Month: aprile 2011

Out Into the Snow

 

Cantautorato nella più piena accezione del termine. Questa la musica di Simon Joyner, uno dei più misconosciuti songwriter emersi negli Stati Uniti negli ultimi anni. Venti per l'esattezza, visto che questo cantastorie di Omaha non è proprio artista di primo pelo. La sua discografia, per dire, è già abbastanza chilometrica, ha pubblicato anche un paio di raccolte antologiche pur essendo poco noto persino in ambito alternativo e questo 'Out Into The Snow' dovrebbe essere il suo dodicesimo album di materiale inedito, esclusi mini, EP e collaborazioni varie. Mi ha raggiunto in una busta assieme ad altri dischetti – quelli sì, di poco conto – e mi ha subito colpito per la bella foto seppiata in copertina. Cris questi dischi "impegnativi", diciamo così, me li sbolognava spesso ed io li prendevo volentieri, devo ammettere. Tra le cose che mi ha riservato non c'é mai stato un CD classificabile come brutto, e il disco in questione è anzi tra i migliori. Certo non è proprio musica per tutti i gusti e non è proprio originalissimo come materiale, anche se personale è la miscela dei tanti grandi autori che ne hanno influenzato la scrittura: la santa triade Dylan – Cohen – Young ma anche altri mostri sacri come il Kris Kristofferson ed il Richard Thompson degli inizi. Canzoni tranquille, asciutte, essenziali, ma con l'inevitabile tendenza alle deviazioni emotive, più elettriche e nervose. Il canovaccio è questo. Non granché in anni di esasperazioni e contaminazioni pop, ma interessante come dieta rigenerante qualora si punti all'omeopatia del folk-rock senza tempo. Partito un po' come Bill Callahan dalle secche di una bassa fedeltà senza grandi margini di manovra, Joyner è approdato a questa più compiuta rivisitazione della canzone d'autore d'impronta classica, vestendo (è comunque un eufemismo) via via sempre più i propri brani ed avvalendosi con sempre meno diffidenza dell'aiuto di altri musicisti (come Alex McManus, già con Kurt Wagner nei Lambchop e nella prima band di Vic Chesnutt). Non un copista di Dylan, cui è stato da molti associato (anche da me, nella recensione: impossibile non menzionarlo tra i debiti), ma uno scrupoloso discepolo del suo verbo. Nonostante una gran quantità di belle canzoni, la fama non è mai arrivata se non per vie molto traverse. Due fantastici aneddoti raccontano infatti la marginalità con cui il successo lo ha incrociato, strada facendo: nel '94 il grande John Peel trasmise il suo nuovo album dell'epoca ('The Cowardly Traveller Pays His Toll') per intero nella propria trasmissione, cosa mai fatta sino ad allora dal celeberrimo conduttore radiofonico britannico. Joyner lo seppe però soltanto alcuni mesi dopo durante il suo tour europeo, quando cadde dalle nuvole alla ricorrente domanda in proposito dei giornalisti musicali venuti apposta per intervistarlo. Sempre in quel periodo si trovò a dividere il palco con Beck. Avendo apprezzato 'Mellow Gold', volle lasciare al biondo losangelino un nastro con alcune sue registrazioni. A sorpresa quell'anno, intervistato da Rolling Stone, Beck indicò proprio quel disco di Joyner nella propria top ten. Episodi belli da citare, anche se a Simon non ne venne nulla in termini di popolarità o pubblico. La Jagjaguwar comunque si accorse di lui e lo avrebbe poi aiutato, almeno in minima parte, ad uscire da un anonimato inglorioso ed in fondo non meritato.

