Jesus Hits Like The Atom Bomb

 

Recentemente ho provato ad abbozzare, proprio sulle pagine di questo blog, una sorta di classifica senza graduatorie dei dischi da me ritenuti più significativi relativamente al decennio appena mandato in archivio. Operazione inutile per la sua parzialità, ma qui mi preme sottolineare un aspetto secondario emerso mentre mi annotavo i titoli. Sono andato inizialmente a memoria, per quelli che avrebbero dovuto essere gli album più memorabili, quindi ho preso carta e penna e mi sono trasferito in camera davanti agli armadi con i CD, interrompendomi ogniqualvolta la mia attenzione veniva intercettata da uno di quei dischi che no, proprio non si poteva lasciar fuori. La cosa divertente in tutto questo processo è stata la reiterata manfrina del "Che cacchio! Questo è OK ma va nei '90". Una frasetta che avrò ripetuto un numero imbarazzante di volte nel giro di un quarto d'ora. E' vero, diversi dei miei dischi preferiti per gli 'anni zero' non li posseggo fisicamente ma solo in quella magic box che è l'ipod. Questo è anche alquanto triste come dettaglio, ma meriterebbe un discorso a parte talmente ampio ed articolato che mi viene mal di testa solo a pensarci. La verità, a parte questo, è molto più semplicemente che una bella fetta dei dischi che più ho amato risalgono proprio al decennio passato. Quello passato un decennio fa, per intenderci. Tante band esplose in modo fragoroso in quel periodo sono scomparse, tipo i Pavement, altre hanno continuato a sfornare dischi senza mai fermarsi ma incorniciando proprio negli anni '90 il meglio della loro produzione, il fuoco diciamo. E poi ci sono quei gruppi venuti fuori quasi dal nulla, ma capaci di regalare piccole gemme isolate, perle che i più non hanno riconosciuto come tali anche perché non ne hanno con ogni probabilità avuto l'occasione. E' il caso dei Tripping Daisy e del loro 'Jesus Hits Like The atom Bomb', uno di quegli album comprati svogliatamente e con aspettative prossime allo zero (al di là di un paio di singoli divertenti messi in conto ed in fondo pretesi) in cambio di un paio di biglietti da cinquemila lire, eppure diventati presto classici irrinunciabili per il sottoscritto. Con questo capolavoro sepolto andò praticamente così: ero al primo anno di università, trovai il CD già di seconda mano (per quanto 'Atom Bomb' fosse uscito in quella stessa stagione), rifiutato da qualche scriteriato acquirente che probabilmente si aspettava del post-rock cristiano e scaraventato nel calderone degli usati a meno di metà prezzo dall'occhio preciso di un negoziante che doveva avere ben presente quanto poco vendesse nella sua bottega questa bizzarra combriccola texana. Il secondo LP del gruppo di DeLaughter – 'I'm an Elastic Firecracker' – l'avevo preso nello stesso posto qualche mese prima: ne avranno avute almeno tre copie. Anche il modesto esordio ('Bill') l'avevo acquistato lì. Nulla di stratosferico, anzi. Vedendo che avevano il disco nuovo, già disponibile, esitai non poco, dato che i Tripping Daisy non mi avevano certo entusiasmato. Mi salvò la tendenza a spendere sempre e comunque, oltre al ricordo di un paio di episodi punk-pop tutt'altro che malvagi nel loro best seller, quello con il folle italiano Cavellini in copertina, intento ad autostoricizzarsi. Nel pezzo che ho scritto per Monthlymusic – l'unico finora da me dedicato ad un'opera del passato – credo di aver messo sufficientemente in luce gli aspetti fondamentali di un lavoro che era destinato a restare unico nel suo genere, soprattutto valutando la parabola creativa curiosa del suo brillante (e misconosciuto, tutto sommato) autore. L'istantanea perfetta di una band sfortunata immortalata nel suo miglior momento, un attimo appena prima della morte e resurrezione in qualcosa di profondamente diverso, più ruffiano, caricaturale, pronto per il mercato. I Polyphonic Spree, nati dalle ceneri dei Tripping Daisy con la dipartita del loro talentuoso primo chitarrista, sono stati e sono un geniale esperimento stilistico ma, prima ancora, un furbissimo esercizio di posizionamento strategico in seno alla musica alternativa statunitense. Un colpo di teatro, se volete, le cui premesse erano già presenti in questo disco fantastico, per giunta con una polpa rock (in equilibrio miracoloso con il power-pop) che la nuova band ha in parte recuperato solo dopo tre lavori ('The Fragile Army', personalmente il mio preferito nella seconda vita di Tim DeLaughter). Nella recensione c'é tutto, compreso un accenno a quelle sensazioni malinconiche che affiorano sottili sotto la crosta psichedelica e al di là del rombo a pieni giri dei motori di un gruppo davvero eclatante. Adrenalina, spensieratezza, amore e morte. Tutto questo all'occorrenza, ogni ingrediente al suo posto, perfettamente incastonato accanto agli altri: incombente come un'emozione forte, delicato come certi ricordi graditi, destinato a durare nel tempo come tutto ciò che non lascia indifferenti.

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