Pastorale Americana _Letture

       

L’altro ieri ho trovato in libreria una copia di “Pastorale Americana” a una manciata di euro. Una prima edizione italiana, un Supercoralli del 1998. L’ho presa senza pensarci un istante, ma non per leggerla, no. Mi vergogno un po’ a dirlo, l’ho acquistata per rivenderla. Viaggia tra i sessanta e gli ottanta euro quella particolare edizione, specie nelle condizioni ineccepibili dell’esemplare di cui sopra. Forse già questo dettaglio – un Supercoralli di appena vent’anni, smerciabile (facilmente) a quelle cifre – rende in maniera adeguata l’idea del culto che si è alimentato negli anni sul conto del romanziere di Newark, puntualmente accreditato come sicuro vincitore del “prossimo Nobel per la letteratura” e immancabilmente beffato dal sudafricano o dalla bielorussa di turno, persino dal cantautore che “moh, vado o non vado a ritirarlo?”. Elementi per giudicarlo in profondità o per scrivere un coccodrillo decente non ne ho, quindi a differenza dei tanti che in queste ore si scoprono sui social “massimi esperti italiani di Philip Roth”, mi astengo. Mi limito a lasciare la recensione senza pretese scritta su Anobii appena due mesi e mezzo fa, dopo aver chiuso l’ultima pagina proprio di “Pastorale Americana”, prima edizione italiana nei Supercoralli, copia personale non destinata alla vendita. Eh sì, ne ho trovate e comprate due a pochissimo nel giro di tre mesi. E’ che mi stavo dando una svegliata e intendevo provare a vederci chiaro sull’annosa questione “Roth & il nobel: uno scandalo o la giusta pernacchia?”. “Il Lamento di Portnoy” e “Complotto Contro l’America” mi fanno l’occhiolino là sullo scaffale, ma ho scelto di ignorarli ancora un po’. A questo punto la faccenda perde infatti d’interesse, per quanto già mi aspetti quelli che rivendicheranno la magnifica opportunità di un Nobel “alla memoria”, così da colmare la mancata assegnazione di quest’anno a Stoccolma. Per sapere se il libro e Roth mi sono piaciuti, ad ogni modo, vi tocca proseguire nella lettura, tié.

 

Stati Uniti, anni novanta. Quale razza di sventura è toccata in sorte a Seymour Irving Levov – da tutti ribattezzato affettuosamente “lo svedese” – che nella brulicante, operosa Newark degli anni quaranta e cinquanta era venerato come una sorta di “domestico Apollo ebreo”, nel quartiere di Weequahic ma non solo? Dapprima campione locale di pallacanestro, football e baseball, quindi addestratore nei Marines, imprenditore e cittadino esemplare, marito di una (tormentata) ex reginetta di bellezza nonché padre irreprensibile, non ha mai mancato di danzare col successo ma neppure si è lasciato intortare dalle sue lusinghe finendo per montarsi la testa.

 

Ora comunque non è più della partita, un cancro alla prostata lo ha portato via a nemmeno settant’anni, ma forse è già parecchio tempo che il suo annientamento si è compiuto. Per ripercorrere la sua parabola ci viene offerta la testimonianza a tratti devozionale dello scrittore Nathan Zuckerman – l’alter ego di Philip Roth – informato della sua fine dal fratello di lui all’annuale raduno degli ex studenti del locale liceo, in una occasione “mondana” di per sé già piuttosto deprimente.

 

Il narratore non impiega molto per congedare l’ingenua opinione che conservava da secoli sul conto dell’illustre concittadino. Gli è sufficiente soffermarsi per pochi istanti sulla cruda verità che questo suo vecchio compagno di scuola, Jerry Levov, gli affida con sincerità quasi brutale. Si spalanca così tutto un altro teatro, e al centro della scena scopriamo che lo svedese, uomo integro ma opaco, “costruito per il conformismo e la responsabilità”, era in realtà stato annichilito dagli eventi già una trentina di anni prima quando la problematica figlia adolescente, Meredith (per tutti Merry), aveva deciso di “riportare la guerra in America” piazzando un ordigno in un piccolo emporio e uccidendo un uomo innocente.

 

Una scheggia impazzita cresciuta a pane e valori. Un particolare momento storico, l’inasprirsi del conflitto vietnamita voluto da Lyndon Johnson, alla fine degli anni sessanta: una miscela micidiale che avrebbe mandato in mille pezzi la fiduciosa utopia di quel mite protagonista, “sbalzandolo dalla tanto agognata Pastorale Americana” per scaraventarlo “nella sua antitesi, il furore, la violenza e la disperazione della Contropastorale, l’innata rabbia cieca dell’America.

 

Evidentemente sconvolto da un’evidenza che mai avrebbe immaginato, Zuckerman/Roth diventa preda di questa ossessione e decide di scambiare la propria solitudine con quella di quell’individuo che così profondamente aveva mitizzato in tenera età. Di più, sceglie di “abitare questa persona” tanto diversa da lui, di sparirvi dentro e trarre dalla sua intima tragedia l’ispirazione per un nuovo romanzo. Che è appunto questo “Pastorale Americana”, un affresco corale che conserva intatta la fragranza dei classici – che avanza, persino, ambizioni più o meno legittime al titolo di Great american novel – e insieme il dramma esistenziale di “un uomo giusto al momento sbagliato”, la bandiera stessa del logoro mito dell’integrazione esposta al fortunale inatteso dei nuovi barbari, allevati in quelle stesse case rispettabili “dove va sempre tutto storto”, gli “apocalittici” della contestazione (pre-)sessantottina.

 

Sullo sfondo di un intreccio formidabile, “scosso” come un cavallo al Palio ma non abbastanza da ingarbugliarsi senza rimedio, vediamo sfilare due decenni e mezzo di epopea yankee, con l’acuirsi quasi tangibile delle contraddizioni di un paese sempre meno propenso a credere all’abbagliante splendore dell’American Dream, tra delocalizzazione selvaggia e conflitti razziali ogni giorno più insensati e brucianti.

 

E in questa sua amara dimensione polifonica che “Pastorale Americana” rende forse al massimo, nella brusca presa di coscienza di una collettività di irriducibili ottimisti, svegliati come da un boato improvviso, travolti senza nemmeno poter azzardare una reazione dallo schianto di un sistema valoriale andato a catafascio e condannati a languire in un disincanto raggelante, privi di certezze e con in mano bussole oramai inservibili. Non potrebbe funzionare, tuttavia, se Roth non avesse costruito a monte una caratterizzazione vivida e impeccabile come quella dello svedese, giudice impietoso di se stesso, strapazzato dalla fatalità di una Storia che non mostra alcun riguardo per l’etica sobria e ineccepibile alla quale ha consacrato la propria esistenza.

 

La sua “resa incondizionata” alla tragedia, di grande finezza psicologica, è magistrale come le superlative (ma laceranti) riflessioni sul tema della memoria, della perdita, del fallimento, così come i ritratti della consorte, l’eternamente insoddisfatta Dawn Dwyer, e del patriarca Lou Levov, ormai fuori contesto come l’eccellenza del vecchio guanto di pelle. Lo stesso non si può dire invece di quelli, prossimi alla caricatura, della scriteriata rampolla e del fratello cinico oltre il lecito, uniche vere pecche narrative di una macchina che a tratti sfiora la perfezione, salvo poi pagare qualcosa in faciloneria didascalica volendo estremizzare a tutti i costi. Gran bel libro comunque, di quelli che si vorrebbero divorare senza arrivare mai all’ultima pagina.

8.5/10

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