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Sleepy Sun @ Spazio211
08/11/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Premesse incoraggianti per il secondo passaggio degli Sleepy Sun a Spazio in poco più di un anno, supportate da una fama live già lusinghiera per la giovane band californiana. Promesse, occorre dirlo, sostanzialmente mantenute, ma con riserva. Tutto in regola in quanto a stile vintage, disincanto sixties à la Jefferson Airplane e robusta polpa rock garantita dai riff neanche troppo onanistici dei due tranquilli chitarristi, il biondissimo Even Reiss e lo spilungone Matt Holliman. Buona sostanza dalla sezione ritmica e la giusta dose di isteria dall'ispirato ometto alla guida della banda, quel Bret Constantino dalla faccia vispa e dall'energia sempre trattenuta a stento. Gruppo insomma piacevole, molto ben affiatato e con un potenziale più che discreto nell'ambito specifico del genere di riferimento: un roots rock in realtà assai meno screziato di psichedelia rispetto a quanto raccontino le biografie ed i due (buoni) album sin qui licenziati. Cosa è mancato allora ad un concerto frizzante e sanguigno come questo, rispolverato ad alcuni mesi di distanza? Beh, è presto detto: è mancata la voce femminile di Rachel Fannan, elemento sfruttato il minimo indispensabile in studio eppure indiscutibilmente cruciale per far funzionare canzoni come 'Marina'. Nemmeno sapevo che la Fannan – autrice anche di un album in proprio, con il moniker di Birds Fled From Me – avesse appena lasciato il gruppo di San Francisco. Quel che ricordo ancora è stato il disappunto nel trovarmi di fronte a questa sorpresa e al mancato rimpiazzo con un altra cantante e corista. Gli Sleepy Sun sono venuti in Europa come nulla fosse. Hanno rabberciato i buchi e gli strappi enfatizzando la già marcata linea southern e blues a scapito delle suggestioni più eteree e vagamente arcane che la voce di Rachel suggeriva, spostando almeno in parte la lancetta dei rimandi verso il folk. Bret ha gigioneggiato forse più del dovuto con la sua armonica, ha fatto il diavolo a quattro senza perdere comunque efficacia sul cantato. La resa spettacolare è stata più che buona anche se indubbiamente il nuovo indirizzo ha limitato la varietà espressiva dei cinque americani per privilegiarne l'impatto. Scaletta interessante, con tutti i pezzi più lunghi e solenni di 'Fever', qualche coerente recupero dall'esordio 'Embrace', una B-Side ed un inedito assoluto. Non male il tono di epicità assicurato da brani a loro modo classici come 'New Age' o 'Sandstorm Woman', e azzeccata in tal senso la scelta di dare ampio sfogo agli "Dei" al momento dei bis, con due tra le canzoni più viscerali e grondanti della ridotta produzione a marchio Sleepy Sun (il dittico tutto cuore 'Desert God' + 'Snow Goddess'). Insomma, davvero non male questo gruppo retrò e felice di esserlo. Anche e soprattutto la verve del folletto Constantino, uno che ha tutti i crismi per pilotare una flottiglia del genere. E tuttavia il depauperamento rispetto a certe versioni di studio, per il motivo sopra descritto, non ha consentito di godere appieno di una performance altrimenti brillante. Rivedibili, quindi, sperando che l'occasione capiti davvero e che l'addio della Fannan non abbia rappresentato negli equilibri di questa simpatica formazione made in U.S.A. l'inizio della fine.

SETLIST: ‘Open Eyes’, ‘Horses’, ‘White Dove’, ‘Red Black’, ‘Toys’, ‘Marina’, ‘New Age’, ‘Wild Machines’, ‘Sandstorm Woman’; ENCORE: ‘Desert God’, ‘Snow Goddess’.

 

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Songs For Swinging Lovers

 

