Month: maggio 2017

La Pausa _Letture

       

Ok, devo averlo pagato non più di un euro in un mercatino dell’usato (ma era intonso, come al solito) per cui non c’è ragione di lamentarsi se resiste sul podio dei peggiori romanzi che io abbia mai letto. Certo, ci sono le ore impiegate per portarlo a termine, ma anche quelle non sono state poi chissà quante. Più di tutto il resto, del tempo e del denaro sprecati, penso conti la tristezza che leggere questo libro mi ha messo. Non tanto per essermi immedesimato nel barbosissimo protagonista e nelle sue pulsioni da voyeur malato, quanto per aver immaginato il tizio che lo ha pensato e messo nero su bianco in oltre trecento, francamente inutili, pagine. Leggo da Wikipedia che questo Nicholson Baker è persona degnissima, padre di famiglia, pacifista, progressista, bibliofilo, strenuo sostenitore dell’opera in formato cartaceo contro ogni forma di oblio digitale. Ci sono diversi titoli menzionati anche sulla pagina italiana e con recensioni più che lusinghiere, tra quelli editi da Frassinelli, Mondadori o Bompiani (e persino Einaudi, all’inizio). Tutto oltremodo ammirevole. “La Pausa”, tuttavia, sembra il prodotto della mente bacata di un giovane maniaco sessuale, con l’aggravante, in sovrapprezzo, della mania dell’ordine, di una metodicità snervante e di uno stile ricercato quanto si vuole ma anche eccessivamente verboso. Un lavoro pruriginoso, insomma, ma per nulla divertente da leggere. Troppo freddo, troppo penalizzato dalla soverchiante solitudine di chi lo ha scritto, qualcosa che, sono convinto, non rientrasse nelle intenzioni dell’autore. E, con questo, Baker non me ne voglia, non credo leggerò altro di suo, nemmeno dovessi trovarlo a cinquanta centesimi nell’usato (ma intonso, vivaddio).

Di mestiere è un trascrittore precario di registrazioni, in uffici enormi e anonimi presso banche o società multinazionali, il trentacinquenne Arno Strine. E’ il classico tipo di cui ci si potrebbe non accorgere mai, così grigio, silenzioso e ordinario, non fosse che è sorprendentemente veloce e preciso negli incarichi affidatigli. Non risiede però in questo il suo talento, trattandosi a dirla tutta di un numero “col trucco”. La sua dote unica, quella eccezionale per davvero, è un’altra, anche se non è che il Nostro l’abbia mai sbandierata ai quattro venti: non sempre ma comunque spesso, a seconda del periodo, ha facoltà di congelare il tempo per rintanarsi in quella che, senza eccessiva fantasia, ha ribattezzato “la pausa” o, talvolta, “la piega”, quella “Fermata” del titolo originale che gli consente di dare sfogo alla sua natura di “cronanista” e ricevere, ogni volta che gli aggradi, il proprio impagabile “sussidio sessuale”. Questo perché una benedizione come la sua, scoperta in tenera età e coltivata come una riserva speciale dell’anima, non può e non deve essere impiegata per arricchirsi (materialmente), per migliorare il proprio curriculum in sede d’esame o concorso, né per fare del male al prossimo, ma solo come innocente strumento di diletto e gratificazione dei sensi, a patto di non scavalcare gli steccati di una dimensione etica ferrea e, con tutti i suoi distinguo e le sue regolette, infinitamente tediosa.

Dopo anni di piaceri sottili e inconfessati da “pornografo creativo”, sempre estremamente rispettoso nei confronti delle sue inconsapevoli vittime (poiché nella sua curiosità – come afferma sino alla sfinimento – non ci sono che amore e tolleranza nei confronti del gentil sesso), il modestissimo impiegato si decide ad affidare al nero su bianco di un’immaginaria autobiografia la cronaca di tutte le sue perversioni nemmeno poi chissà quanto perverse: spogliare la fanciulla anche bruttina che sia riuscita ad accendere la sua curiosità, studiare le reazioni suscitate da qualche frasetta oscena vergata con opportunismo in calce a un paperback, in libreria, o dal reperimento sotto la sabbia di una spiaggia, o nel mangiacassette della propria automobile, di raccontini piccanti ideati in quei lunghi intermezzi solipsistici giusto per far tesoro di pochi attimi dell’altrui stupore. Sarà la scoperta di un innamoramento degno di questo nome, con la conseguente necessità di condividere con l’amata il proprio segreto, a permettergli di superare finalmente la propria sterile immaturità sentimentale, al prezzo, magari, di un “passaggio di consegne” pure non così gradito.

