Month: novembre 2011

The Threshingfloor

         

Si fa presto a parlare di etnofolk. Ho da poco recensito il nuovo album di Piers Faccini ed ho sottolineato come il respiro di una world music senza frontiere riesca ad animarne le canzoni di sussulti e suggestioni, prendendo abbastanza chiaramente il posto della più tradizionale matrice folk britannica nell’impronta del songwriting. Che il genere sia comunque molto più vario di quanto si possa immaginare lo dimostra il confronto con quest’altro disco raccontato giusto un annetto fa nella top 10 del 2010 scritta per monthlymusic.it: ‘The Threshingfloor’, lo stimolante ritorno di David Eugene Edwards allo scuro misticismo dei 16 Horsepower. Quel che maggiormente mi ha fatto apprezzare l’ultimo lavoro dei Woven Hand rispetto ai suoi immediati predecessori è stato proprio l’impulso marcato alla contaminazione, un’esigenza che Edwards ha saputo assecondare senza tradire il proprio background “gotico” americano ed anzi arricchendolo grazie alle più svariate influenze esterne. Rispetto alla recente fatica di Faccini, l’album dei Woven Hand è stato sviluppato all’interno di una cornice comunque molto coerente che, con sguardo semplicistico, si potrebbe definire “taglio spiritualista”. In poco più di quaranta minuti convivono il tipico desert folk del cantautore del Colorado, il country espressionista e la vena del predicatore della sua vecchia band, l’ascetismo dei nativi americani in una versione assolutamente credibile e mille altre arcaiche sensazioni, esotismi e mediorientalismi inclusi. Il risultato non è il pastiche ridondante che potrebbe sembrare perché Edwards si è rivelato abilissimo nel rendere armonico l’incontro tra i tanti mondi musicali chiamati in causa, evitando che una sola delle singole componenti potesse prendere il sopravvento ed assicurando al tempo stesso quella coerenza di fondo grazie alla sua voce inconfondibilmente tenebrosa ed al prevalere di sonorità acustiche febbrili e polverose. Etnofolk lontano tanto dal bozzettismo dei lavori studiati a tavolino quanto dall’odioso effetto cartolina che spesso il meticciamento sonoro comporta. Un disco, questo ‘The Threshingfloor’, che merita di essere riassaporato di tanto in tanto in attesa del prossimo passo discografico di Edwards. Pensavo si potesse già trattare di quel ‘Black of the Ink’ uscito due settimane fa per Glitterhouse, invece no: è solo una mini raccolta di brani vecchi riarrangiati, abbinata ad un elegante volume con tutti i testi di questo straordinario predicatore contemporaneo.

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Joan As Policewoman @ Gruvillage 20/07/2011  _ Il nostro (altro) concerto

    

Joan Wasser è un’artista speciale. Non semplicemente una delle cantanti e musiciste più brave in circolazione ma anche una delle poche capaci di arrivare al cuore di chi ascolta con grande personalità, lasciando l’impressione di una presenza genuina, di sincerità, oltre che di accesa passione. E’ sempre stata un peperino, una ragazza di carattere, ma rispetto ai primi due album – quelli in cui appariva come una rocker sensibile e vecchio stile – oggi sembra profondamente maturata, cresciuta ed in un certo senso sgravata da quel pesante velo di sofferenza che rendeva comunque speciali le migliori canzoni di ‘Real Life’, tanto per citare il folgorante esordio discografico. L’ho seguita sin dall’inizio, anche perché avevo letto di lei quando ancora era nota unicamente come (ultima) fiamma di Jeff Buckley, chissà quanti anni fa. L’ho intercettata un po’ casualmente negli anni ’90, prima come violinista nel superbo progetto Those Bastard Souls di Dave Shouse (in cui suonava anche il chitarrista di Buckley, Michael Tighe), quindi in misconosciute band di quegli anni (Dambuilders, Mind Science of Mind) e infine accanto a due giganti come Antony Hegarty e Rufus Wainwright, ispiratori e maestri per l’autrice che stava nascendo dentro di lei. Soltanto allora è partita l’avventura di Joan as Policewoman, accolta subito con entusiasmo dalla critica ma forse non allo stesso modo dal pubblico. Certo l’episodio di cui sono stato testimone nel luglio del 2006, quando Joan apri il megaconcerto gratuito degli Strokes qui al Parco della Pellerina, può essere stato fuorviante  visto che il pubblico becero accorso per incitare il gruppo newyorkese non era certo in vena di spleen intimista. Fu trattata malissimo nonostante un set intenso e toccante. Quasi inevitabile forse, ed io mi ritrovai a provare una pena profonda per lei (ed anche un po’ di vergogna, visto che ero alla Pellerina quasi esclusivamente per la band di Julian Casablancas). Pensavo che difficilmente la si sarebbe ancora vista e sentita, invece due anni dopo è uscito ‘To Survive’, sopravvivere, altra eloquente testimonianza della sua tempra e del suo coraggio.