Tra le mie recensioni per Monthlymusic.it, quella dedicata al secondo album degli Indelicates si è rivelata forse la più soddisfacente da elaborare e scrivere, un po' come quella del loro esordio uscita per Indie-rock. Probabilmente è tutta una questione di gusti e il mio problema è quello di essere troppo schierato, troppo di parte. Se è così, beh, ci sta. Qualcuno me lo ha fatto notare e ha espresso un rifiuto netto per questa esuberante giovane band inglese, di quelle che rigorosamente o si amano o si detestano, mentre altri hanno invece abbracciato con entusiasmo il credo irriverente e lo spleen fuori moda di questa adorabile coppia di artisti pop-rock. Il perché del piacere di parlare degli Indelicates nasce quasi sicuramente dagli Indelicates stessi e dalla loro attenzione alla parola. Non soltanto l'essersi affermati in qualità di personaggi, con una formazione avvenuta in ambito teatrale oltreché musicale, ma anche l'aver chiarito dal primo istante di avere molte cose sensate da cantare. Ecco, il divertimento nel raccontare 'Songs for Swinging Lovers' deriva proprio dalla miriade di spunti mai banali che è possibile cogliere tra le righe. Ammetto che in genere tendo a non soffermarmi sui testi dei dischi di cui parlo, più che altro per pigrizia. E' un limite grave per chiunque ambisca al rango di critico, pure dilettante, perché un disco non è fatto solo di note ma anche di parole, per quanto ogni album faccia in tal senso storia a sé. Con gli Indelicates ignorare la componente poetica legata ai testi si sarebbe rivelata una pretesa non soltanto impossibile, ma proprio assurda. Va bene parlare dell'eleganza di certi arrangiamenti, di languori pianistici e parossismi hillibilly, ma al di là del caleidoscopio stilistico della parte musicale alberga in questo ottimo sophomore un'analisi amara quanto lucida sulla crisi senza uscite della nostra generazione e di un'Europa privata di ogni dignità nel proprio decadente immobilismo. Lo stesso vecchio continente che in 'American Demo' era messo alla berlina per la sua sudditanza culturale e politica nei confronti degli opulenti ed ignorantissimi Stati Uniti, e che ora riceve il colpo di grazia nel rinnovato scetticismo dello sguardo comunque romantico di Simon e Julia, perdenti coscienti di essere tali. L'esordio continuo a preferirlo perché era sinceramente esplosivo, abrasivo, incontenibile, nihilista ma a suo modo tenerissimo. Dietro 'Songs for Swinging Lovers' c'é invece meno irruenza e più calcolo. Non cinismo, benintesi, perché gli Indelicates sanno essere feroci ma non sono certo ipocriti, né gratuiti nei loro affondi. Diciamo che c'é più disincanto, l'elaborazione di un lutto, in un certo senso, che grazie al cielo si smarca in agilità dal rischio di tradursi in maniera. Lo spirito resta quello, audace e genuino, arricchito da una maggior consapevolezza dei propri mezzi e da una più riuscita amalgama tra le due voci e tra i vari strumenti. Ancora un grande album quindi, tanto più interessante quanto maggiore è l'attenzione riservata a come loro stessi si raccontano in canzoni come 'Savages', ritratto senza macchie di una irriducibile inadeguatezza, o 'Anthem for Doomed Youth', autentico inno generazionale che ci accomuna tutti nella sconfitta, purtroppo.

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Turin Brakes @ Spaziale Fest
24-07-2010

 

Report bonariamente ironico quello per i Turin Brakes all'ultimo festival estivo di Spazio211. Una risposta in fondo condizionata dalle tante malignità lette, ed ascoltate quella sera sul prato di via Cigna, a proposito del duo inglese ormai lontano dagli effimeri fasti dell'era NAM. Troppo facile sparare a zero su una band che forse quel che aveva da dire l'ha già detto, ma che in fondo non si è mai mostrata meno che onesta nel rapporto con la critica e con il suo pubblico. Io che non mi sarei mai detto loro fan, nemmeno quando quel paio di dischi glieli ho comprati, ho provato a giudicarli con imparzialità e soprattutto ad ascoltarli, non come chi li ha sempre liquidati senza nemmeno provare a sentire che razza di musica scrivessero e magari dopo il live ben più modaiolo degli A Place To Bury Strangers ha insistito a bivaccare nei pressi del palco di Spaziale rumoreggiando, ciarlando e, perché no, sfottendo i musicisti e chi aveva pagato per vederli. Del concerto in sé, come ho scritto, non c'é poi molto da dire se non che si è trattato di una prova più che discreta, anche generosa da parte di Knights e Paridjanian, compatibilmente con i limiti di tempo imposti dall'organizzazione in una serata con ben quattro artisti (volendo far rientrare il ciarpame elettronico dello svedese The Field sotto questo benevolo ombrello). Nulla di trascendentale insomma, come mai per il sottoscritto da un gruppo stimato eppure mai amato come i Turin Brakes, ma nemmeno una nota sgradevole che fosse una o un passaggio veramente fuori fuoco. Esibizione pulita, ben condotta, tutt'altro che travolgente ma con qualche recupero dal passato remoto di 'The Optimist LP' che sinceramente ho apprezzato. A parte questo ritorno asciutto e senza retorica agli anni d'oro, non c'era altro che chiedessi a questo primo "live in Turin" dei Turin. Anche loro, immagino, non si aspettavano molto più che l'affettuosa accoglienza di un manipolo di nostalgici affezionati, ed un po' di applausi impersonali da qualche curioso come me. La cresta dell'onda e l'onda stessa sono durate poco, quanto era giusto diciamo. Loro lo sanno, io lo so. Gli unici che sembrano ancora intrappolati nel passato sono quei detrattori un po' ridicoli che non hanno mai smesso di considerarli un comodo bersaglio, molto più grande – anche in negativo – di quanto i Turin Brakes non siano mai stati in effetti.

