Month: maggio 2018

Pastorale Americana _Letture

       

L’altro ieri ho trovato in libreria una copia di “Pastorale Americana” a una manciata di euro. Una prima edizione italiana, un Supercoralli del 1998. L’ho presa senza pensarci un istante, ma non per leggerla, no. Mi vergogno un po’ a dirlo, l’ho acquistata per rivenderla. Viaggia tra i sessanta e gli ottanta euro quella particolare edizione, specie nelle condizioni ineccepibili dell’esemplare di cui sopra. Forse già questo dettaglio – un Supercoralli di appena vent’anni, smerciabile (facilmente) a quelle cifre – rende in maniera adeguata l’idea del culto che si è alimentato negli anni sul conto del romanziere di Newark, puntualmente accreditato come sicuro vincitore del “prossimo Nobel per la letteratura” e immancabilmente beffato dal sudafricano o dalla bielorussa di turno, persino dal cantautore che “moh, vado o non vado a ritirarlo?”. Elementi per giudicarlo in profondità o per scrivere un coccodrillo decente non ne ho, quindi a differenza dei tanti che in queste ore si scoprono sui social “massimi esperti italiani di Philip Roth”, mi astengo. Mi limito a lasciare la recensione senza pretese scritta su Anobii appena due mesi e mezzo fa, dopo aver chiuso l’ultima pagina proprio di “Pastorale Americana”, prima edizione italiana nei Supercoralli, copia personale non destinata alla vendita. Eh sì, ne ho trovate e comprate due a pochissimo nel giro di tre mesi. E’ che mi stavo dando una svegliata e intendevo provare a vederci chiaro sull’annosa questione “Roth & il nobel: uno scandalo o la giusta pernacchia?”. “Il Lamento di Portnoy” e “Complotto Contro l’America” mi fanno l’occhiolino là sullo scaffale, ma ho scelto di ignorarli ancora un po’. A questo punto la faccenda perde infatti d’interesse, per quanto già mi aspetti quelli che rivendicheranno la magnifica opportunità di un Nobel “alla memoria”, così da colmare la mancata assegnazione di quest’anno a Stoccolma. Per sapere se il libro e Roth mi sono piaciuti, ad ogni modo, vi tocca proseguire nella lettura, tié.

 

Stati Uniti, anni novanta. Quale razza di sventura è toccata in sorte a Seymour Irving Levov – da tutti ribattezzato affettuosamente “lo svedese” – che nella brulicante, operosa Newark degli anni quaranta e cinquanta era venerato come una sorta di “domestico Apollo ebreo”, nel quartiere di Weequahic ma non solo? Dapprima campione locale di pallacanestro, football e baseball, quindi addestratore nei Marines, imprenditore e cittadino esemplare, marito di una (tormentata) ex reginetta di bellezza nonché padre irreprensibile, non ha mai mancato di danzare col successo ma neppure si è lasciato intortare dalle sue lusinghe finendo per montarsi la testa.

 

Ora comunque non è più della partita, un cancro alla prostata lo ha portato via a nemmeno settant’anni, ma forse è già parecchio tempo che il suo annientamento si è compiuto. Per ripercorrere la sua parabola ci viene offerta la testimonianza a tratti devozionale dello scrittore Nathan Zuckerman – l’alter ego di Philip Roth – informato della sua fine dal fratello di lui all’annuale raduno degli ex studenti del locale liceo, in una occasione “mondana” di per sé già piuttosto deprimente.

 

Il narratore non impiega molto per congedare l’ingenua opinione che conservava da secoli sul conto dell’illustre concittadino. Gli è sufficiente soffermarsi per pochi istanti sulla cruda verità che questo suo vecchio compagno di scuola, Jerry Levov, gli affida con sincerità quasi brutale. Si spalanca così tutto un altro teatro, e al centro della scena scopriamo che lo svedese, uomo integro ma opaco, “costruito per il conformismo e la responsabilità”, era in realtà stato annichilito dagli eventi già una trentina di anni prima quando la problematica figlia adolescente, Meredith (per tutti Merry), aveva deciso di “riportare la guerra in America” piazzando un ordigno in un piccolo emporio e uccidendo un uomo innocente.