Il concerto all’Hiroshima alla fine di quello stesso anno è stato strepitoso (spero di scriverne prima o poi), ed è stato allora che ho avuto la netta percezione dello spessore e del talento di questa ragazza. Qualche mese fa si è presentata l’occasione per un nuovo incontro e le aspettative non sono andate deluse. Il piglio è sempre quello e a livello stilistico la “poliziotta” ha ampliato decisamente i propri orizzonti guardando al soul ed al pop raffinato in maniera credibile ed ancora una volta personalissima. Erano soltanto in tre sul palco del Gruvillage alle Gru di Grugliasco, compreso un giovanotto mai visto prima che ha scandito i ritmi con il synth senza inquinare la magia della musica di Joan, anzi, arricchendola di una patina quasi retrofuturista ma non pacchiana. Alla batteria poi c’era l’immancabile sodale Parker Kindred, una garanzia. Ancora una volta una bella prova, calda e sensuale, per quanto si sia rimaterializzato lo spettro di un’assurda gerarchia alla rovescia con la band ad aprire in tempi strettissimi per lo show degli Ok Go, davanti ad un pubblico di adolescenti scalpitanti. Non è andata male come cinque anni prima: la Wasser ha saputo farsi apprezzare da spettatori non suoi (lì per lei eravamo davvero pochissimi) e gli applausi non sono mancati. Canzoni dal recente ‘The Deep Field’ in prevalenza (‘The Action Man’, ‘Chemmie’ e ‘The Magic’ le migliori) ma anche qualche occasionale tuffo nel passato come con ‘Save Me’. Alla fine grande soddisfazione prima della demenzialità imperante degli headliner, nonostante la scaletta ridotta. E’ stata sufficiente la certezza che Joan è in crescita costante e che ne vedremo ancora delle belle in futuro, sperando che siano poi altri ad aprire per lei e non viceversa.

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Not Music

         