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Warm Slime

 

Mentre è già stata annunciata una nuova uscita per il mese prossimo, stesso periodo in cui torneranno a farsi vedere nel nostro paese e faranno un salto anche qui a Torino, mi tocca liquidare con due parole di presentazione l'ultimo album sin qui licenziato dai Thee Oh Sees ormai quasi un anno fa, quel 'Warm Slime' che fu una parziale delusione. Si dice sempre che moltiplicare gli sforzi e le pubblicazioni discografiche non paga, ma non mancano mai i fan pronti a smentire assunti di questo tipo citando tra le note "a favore" la generosità, merce sempre più rara in tempi in cui ogni dettaglio è stra-ponderato e nessuno regala mai nulla. Io per primo ho sempre valutato positivamente la prolificità del gruppo di San Francisco, autore di più di dieci LP (alcuni dei quali sono in realtà raccolte di demo e bozzetti più che dischi veri e propri) in un lustro o giù di lì. Con 'Warm Slime' ho in parte dovuto ricredermi, convinto che un annetto sabbatico avrebbe forse giovato alla combriccola pilotata dal folle John Dwyer. Mi avevano abituato bene coi loro dischi sgarrupati ma immancabilmente belli e godibili, da 'Cool Death' a 'Master's Bedroom', da 'Hounds of Foggy Notion' ad 'Help', lavori che nel volgere di pochi anni avevano permesso loro di farsi apprezzare grazie ad uno stile peculiare e agilmente riconoscibile, sintesi perfetta del garage pidocchioso portato in dote dal frontman e di quelle svenevolezze vocali così demodé che sono l'inconfondibile marchio di fabbrica della sua controparte femminile, la splendida Brigid Dawson. Il problema per 'Warm Slime', la ragione di questa parziale inversione di tendenza, risiede proprio nella rottura di tale equilibrio. Il noise-punk pestone ed allergico all'alta fedeltà tracima, assieme a quell'approssimazione di forma che è sempre stata nelle corde di Dwyer e che – va detto – di per sé non è affatto un male. Certo senza i coretti alieni della Dawson, tutto il gioco finisce col mostrare un po' la corda. La naturale simpatia per una band così fuori dai giochi e dalle logiche commerciali resta intatta, anzi. Il fatto di presentarsi agli ascoltatori con un brano d'apertura a tal punto spavaldo ed arrembante, tredici minuti e mezzo di schiumanti marosi elettrici, è una scelta kamikaze che merita comunque rispetto. I Thee Oh Sees restano una realtà di rara purezza e questo è un titolo di merito che nessuno potrà negargli. Sono anche uno di quei gruppi che creano ottimo pop per vie traverse, travestendolo ed imbruttendolo grazie ad un sano e coerente terrorismo sonoro, ed anche questo è uno dei dettagli che li rendono così irresistibili. Però, insomma, li preferivo quando di autentiche bocche da fuoco ne avevano due, non una soltanto. La speranza a questo punto, archiviato 'Warm Slime' tra i prescindibili della loro già ampia discografia, è che l'imminente 'Castlemania' ritrovi col delirante vetriolo di Dwyer anche la magia del tocco femminile. La copertina e quel teaser, "Sunshine pop album", sinceramente promettono bene.