 

Una scheggia impazzita cresciuta a pane e valori. Un particolare momento storico, l’inasprirsi del conflitto vietnamita voluto da Lyndon Johnson, alla fine degli anni sessanta: una miscela micidiale che avrebbe mandato in mille pezzi la fiduciosa utopia di quel mite protagonista, “sbalzandolo dalla tanto agognata Pastorale Americana” per scaraventarlo “nella sua antitesi, il furore, la violenza e la disperazione della Contropastorale, l’innata rabbia cieca dell’America.

 

Evidentemente sconvolto da un’evidenza che mai avrebbe immaginato, Zuckerman/Roth diventa preda di questa ossessione e decide di scambiare la propria solitudine con quella di quell’individuo che così profondamente aveva mitizzato in tenera età. Di più, sceglie di “abitare questa persona” tanto diversa da lui, di sparirvi dentro e trarre dalla sua intima tragedia l’ispirazione per un nuovo romanzo. Che è appunto questo “Pastorale Americana”, un affresco corale che conserva intatta la fragranza dei classici – che avanza, persino, ambizioni più o meno legittime al titolo di Great american novel – e insieme il dramma esistenziale di “un uomo giusto al momento sbagliato”, la bandiera stessa del logoro mito dell’integrazione esposta al fortunale inatteso dei nuovi barbari, allevati in quelle stesse case rispettabili “dove va sempre tutto storto”, gli “apocalittici” della contestazione (pre-)sessantottina.

 

Sullo sfondo di un intreccio formidabile, “scosso” come un cavallo al Palio ma non abbastanza da ingarbugliarsi senza rimedio, vediamo sfilare due decenni e mezzo di epopea yankee, con l’acuirsi quasi tangibile delle contraddizioni di un paese sempre meno propenso a credere all’abbagliante splendore dell’American Dream, tra delocalizzazione selvaggia e conflitti razziali ogni giorno più insensati e brucianti.

 

E in questa sua amara dimensione polifonica che “Pastorale Americana” rende forse al massimo, nella brusca presa di coscienza di una collettività di irriducibili ottimisti, svegliati come da un boato improvviso, travolti senza nemmeno poter azzardare una reazione dallo schianto di un sistema valoriale andato a catafascio e condannati a languire in un disincanto raggelante, privi di certezze e con in mano bussole oramai inservibili. Non potrebbe funzionare, tuttavia, se Roth non avesse costruito a monte una caratterizzazione vivida e impeccabile come quella dello svedese, giudice impietoso di se stesso, strapazzato dalla fatalità di una Storia che non mostra alcun riguardo per l’etica sobria e ineccepibile alla quale ha consacrato la propria esistenza.

 

La sua “resa incondizionata” alla tragedia, di grande finezza psicologica, è magistrale come le superlative (ma laceranti) riflessioni sul tema della memoria, della perdita, del fallimento, così come i ritratti della consorte, l’eternamente insoddisfatta Dawn Dwyer, e del patriarca Lou Levov, ormai fuori contesto come l’eccellenza del vecchio guanto di pelle. Lo stesso non si può dire invece di quelli, prossimi alla caricatura, della scriteriata rampolla e del fratello cinico oltre il lecito, uniche vere pecche narrative di una macchina che a tratti sfiora la perfezione, salvo poi pagare qualcosa in faciloneria didascalica volendo estremizzare a tutti i costi. Gran bel libro comunque, di quelli che si vorrebbero divorare senza arrivare mai all’ultima pagina.