Alla base di “The Fermata” (da noi reso come “La Pausa”) c’è un’intuizione di quelle semplicissime, a partire dalla quale tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo divertiti a fantasticare di pruriginosa onnipotenza e (più o meno roventi) scenari relazionali alterati a piacimento. E’ un diversivo infantile quanto spassoso, buono per vagheggiare in quei due minuti di sogni a occhi aperti, ma già fin troppo inessenziale per scriverci su un racconto. Bene, questo autore newyorkese meglio noto per le sue dissertazioni non-fiction ne ha tratto il pretesto per un romanzo di oltre trecento pagine, con conseguenze abbastanza prevedibili. Dentro abbondano i frangenti pseudo-tecnici e analitici che non aiutano certo, allungando il brodo a dismisura e rendendolo particolarmente indigesto. Le ripetizioni non si contano, come le parentesi, le divagazioni, gli incisi verbosi. Come satira non funziona e, se si fa grande sfoggio di vocaboli o riferimenti colti che vorrebbero nobilitare il ritratto di un uomo qualunque, sempre così maniacalmente controllato, la fatica sembra essere oltremodo vana. Al di là di questa inevitabile (e chissà quanto voluta) assenza di simpatia, il testo non è poi così insulso o cinico come avrebbe potuto essere in mani meno spregiudicate di quelle del tranquillo “entomologo” Baker.

Non basta questo dettaglio, tuttavia, a farne un buon libro. “La Pausa” finisce infatti per ripiegarsi in una candida apologia del voyeurismo, alquanto inoffensiva in fatto di provocazioni ma anche eccessivamente autoindulgente e, in definitiva, un po’ troppo fine a se stessa, per riuscire a suscitare davvero un qualche interesse. Nicholson e il suo antieroe si perdono quasi subito nelle loro elucubrazioni masturbatorie e, per quanto innocuo, il gioco tende a mostrare la corda assai presto, riducendosi a un asettico teatrino di fantasie malate, algide quasi fossero state realmente partorite in una bolla sospesa, priva d’aria e di vita. Il maggior limite dell’eros racchiuso in queste pagine risiede comunque nell’esagerato ricorso alla parola per spiegare sempre tutto, per giustificare e legittimare ogni pulsione illudendosi che la si possa, così facendo, vivisezionare. In una simile prospettiva, l’istintualità esce svilita da una rappresentazione che puzza di caricatura grottesca, mentre il potenziale di passioni e sensualità non ha mai modo di librarsi in una gioiosa e vitalistica celebrazione. C’è troppa gretta razionalità per evocare suggestioni dionisiache. Prevale piuttosto un simulacro vuoto e (quasi invariabilmente) noiosissimo, un prolungato artificio intellettualistico che non è in grado di eccitare, commuovere o intrigare, e che solo in rari passaggi strappa un sorriso.

“La Pausa”, più che altro, è un romanzo tristissimo: ha dentro il tanfo di una solitudine che va ben al di là della simulazione imposta al proprio protagonista e narratore, perché universale. Si tratterà anche di un espediente ricercato e adeguatamente levigato, ma l’impressione è che il primo a uscirne in maniera patetica sia proprio Baker, autore di uno scherzo desolante tirato troppo in lungo.