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Shellac @ Spazio211
06/10/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Ecco un altro degli show da top five dello scorso anno. Troppo facile, penserà qualcuno, vista la fama live della band in questione, praticamente una delle poche leggende del rock alternativo recente capaci di fare genere a sé. Ebbene sì, gli Shellac vanno effettivamente considerati un caso a parte. Un'attività discografica esigua e frammentaria, con appena quattro LP in quasi vent'anni di vita. Tour sporadici e generalmente senza fini promozionali, come questo messo in piedi a più di tre anni dall'ultima uscita e quindi col solo scopo di divertirsi un po' e tenere accesi i motori del gruppo. Anche soltanto seguendo questo criterio non ci sarebbero state scuse per evitare di assicurarsi un biglietto per una delle tre date italiane, la prima delle quali proprio nella città di cui sono originari entrambi i genitori del leader, Steve Albini. Albini che è ormai considerato un vero e proprio guru per l'intera scena indipendente, non solo per aver prodotto album e band leggendari dai suoi esordi con i Big Black, ma anche per la posizione di critica scoperta e radicale all'industria discografica e a tutte le voci collaterali del music business. Un piccolo assaggio di questa coerente e più che condivisibile intransigenza l'ho avuto anche io, sprovveduto nel richiedere come faccio ogni tanto il mio bravo accredito in cambio di un live report corredato di fotografie. La risposta di quelli del locale è stato un comunicato della band stessa, durissimo nei toni ma sinceramente apprezzabile, di rifiuto verso ogni scappatoia promozionale per chicchessia, giornalisti o pseudotali compresi ("No Guest List", yeah!). Interessanti nella stessa mail la libertà – quasi l'invito ad agire – per fotografi professionisti e dilettanti, ma soprattutto le voci "No barrier/barricade", "Do not kick the audience out of the venue after the band finishes" e "No bouncers between the band and audience", tutti segni di grande affetto nei confronti dei propri fan a discapito magari della perfezione assoluta in fatto di sicurezza. Un peccato veniale, comunque, come si vedrà. E venendo alla sera del concerto, beh, non c'é voluto molto per accorgersi che sarebbe stato un sold out coi fiocchi, bastava la coda fuori da Spazio. Per l'ultima serata di Gianluca Gozzi nelle vesti di gestore, 770 paganti in un locale che non si sarebbe mai detto capace di contenere così tanta gente, oltre ai ringraziamenti calorosi dal palco di una Giovanna Cacciola entusiasta di esserci. Sì, proprio quella Giovanna Cacciola, la cantante che con gli Uzeda ottenne fama internazionale, un contratto con la Touch & Go e la prima produzione proprio di Albini per una formazione italiana. Giovanna che nel frattempo si è fatta apprezzare in numerose altre iniziative a livello internazionale (ancora ricordo la sua voce in un disco dei Rachel's, bei tempi) e ha poi dato vita col marito Agostino Tilotta a questo ulteriore progetto sempre curato da Albini, intitolato Bellini come i celeberrimi drink e compositore, opening act assai pertinente in questa fetta di tour degli amici Shellac. Duri e puri per davvero questi maturi coniugi siciliani, sacerdoti pressoché indiscussi dello spigolo all'italiana (ci sarebbero anche i Three Second Kiss, ma restano distanti) abili a circondarsi occasionalmente di pochi (ma buoni) amici stranieri: nell'occasione, ed ormai da qualche anno, il bassista dei Romulans Matthew Taylor e l'ottimo batterista dei Girls Against Boys Alex Fleisig, già rimpiazzo peraltro di un assurdo mattacchione come il leader dei Don Caballero Damon Che. Don Caballero citati non a caso, visto che la predisposizione verso il rock matematico sembra essere rimasta intatta nel gruppo italiano dopo l'abbandono dell'ingombrante stella americana del genere: il suono granitico si è rivelato una costante nella porzione di show riservata ai Bellini, confermandosi poi come elemento di continuità anche quando il piatto forte della serata è stato servito. Pigiati come sardine abbiamo dovuto attendere ancora un po' prima di veder comparire gli antidivi statunitensi sul palco per preparare gli ultimi dettagli e dare fuoco alle polveri. Fenomenale l'ingresso in scena di un Albini a dir poco estemporaneo, passo flemmatico e mise incredibile composta da tuta da metalmeccanico anni settanta, bandana, orologio Casio con agenda e calcolatrice (ne comprai uno identico in seconda media) oltre agli immancabili occhialini tondi da professore di applicazioni tecniche.

 