8.5/10

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Tempi duri, Saint Glinglin! _Letture

       

E’ una delle opere più pazze di Queneau questo “Tempi duri, Saint Glinglin!”, folle già per quella genesi d’impronta teatrale dilazionata in tre tempi nell’arco di un quindicennio, e resa un parto faticoso dai continui stravolgimenti e dalle fratture di una forma dilaniata tra monologo interiore, narrativa tradizionale e composizione poetica. Un coacervo di tensioni espressive che la pluralità dei riferimenti culturali – dal mito alla psicanalisi, dal trattato filosofico allo sberleffo surrealista, con un’occhio di riguardo per l’indagine antropologica – avrebbe portato a esplodere in un romanzo incoerente, visionario e debordante. Un romanzo à la Queneau, in pratica…

Pierre Nabonide è un giovane dilaniato dall’inquietudine. Si trova suo malgrado a vivere una sorta di esilio nella “Città Straniera”, dove studia senza alcun profitto l’idioma locale per compiacere il padre e non rendere vana la borsa onorifica che questi si è premurato di assicurargli con grandi sacrifici. Vorrebbe consacrarsi alla scienza della vita ma poi si strugge dinnanzi all’insensata acquesistenza delle creature nel giardino zoologico della fantomatica località estera: aringhe, murene, crostacei e poi i più miserabili di tutti, i pesci cavernicoli. La sua crisi personale raggiunge l’acme alla vigilia della festa patronale di Saint Glinglin, la “Città Natale” abitata dalla sua famiglia e da tutti gli altri “urbinataliani”: il suo ritorno a casa in coincidenza con i festeggiamenti rovina i piani populisti del genitore, il sindaco (un podestà più che altro) universalmente noto come Nabonide tout court (proprio come l’ultimo sovrano di Babilonia), che nei circenses sfrenati della cerimonia ha investito tutto e sperava di distrarre al meglio la collettività. Peggio, la sua ostinazione nel rendersi protagonista di un comizio pubblico apparentemente privo di senso alimenta le malelingue dei notabili meno allineati (Catogan e Paracole) che, a differenza degli altri (Le Busoqueux, Machut, Zostril, Marqueux, Rosquilly, Saimpier, Choumaque), cospiratori silenziosi, non tardano a lamentare apertamente (ma sterilmente) la cattiva gestione in atti pubblici e privati dell’illustre personalità.

Nella cornice invariabilmente alticcia dell’avvenimento, con la popolazione che avalla lo status quo, fracassa giubilante ogni sorta di manufatto in ceramica plasmato per l’occasione e si stordisce tracannando una bottiglia dietro l’altra di Fifrequet e Trapu (o gozzovigliando con il piatto tipico della festa, la super-zuppa di verdure e carne Brouchtoucaille), gli eventi precipitano: mentre si scopre che il primo cittadino teneva segregata una figlia ignota (e del tutto alienata), Helene, questi fugge nella zona impervia delle Colline Aride inseguito dalla prole adirata e trova la morte dopo una rovinosa caduta nella Sorgente che pietrifica. Recuperato, il suo corpo di granito viene eretto a mo’ di statua commemorativa nella piazza principale ed è proprio il figlio Pierre, pure contestatissimo, a raccoglierne il testimone. Un anno più tardi, avvicendamento a parte, nulla di significativo sembra essere davvero accaduto: cittadini, contadini e turisti persistono nelle loro esorbitanti digressioni etiliche, il cerimoniale bislacco della festa continua a calamitare le attenzioni di tutti, lo scaccia-masse-di-nuvole che garantisce il bel tempo perenne è regolarmente in funzione e i polemisti di professione sono sempre in circolazione, velenosi quanto inefficaci nelle loro invettive.