5.2/10

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Gli ultimi giorni _Letture

       

Che autore incredibile è stato Raymond Queneau! Un innovatore e sabotatore come pochi per la lingua francese, un dadaista della parola ma anche un fine intellettuale. Gli ultimi suoi testi che ho letto non fanno parte dello sterminato catalogo Einaudi (con l’inarrivabile “I Fiori Blu” o “Zazie nel metrò” sugli scudi), né della ridotta pattuglia Feltrinelliana, bensì di una più recente e modesta edizione per Newton Compton. Si tratta del vorticoso (e di lunghissima gestazione) “Tempi Duri Saint Glinglin!” e de “Gli Ultimi Giorni” che qui presento pur brevemente. Un testo, quest’ultimo, che appartiene alla sezione giovanile della produzione del narratore di Le Havre, e che quando uscì per Gallimard nel 1937 faceva seguito ai soli “Hazard E Fissile” (uscito postumo) e “Il Pantano”. Se “Saint Glinglin” è opera pirotecnica e del tutto irregolare nello stile, “Gli Ultimi Giorni” appare un lavoro assai più posato, filosofico e malinconico, un saggio esistenzialista che sorprende per la delicatezza delle sue riflessioni e della sua ironia. Non è forse l’introduzione migliore alla grandezza di Queneau ma può rivelarsi un piacevolissimo diversivo.

Parigi, primi anni venti. Tra i tavolini del Café Soufflet, un bicchiere di Pernod dopo l’altro, giovani studenti di belle speranze discorrono con aria annoiata dell’avvenire, mentre gli anziani si consolano delle piccole amarezze quotidiane perdendosi nel piacere soffuso dei ricordi di gioventù. In entrambi i casi è il tempo il convitato di pietra, immancabilmente al centro delle dissertazioni di tutti. Ossessionato dall’allineamento dei pianeti, il cameriere Alfred è convinto di poter prevedere – al di là di ragionevoli dubbi e infinitesimi errori di calcolo – l’esatto compiersi di qualsiasi evento. E’ lui il testimone discreto di quanto accade fuori scena agli avventori del locale, e a intervalli più o meno regolari ne fa l’oggetto di garbate confidenze rivolte al lettore. Tra gli universitari, siamo invitati a seguire in particolare un manipolo di matricole di Le Havre, nei suoi ciondolamenti in solitaria o in gruppo nel gomitolo di strade attorno alla Sorbona e in tutto il Quartiere Latino. C’è il bugiardo viveur Armand Rohel, anticonformista ampiamente fuori luogo nell’esclusivo salotto letterario in cui è introdotto dal più inquadrato compagno Brennuire, autoctono, e dove desterà un certo clamore recitando versi cubisti; c’è Hublin, l’appassionato di spiritismo che un bel giorno parte per il Brasile per fare fortuna con il caffè e decide di voltare le spalle a tutto ciò in cui ha creduto.

E poi c’è Vincent Tuquedenne, quanto di più simile – in questa amarognola commedia per più voci – a un protagonista: schivo, malinconico, abitudinario, “asceta per debolezza”, si professa ora dadaista ora bergsoniano, vive di paradossi, di barbosissime letture e di poesia situazionista, ma il tempo tende più che altro ad ammazzarlo senza concludere nulla. Tra gli uomini maturi spicca il “Pasticca” Tolut, professore di geografia in pensione, macerato dal rimorso nella convinzione di non aver insegnato adeguatamente bene la materia, non avendo mai viaggiato. A scatenare questi dubbi quasi fuori tempo massimo è il fatale incontro con Brabbant, piccolo truffatore dalle mille identità, un Landru che non uccide e che ha deciso di tentare il tardivo salto di qualità con un raggiro memorabile, per sistemarsi fino alla fine dei suoi giorni. Per tutti l’occasione è lì, a portata. Ma come pronosticato dal mite Alfred, tutto andrà come deve, e poi l’ennesimo ciclo si chiuderà: i giovani si rimetteranno in quadro dopo un ambientamento difficoltoso, concluderanno gli studi e partiranno militari; i vecchi saranno traditi nell’ultimo slancio, chi dalla demenza senile, chi da una riconciliazione negata forse senza un vero perché. Tutti si faranno da parte, come le foglie morte che sui viali si decompongono in pozze fangose, spazzate via per lasciare il posto a quelle ingiallite e cadute dopo l’ennesima estate.