Spogliatosi con tutta calma dell'ingombrante abito ha dato l'OK al resto della ditta: un Bob Weston da subito in effusioni con i più scapestrati tra gli spettatori delle prime file e "quella cosa misteriosa che vive dietro la grancassa", Todd Trainer, incrocio incomprensibile tra Gianluigi Buffon ed un orecchione. Incauti – ad esser buoni – io e la mia ragazza. Piazzati in prima fila centralissima, piedi sul gradino. Due pazzi. Lei ha retto un paio di minuti al pogo furibondo della subito devastante 'My Black Ass', per poi ripiegare nelle retrovie. Io sono rimasto là per cinque interminabili canzoni, impossibilitato a fare foto e quindi intento più che altro a non prenderle. Non sarebbe stato nulla di veramente atroce non fosse stato per un terzetto di tizi veramente poco raccomandabili e la loro mignotta, squatter strafatti fino alla punta dei capelli e presenti allo Spazio solo per il gusto di rompere le scatole a chi era là per vedere gli Shellac. Arrivati a 'Squirrel Song' la situazione è degenerata e ho dovuto riparare in un posto a dire il vero comodissimo (per godermi la sezione ritmica senza rimetterci le orecchie e per respingere ogni offensiva dal fronte sinistro), incastonato tra la cassa gigante laterale e l'angolo esterno del gradino che va al palco. Lì sono rimasto ed ho scattato di fatto la totalità delle immagini che compongono la galleria fotografica di quella sera. Una goduria di muscoli e vetriolo. Albini cattivissimo a tirar di cartavetro, Weston pestone più che mai ed occasionalmente cantante (nella meno esasperata 'Compliant'), Trainer fuori come un balcone ma impeccabile. E' stata un'autentica festa post-hardcore, inevitabile visto che i padrini di quell'universo erano i principali invitati. Difficile indicare i momenti di maggior entusiasmo, visto che la serata ha avuto solo alti: dall'estasi fugaziana di 'Boycott', alla solennità gracchiante e i fendenti di 'Gary, Indiana', dal reattore nucleare (si può ancora usare la metafora?) di 'Dog & Pony Show' alla grattugia perpetua di 'Steady As She Goes'. Dalla mia comodissima posizione ho visto veramente di tutto, data la prospettiva ampia su palco e file "calde": stage diving come nella Seattle di venti anni fa, tsunami umani (si può ancora usare la metafora?) schiantati sul rialzo della pedana, individui sparati come (mezze) cartucce addosso ai musicisti incuranti. E poi ancora: Trainer che passeggia rullante alla mano sul palco con aria spiritata suonando in posa perfetta; Albini stravolto aggrappato all'asta del microfono come un vecchio nostromo; Weston feroce che tira due calci in faccia al povero buttafuori del locale, colpevole di aver avuto l'ardore di spostare (con garbo) un paio di monelli piovuti sul palco come chicchi di grandine. Ecco, quello è stato il momento in cui ho temuto davvero il peggio. Il musicista incarognito, attaccato al suo credo intransigente più per stupidità che per altro, ha rischiato di mandare tutto a puttane e far finalmente arrivare un report su Spazio211 in cronaca cittadina. Allibito (ma anche spaventato), l'amico buttafuori ha avuto un sangue freddo semplicemente encomiabile, aiutato a non reagire all'insulsa provocazione anche dagli stessi ragazzini che erano stati all'origine del fattaccio e che a gesti lo hanno calmato, facendogli intendere che era tutto OK. Richiamato dal responsabile della sicurezza prima che quel toro paonazzo del bassista potesse sferrare l'attacco finale, il tranquillo bodyguard è scomparso nel nulla così come dal nulla era apparso, lasciando che l'anarchia festosa facesse il suo corso accompagnando le schegge elettriche della band statunitense. Dopo questo siparietto da brividi, andato in scena a non più di due metri della nicchia in cui mi ero rifugiato, il concerto è andato avanti senza ulteriori scosse e senza che nessuno si facesse male, fino al doppio finale epico: il carburatore intermittente di 'The End of Radio', con il ruggito memorabile di un Albini padrone assoluto ("Can you hear me now?") e il certame di duetti isterici di 'Spoke', che ha fatto calare il definitivo sipario prima di un'appendice di chiacchiere ed autografi generosissimi con i due Shellac più vivaci. E Todd Trainer? Volato via nella notte, forse, come un pipistrello. 

SETLIST BELLINI: 'Wake up Under a Truck', 'Numbers', 'Tiger's Milk', 'Save the Greyhounds', 'Room Number Five', 'Chaser', 'Daughter Leaving', 'Susie', 'The Buffalo Song', 'Agatha'. SETLIST SHELLAC: 'My Black Ass', 'Copper', 'Canada', 'Compliant', 'Squirrel Song', 'Boycott', 'Gary, Indiana', 'Steady As She Goes', 'Prayer To God', 'Dog and Pony Show', 'Killers', 'The End of Radio'; ENCORE: 'A Minute', '?', 'Spoke'.

