: Steve Wynn. Non avevo mai avuto modo di vederlo dal vivo e, beh dai, lo ammetto, speravo suonasse 'Tell Me When It's Over', 'Burn' o qualche altro titolo dai migliori Dream Syndacate. Speranza vana ma in fondo consapevole della sua improbabilità, e non così pressante da annullare la curiosità per la miriade di altri spunti di fatto raccolti, tutti o quasi molto positivi. Presentarsi all'Hiroshima sulla spinta dei personalismi da fan era in fin dei conti il più sbagliato tra i possibili atteggiamenti per lo spettatore. Io l'ho compreso subito, sono entrato abbastanza agevolmente in sintonia con lo spirito del supergruppo e mi sono goduto il concerto dal primo all'ultimo minuto. Tanti altri, evidentemente poco curiosi, poco pazienti o semplicemente poco avvezzi all'incontro tra le più disparate sensibilità musicali, hanno storto il naso praticamente dalla prima nota della country ballad di apertura, frenando la propria intolleranza solo quando dietro al microfono si è piazzato il loro unico ed indiscusso idolo, Mr. Afterhours. Difficile, fermandosi a questa sconfortante prospettiva, non rilevare quanto il pubblico italiano sia spesso ancora troppo immaturo e provinciale. E difficile negare che questo tour entusiasmante, così come l'intero progetto allestito da musicisti appassionati molto amici tra loro, abbia finito con l'assumere i contorni della perla gettata nel porcile. Piccola nota di disappunto che nel report per indie-rock.it ho omesso di enfatizzare cercando di dare rilievo al solo aspetto musicale, quello sì esaltante. Per me che negli ultimi anni ho coltivato una sincera passione per la migliore Americana e per le aridità vibranti di certo folk-rock, il live di questi grandi professionisti è stato una vera manna. John Parish si è rivelato eccellente anche nei panni del musicista, Hugo Race è stato la grande sorpresa della serata e Wynn, beh, ha dimostrato di essere ancora un rocker di razza capace di scrivere anche oggi grandi canzoni, proprio come ieri. E gli italiani? La notizia è che sono stati all'altezza, legittimando di fatto la loro presenza nel collettivo e con essa la ragione dell'intera iniziativa. Con Agnelli un po' alieno e forse sottotono, la ribalta è andata alla vera madrina del progetto, una bravissima Marta Collica, oltre al miglior Cesare Basile che mi sia mai capitato di incrociare dal vivo: carismatico, trascinante, entusiasta, davvero un grande artista. Tutti insieme hanno saputo plasmare questo clima di euforia collettiva mai fuori luogo o sopra le righe, un senso di ebbrezza condivisa che è stato come instillato dai veterani della band, raccolto dal super-ospite di turno, Steve Wynn, e sublimato da un finale intensissimo grazie alle splendide cover proposte, una 'Everybody Knows' davvero corale ed una 'Black Eyed Dog' viscerale, istantanee emotive perfette di un evento a suo modo unico. La speranza, a questo punto, è che non debbano trascorrere troppi anni per riascoltare le 'Songs With Other Strangers' dal vivo in qualche locale italiano. E tanto meglio se quel giorno qualche altro ospite speciale avrà deciso di unirsi alla comitiva per confrontarsi da pari con questi splendidi antidivi.

0 comment

Hawk

 

Penso di esserci andato giù pesante con il terzo e – si spera – ultimo album della premiata ditta Lanegan/Campbell ma tant'é, di forzare la sincerità del giudizio per sostenere a priori due artisti che pure ho sempre stimato non me la sono proprio sentita. Non questa volta. Questo disco, a dirla tutta, non avrebbe dovuto neanche nascere. Già 'Sunday At Devil Dirt' sapeva per molti versi di corda tirata, di rischio grosso. Una scommessa vinta comunque, miracolosa, un lavoro che ad oggi continua a piacermi se possibile anche più del primo capitolo di questa strana collaborazione. Sono opere riuscite per l'equilibrio estremo e la coesione che mostrano. Una magia, in un certo senso. Qualità che in 'Hawk' sembrano andate a farsi benedire, senza possibilità d'appello. Anche stavolta la critica generosa (o ottusa, fate voi) ha scelto di non voltare le spalle al tenebroso rocker e alla soave cantante scozzese, tirando in ballo giudizi alquanto campati in aria, fotocopie di quelli già sfoderati nelle precedenti occasioni ma in questo caso decisamente a sproposito. Non occorrono orecchie chissà quanto fini per rendersi conto che a questo giro prevalgono la noia, qualche idea di scarto e la replica sbiadita di quanto già fatto. Considerata la marginalità di Mark, nella scrittura come nel cantato, è presumibile che il nostro abbia accettato suo malgrado il rinnovo di contratto, senza crederci affatto. Prospettiva opposta a quella della deliziosa Isobel, che a queste canzoni ha dimostrato di tenerci pur non potendo salvarle da un senso di diffusa inutilità e di mediocrità, anche. Il suo lavoro e la sua abnegazione restano ammirevoli, come la sua voce e quella del compagno d'avventura. Ma l'urgenza è zero ed anche il materiale di partenza francamente modesto rispetto a quello dei primi due album. Quasi un disco solista per l'ex voce femminile dei Belle & Sebastian, con ospitate non proprio memorabili qua e la (pessime quelle di Willie Mason), che potrebbe aver senso come episodio anomalo ed interlocutorio nella sua carriera ma che vale veramente poco collocato sulla stessa linea di successione di 'Ballad of the Broken Seas', copertina (bella) a parte. Va bene ascoltare la Campbell che si cimenta con le ballate desert folk o con gli stereotipi dell'Americana più tradizionalista, ma se questo deve comportare un periodo di pausa ulteriore per l'ormai troppo rilassato Lanegan è meglio metterci un punto al più presto. L'ultimo suo vero disco, 'Bubblegum', è uscito ben sette anni fa. E' pretendere troppo che l'ex Screaming Trees la smetta di giocare a nascondino approfittando di qualsiasi progetto collaterale e torni a impegnarsi in qualcosa di veramente struggente e di suo? Da fan di entrambi, con tutta la benevolenza di cui sono capace, vorrei far sapere loro che di dischi come 'Hawk' nessuno sente il bisogno, forse neanche loro stessi. Se di lacrime e sangue si deve cantare, allora ci diano lacrime e sangue veri. Non un brodino insipido come questo. 

0 comment