Romanzo giovanile, a torto o ragione considerato “minore” in seno alla produzione letteraria del grande autore francese, “Gli Ultimi Giorni” è un’opera piacevolmente fuori moda – meglio, sospesa in una sorta di bolla atemporale – che pennella con indubbia delicatezza lo sfumare delle stagioni della vita, attento al valore universale e in fondo inesorabile dei suoi assunti ma anche all’intima verità di pochi personaggi esemplari. Si discetta in lungo e in largo di morale, filosofia, ragione, scienza, esistenzialismo, ma non c’è pedanteria di sorta a inquinare queste pagine. Semmai un po’ di indolenza, quell’apatia languida e triste che il rinunciatario Tuquedenne trasmette quasi per osmosi capitolo dopo capitolo, prima di dare una sterzata alla sua pallida parabola di studente autoconfinatosi nella solitudine; oppure quella certa spolverata di ininterrotta amarezza, nascosta tra le righe, implicita ma innegabile, per lo spreco inesauribile di intelligenze, buoni propositi e tempo, tempo soprattutto. Non c’è spazio, tuttavia, per il pessimismo. Queneau condisce ogni capoverso con un’ironia gentile, mai beffarda, e si rivela fatalista nel senso migliore del termine, astenendosi da ogni forma di speculazione non neutra.

“Non vale la pena cercare il sole a mezzanotte”, sostiene a un certo punto uno dei ragazzi. E’ inutile cioè incaponirsi a caccia di significati reconditi, negli schemi oscuri dell’esistenza come in questo libro. Quello è compito di chi governa le clessidre, il destino. Squisitamente interpretato ne “Gli Ultimi Giorni” dal bonario cameriere di un caffè parigino, Alfred, sempre brillante nei vaticini sulla pittoresca umanità del quartiere e tenacissimo nel proposito di rendere finalmente giustizia al proprio padre, per tutta la cattiva sorte patita negli ippodromi cittadini. Ovviamente avrà ragione lui, su tutta la linea.

7.7/10

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Fool _Letture

       

Che stramaledetto spasso è farsi intrattenere da Christopher Moore! Quelli delle Edizioni Elliot lo hanno capito talmente bene che non si sono persi un titolo, se tralasciamo quel “Il Ritorno del Dio Coyote” edito da Sonzogno ormai una vita fa. Nella recensione che segue ho chiarito punto per punto perché questo pastiche sia irresistibile e compensi certi eccessi altrimenti ravvisati nell’autore statunitense, nel celebrato “Un Lavoro Sporco” ad esempio. Mentre divoravo entrambi i romanzetti non erano ancora usciti in Italia i rispettivi seguiti, “Il Serpente di Venezia” e “Anime di seconda mano”. Ci ha pensato la Elliott, come sempre, in tempi recenti. Sembrano promettere bene ma è difficile che sappiano entusiasmare come “Fool”, davvero Chris Moore al suo meglio.

Nel castello della Torre Bianca il vecchio re della fantomatica Britannia, Lear, ha deciso di farsi da parte e lasciare il regno a quella tra le sue eredi che mostri di amarlo con gli argomenti più convincenti. Tra le due figlie maggiori, le campionesse di perversione e crudeltà Goneril e Regan, è una bella sfida: con opportunismo da fuoriclasse, si servono delle lusinghe più spudoratamente false per gratificare il genitore, e il gioco paga. Non si abbassa al medesimo baratro di ipocrisia la più giovane Cordelia, che non nega all’anziano monarca lealtà e affetto ma nemmeno gli promette l’amore sopra ogni cosa, e per questo viene ripudiata, diseredata e costretta a un matrimonio senza dote con l’effemminato regnante di Francia. La partenza di quest’ultima, la messa al bando del più integerrimo dei cavalieri, il vecchio Conte di Kent, e l’esilio volontario del sovrano con un esiguo seguito di uomini in armi, spalanca di fatto le porte a foschi scenari e lotte intestine, con le sorelle pronte a strapparsi a vicenda l’altra metà del regno e l’infame figlio illegittimo del Conte di Glouchester, Edmund, pronto ad approfittare di una situazione generale non proprio trasparente per usurpare il titolo nobiliare e, se possibile, mettere le mani sulla corona dopo aver sedotto una a scelta tra le principesse fedifraghe.