C’è in realtà una nuova forma di sfavillante intrattenimento, introdotta come ogni piccola grande novità dal commerciante e importatore Mandace. E’ il cinematografo, con il suo mondo dorato di stelle e stelline straniere, su tutte quella Alice Phaye che è diventata un’autentica ossessione per il secondo fratello Nabonide, Paul, e che fa visita alla Città Natale giusto alla vigilia della nuova Festa di primavera. Siamo invitati a seguirne la cronaca dalla prospettiva defilata – e in fondo privilegiata perché non viziata dalla locale follia – del turista ed etnografo Dussouchel, testimone smaliziato della fine di un’era e delle sue tradizioni, quando il marchingegno che preserva il clima sereno viene gettato nella discarica da Pierre, la pioggia fa irruzione, vasche e acquari si colmano subito in attesa di ospitare gli adorati pesci e la statua tombale viene dissolta nello sconcerto generale. Il frantumarsi di ogni regola consolidata mentre la pioggia battente comporta nuove forme di assuefazione per gli Urbinataliani, condurrà a esiti imprevedibili prima che la dissoluzione dei quattro fratelli Nabonide riconsegni la cittadina all’impassibile autorità del bel tempo perenne e di nuovi cicli di eventi.

Scritto in tre tempi nell’arco di un quindicennio (1933, 1938, 1948), con più di un’addizione e più stravolgimenti sulla base delle prime embrionali incarnazioni, “Gueule de pierre” e “Les Temps Melés”, pur senza mai trasfigurarne del tutto l’originario impianto teatrale, “Saint Glinglin” è una perfetta manifestazione dell’inventiva strabordante di Raymond Queneau. Come già per altre e più celebrate opere dello scrittore di Le Havre, non si tratta certo di un testo poco impegnativo, specie per chi patisca le ingegnose trovate lessicali o il nonsense esercitato apparentemente a tutto campo. In anticipo di qualche anno sulle sublimi esternazioni surrealiste del miglior Boris Vian (viene in mente, soprattutto, l’alienante altrove de “L’Autunno a Pechino” e “Lo Sterpacuore”), questo disagevole romanzo si presenta in realtà come una riuscita rielaborazione dei più svariati topoi letterari pescati dalla psicanalisi (la dialettica padre-figlio mutuata dal Freud di “Totem e Tabù”) alla mitologia (Edipo è ovunque), dall’antropologia (il parallelo tra le usanze della Festa di Primavera e il rito del Potlàc descritto da Marcel Mauss nel suo “Saggio sul dono”) alla filosofia della storia (il principio della circolarità hegeliana, sempre aleggiante). E’ originalissimo in particolare, per quanto faticoso in lettura, il trattamento della materia narrativa, articolata in sezioni rigorosamente strutturate sulla norma di un’irriducibile discontinuità. Sette parti per tre diverse tipologie espressive, corrispondenti ai caratteri dei tre rampolli Nabonide: tre monologhi interiori che riflettono la rivolta di Pierre (o l’alienazione di Helene), tre canonici frangenti descrittivi in terza persona a rappresentare il conformismo di Paul e una composizione poetica che simboleggia l’evasione del giovane Jean.

Gli spunti sono insomma numerosissimi anche se il sottofondo disturbante, l’ossessiva inclinazione a un simbolismo quantomeno elusivo e il costante ricorso al sabotaggio linguistico (vedi l’esclusione della lettera “x” nel corpo di ogni parola) possono mettere a dura prova il fruitore facendolo battere in ritirata. Sarebbe un peccato ma ci può stare, il Queneau eccentrico e allucinato di “Saint Glinglin” è quasi un lusso in questi tempi di fantasia liofilizzata e livellata verso il basso. Affabula come da copione pur rivelandosi meno pirotecnico – per citare un’opera stranota e per certi versi paradigmatica – che in “Zazie nel metrò”. Il tono è più crudo, grottesco come nei primi, umidi film di un Jean Pierre Jeunet (“Delicatessen” ci si è ispirato?) e con trovate macabre a dir poco gustose (i morti gettati senza cerimonie nella “marmellata di fango” della discarica). Resta volutamente irrisolto, con il suo bel finale visionario al culmine della spirale di vertigine immaginata dall’autore, e va preso per quel che è: niente più che un sofisticato esercizio ludico sul tema dello scorrere del tempo, sull’eterno contrasto tra generazioni e sull’inutilità (forse) delle lezioni di una Storia al solito cinica e impietosa.

7.6/10

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