Mentre il loro indefinite hiatus procede da più di due anni senza che alcuna novità significativa sia giunta a scalfirne la granitica fermezza, mi tocca tirare fuori l’impolverata (e non troppo entusiastica) recensione del loro ultimo passaggio discografico ufficiale. ‘Not Music’, che era poi solo una raccolta di avanzi dalle session di ‘Chemical Chords’ e che quando ruppe all’improvviso il silenzio non sorprese in verità nessuno, non me quantomeno. Sto parlando degli Stereolab, ovviamente, una band la cui mancanza comincia a farsi sentire. Certo l’onestà con la quale quest’ultimo lavoro era stato presentato aveva in fondo già allora chiarito come di un gruppo in pausa di riflessione si trattasse. Materiale di seconda scelta quello di ‘Not Music’, frammentario e marginale, plasmato con la consueta cura per l’arrangiamento eccentrico ma fondamentalmente privo di spunti degni di nota. Che l’ispirazione del gruppo anglo-francese avesse iniziato a mostrare la corda ce ne eravamo accorti da un po’, diciamo dai tempi di ‘Margerine Eclipse’, anche se lo straordinario mestiere e l’instancabile ricerca stilistica avevano saputo in più occasioni piazzare le giuste toppe in lavori minori per quanto sempre molto gradevoli. A ‘Not Music’ questo miracolo non è riuscito, e non poteva che essere così in fin dei conti: è una collezione di esercizi sonori, di bozzetti e di divertissement, non di canzoni, e come tale non può che lasciare freddini gli ascoltatori di passaggio immalinconendo i fan più accaniti. Mentre Laetitia e ancora in giro per il mondo a promuovere il suo (piacevole ma non indimenticabile) esordio solista e Tim è senza dubbio impelagato in qualche nuovo progetto, spiacerebbe dover registrare che questa pallida raccolta sia a tutti gli effetti l’ultimo capitolo di un’avventura formidabile e rivoluzionaria come quella degli Stereolab. Certo da loro non ha senso attendersi ancora un colpo di coda degno di ‘Transient Random-Noise Bursts With Announcements’ né un fantomatico secondo capitolo di ‘Dots and Loops’ (la cui cifra minimalista sembrerebbe tornata in auge proprio in queste più recenti registrazioni) ma la speranza che la carriera possa riservare ancora qualche sorpresa e qualche bella canzone è più che legittima. Restiamo in attesa allora. Con le reunion tornate prepotentemente di moda, gli hiatus sono quanto di meno quotato al momento. Anche le Sleater Kinney e le Electrelane sono avvertite…

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La Sacra Famiglia                                          _Letture

    

Ora penso di poterlo dire con una certa convinzione, visto che tre indizi dovrebbero poter costituire una prova fatta: Douglas Coupland è un signor autore. Mi era piaciuto molto ‘Hey Nostradamus!’, un libro romantico e sincero come mi è capitato di leggerne raramente. Mi ero stupito e non poco apprezzando ‘Microservi’, più ostico ed in apparenza freddo, ma in realtà illuminato dalla stessa viva malinconia e da un entusiasmo di fondo non ruffiano che ho ritrovato di recente in un paio di reportage ben fatti sugli anni ruggenti di uno Steve Jobs ancora “affamatissimo”. Questo ‘All Families are Psychotic’ ha confermato in pieno quelle qualità che rendono così pregevole lo stile del romanziere canadese. Agilità, ironia, umanità, merci molto più rare di quanto si pensi in ambito letterario, anche se a giudicare dalla generosità delle recensioni si sarebbe indotti a credere il contrario. Mi fa particolarmente piacere anche una semplice considerazione extra: i tre testi di Coupland che ho letto finora non sono certo i suoi più celebri, né quelli che solitamente vengono citati nelle riduttive biografie da terza di copertina. All’appello mancano tra gli altri ‘Generazione X’, ‘Generazione Shampoo’ e ‘Miss Wyoming’. Soprattutto nel caso del primo – celeberrimo – avevo più di un timore ad imbattermici, forse perché convinto che le lodi unanimi ed il riconosciuto valore “generazionale” si sarebbero tradotti per forza di cose in una delusione cocente. Non lo dico perché mi piaccia passare per snob – Dio me ne scampi –  ma proprio perché guardo sempre con un certo scetticismo ai cosiddetti fenomeni. Ora che ho conosciuto il Coupland meno celebrato, apprezzandolo, penso sia giunto il momento di affrontare anche quello che qualche tempo fa sembrava destinato a diventare un mostro sacro.