Il solo ad aver intuito la gravità della situazione non è un nobiluomo, né un prelato o un magistrato, bensì il black fool, Taschino, il matto nerovestito, quella maliziosa e irriverente “sputacchiera di saliva ancora calda” che un po’ tutti a corte vorrebbero da tempo veder morto, forse perché la sua “finissima arte” sfugge regolarmente ai malcapitati bersagli della sua satira. Un po’ tutti, si diceva, tranne quei pochi che, in un modo o nell’altro, stanno appunto levando le tende. Anche a lui è riservata la medesima sorte, per fortuna, una temporanea fuga dal centro del pericolo, ideale per architettare con pochi fidati assistenti – l’amichevole apprendista minus habens Drool, il Conte di Kent ringalluzzito da un incantesimo, uno spettro in forma di fanciulla che dispensa enigmi in rima, una terna di streghe bonaccione, e il severo alter ego in miniatura Jones, picchiatore manifesto in stretta sinergia con la sua velenosa linguaccia – un ardito piano di riscossa che rimetta tutto a posto e regali all’ultima pagina il più scintillante degli “…e vissero felici e contenti”. Per la redenzione dei malvagi irrecuperabili, come per il riscatto di chi era marcio nonostante le apparenze, non ci sarà spazio ma l’amore, almeno quello, non potrà che trionfare.

E’ un Medioevo distopico ma incredibilmente attuale quello in cui si trovano a recitare – in certi frangenti, letteralmente – gli attori di “Fool”. Proprio come oggi ci sono due papi (uno “scontato” e uno “al dettaglio”) e il sesso è al centro di tutto, un’ossessione quotidiana declinata con gioiosa esuberanza, quasi come in una versione del Decamerone riveduta e corretta per restare al passo coi tempi. In quello che è un mirabolante minestrone di tòpoi shakespeariani – intrighi, sotterfugi, sensi di colpa, sprofondi a intermittenza nella pazzia, streghe e fantasmi, mutuati per ammissione dell’autore da una dozzina abbondante di opere del Bardo – Christopher Moore si prende la briga di riscoprire e nobilitare la figura del matto, da semplice dotazione o “divertimento ornamentale” di corte a metafora stessa di vitalismo e imprevedibilità, da cantastorie, giocoliere e diletto per infante (più o meno cresciute) a strumento del caso come nelle carte, il “numero zero” dei tarocchi che sfugge qualsivoglia categorizzazione e può rimettere ogni dettaglio in discussione, persino farsi motore dell’azione in un’esilarante black comedy e scatenare una guerra senza spade (ma con pugnali) e armate, con la sola forza dell’arguzia e di un bastone con la testa da giullare.

Moore è scrittore effervescente e pirotecnico come pochi, anche genuino con quel suo entusiasmo refrattario alle etichette e ai filtri di tanta letteratura di successo. Non sempre, tuttavia, i suoi pastiche pop grotteschi riescono gustosi e convincenti fino in fondo. Il deragliamento è eventualità sempre plausibile, il pericolo di indigestione kitsch molto più che concreto, per cui si rischia di ultimare la lettura dei suoi coloratissimi romanzi (uno per tutti, “Un Lavoro Sporco”) quantomeno provati dal bombardamento di rimandi alla cultura di massa. In “Fool” questo inconveniente è scongiurato dalla fluidità della sua penna, per una volta equilibrista con i fiocchi, e dalla felicissima maestria con cui questa piccola farsa è costruita e raccontata. Ma realmente cruciale, ancor più dei dialoghi efficacissimi o di una parodia che non si fa mai travolgere dall’amore viscerale per i suoi modelli, è il protagonista incontrastato. Lo scrittore statunitense è davvero sorprendente nell’animazione del suo genio fuori dalla lampada, incalzante nelle allusioni e salace negli affondi, ma sempre con una sottigliezza che gratifica e profuma d’intelligenza. Libertino, caustico, amarissimo: Taschino suona come una via di mezzo tra il Woody Allen migliore (quello anni settanta) e un buffone coprolalico e sessuomane à la Luttazzi dei bei tempi andati. Il bello, peraltro, è che non si esaurisce solo nella maschera comica. Supera lo stereotipo in agilità perché è figura umanissima con un triste passato alle spalle e, in barba ai connotati logori del matto, si muove nella storia con una lucidità che a tutti gli altri pare preclusa.

Un libro, insomma, divertentissimo. Il titolo ideale, forse, per chi voglia fare amicizia con Christopher Moore.

8.7/10

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