Sette giorni in Florida al seguito della sconclusionata famiglia Drummond, riunitasi controvoglia dopo lungo tempo per salutare la prima missione nello spazio dell’unico vero genio di casa, Sarah. L’eccezionale pretesto narrativo, scelto dall’autore come necessario punto di partenza per questo romanzo, diviene immediatamente l’epicentro di un sisma che fa deflagrare nevrosi e luoghi comuni della tipica famiglia americana, per poi arrivare a salvarne dopo mille bordate il genuino spirito di fondo. Con la Florida eletta a ideale teatro di ogni possibile paradosso americano, ed il parco di divertimenti Disney World scento come emblematica punta dell’iceberg, il canadese Coupland costruisce un impagabile compendio di iperboli contemporanee dove non manca davvero nulla: una costante finzione iperrealista, i deliri scientisti, il consumismo sfrenato, la religione fai da te, la pornografia telematica, la malattia e l’autocommiserazione. Una miriade di espedienti socio-psicologici sono chiamati a deporre in un pirotecnico processo alla famiglia in crisi, destinato a concludersi con l’inevitabile assoluzione perche i personaggi de ‘La sacra famiglia’ (orrido rimpiazzo del titolo originale) riescono comunque estremamente simpatici e perché in fondo – per (ir)responsabilità condivisa – “tutte le famiglie sono psicotiche”.
Wade, protagonista e “peggior nemico” di se stesso, è un quarantenne pragmatico ma scapestrato che ha deciso forse troppo tardi di mettere la testa a posto, fermamente convinto che la sua esistenza non sia altro che una commedia di cattivo gusto. Un destino analogo sembrerebbe riservato al fratello Bryan, eterno infante con valide aspirazioni alla catastrofe, e ai due genitori separati: Ted, donnaiolo rovinato da troppi abusi, e Janet, madre coraggio assai poco politically correct nonché cuore pulsante di una cerchia familiare decisamente meno malata di quanto il romanzo non faccia intendere ad una lettura superficiale. Visto che anche i personaggi di contorno funzionano a dovere e la trama si mantiene scoppiettante dalla prima all’ultima pagina, si può chiudere senza problemi un occhio sulla digressione verso il fantastico che nelle battute conclusive spinge le vicende verso l’happy end. Non per questo Coupland può essere tacciato di buonismo. Tutt’altro: questo libro è feroce il giusto, pungente, ma senza mai sbracare. Molto semplicemente il canadese conferma di essere uno di quegli autori che amano trovare il buono anche in ciò che buono non sembra, preferendo di gran lunga storie tribolate ed antieroi pieni zeppi di difetti rispetto ai soliti fasulli soggetti figli della carta carbone. <<A volte vorrei che fossimo come le famiglie degli spot TV. Capelli ben pettinati, atteggiamento ottimista e piccole vite perfette>>, lamenta qualcuno ad un certo punto. Vero, ma in un simile caso ‘La Sacra Famiglia’ si esaurirebbe in una noia mortale, indipendentemente dalla perizia e dalla verve del suo creatore. Un romanziere che, ancora una volta, riesce nel miracolo di una scrittura agilissima e per nulla banale, divertente nel modo in cui muove la propria critica (neanche tanto velata) al costume, ed insieme toccante nel presentare un punto di vista non scontato sul presente, nel raccontare in modo credibile (e leggero) i sentimenti evitando ogni facile tentazione sentimentalistica. Le prime folgoranti pagine lo testimoniano in maniera innegabile, così come quelle amarissime ambientate nel monumentale parco di divertimenti di Orlando: <<Questo posto è una specie di “spegnisogni” cosmico. Tutto ciò che ti da è la sensazione strisciante che tuo figlio nella vita non sarà mai altro che un cliente. Che il mondo intero si sta trasformando in un casinò>>. Magistrale. Gelidamente ironico, gentilmente aspro, senza mai scadere nel cinismo o nelle gratuite provocazioni alla Palahniuk. Per quanto personaggi e situazioni tendano ad una deformazione che va al di là del plausibile e siano scientemente spinti all’eccesso, conservano sempre il proprio fondo di verità, oltre che di attualità, e non si avverte mai la sensazione di una comoda (e trita) satira sociale né della caricaturizzazione grottesca.
In questo risiede il vero talento di Douglas Coupland.

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