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Il Nipote                        _letture

 

Doppia Review dedicata a James Purdy, come promesso il mese scorso quando scrissi senza troppo entusiasmo a proposito del suo esordio 'Malcolm'. Di essermi imbattuto in un autore di un certo spessore mi sembra di averlo già affermato in quell'occasione. Ora torno sull'argomento per avvalorare l'impressione di allora, avendo nel frattempo consumato altri due suoi romanzi, entrambi assolutamente significativi. Meglio, molto meglio di 'Malcolm' questa opera seconda, 'The Nephew', pubblicata appena un anno dopo (1960) eppure così incredibilmente diversa. Il taglio espressionista che caratterizzava la surreale avventura del ragazzo bramato da tutti è rovesciato nella prospettiva di un realismo piano e rigoroso. L'enfasi riservata al piano simbolico del racconto è scomparsa, così come le ingenuità inventive e le non rare banalità nella trama. Al loro posto una prova superba in termini di sottile narrazione psicologica. Purdy lascia da parte la pirotecnia dell'azione per farsi cantore eccelso di stati d'animo, di fragili ma sostanziali equilibri relazionali, di vite marginali fatte di ritualità e piccoli gesti. Avrebbe potuto annoiare o scivolare nuovamente (a maggior ragione data l'ambientazione) in un comodo e bieco Gotico Americano, invece risulta commovente. Grandi temi esistenziali rattati con maturità sorprendente ma senza voler imporre né lezioni né la propria morale di fondo. Un anno di distanza, quasi due scrittori diversi: insistere, per quanto mi riguarda, ha pagato. E un certo Cabot Wright lo ha confermato… 

Negli anni della guerra di Corea, gli anziani fratelli Alma e Boyd Mason trascorrono le loro giornate sempre uguali aspettando notizie dal fronte dove il nipote Cliff sta combattendo. Un laconico telegramma che da per disperso il giovane spezza l'incantesimo e disegna per questa anomala coppia una diversa quotidianità: rituali e preoccupazioni nuove per colmare il vuoto ed il silenzio di un'assenza improvvisa. Mentre Boyd vive senza condividerlo con altri il proprio dolore ("Non hai il minimo senso della comunità", lo ammonisce spesso Alma), la sorella decide di scrivere un memoriale sul nipote, una commemorazione infarcita di ricordi personali ed alimentata dalla speranza del suo ritorno a casa. I primi giorni Alma sembra trovare pace e raccoglimento nelle sue confuse meditazioni sul tempo e sul giovane, scoprendosi anche più tollerante nei confronti del fratello. Trascorre molto tempo "a dare, in un modo vago e sognante, nuova forma alla vita di Cliff", cercando di leggere nelle sue stringate lettere dal fronte "quel molto che c'era", specie nelle omissioni, ed il promemoria somiglia sempre più nelle intenzioni alle ricette di cucina scritte da sua madre tempo addietro, "perché qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di consultarle quando lei non ci fosse più stata". La speranza tuttavia sbiadisce poco per volta, con la consapevolezza di non avere nulla di significativo da scrivere. La sensazione di aver conosciuto il nipote meno di tutti gli altri, pur amandolo come forse nessuno, diventa certezza man mano che le sue indagini presso i vicini entrano nel vivo. Spiazzata dall'inesorabile ingarbugliamento del tempo, dei ricordi e di verità del tutto ignorate, Alma mette da parte i suoi propositi preferendo tuffarsi anima e corpo nei problemi degli altri, con disagio e perplessità crescenti ma anche con il sollievo di una prolungata evasione dal proprio soffrire. Alla fine saprà però affrontare a viso aperto la realtà con la consapevolezza che ognuno ha le proprie croci, registrando la fine di illusioni e certezze che l'inevitabile chiusura della propria ricerca porta con sé: "il tempo è proprio strano", afferma lei ad un certo punto, "per un po' le cose cambiano impercettibilmente, poi, all'improvviso, sono irriconoscibili".
Ad appena un anno di distanza da 'Malcolm', Purdy torna a raccontare la marginalità di un'America minore riuscendo là dove forse aveva fallito. L'evanescente macchiettismo allegorico dei suoi primi personaggi è rimpiazzato in questo caso dalla superba concretezza con cui viene raccontato il mondo quasi immobile degli anziani fratelli Mason e l'incerto ma sostanziale equilibrio tra loro. Purdy scrive con precisione e finezza psicologiche rare, tratteggiando con realismo affettuoso la sua indimenticabile protagonista in lotta contro l'inesorabilità del fato: i suoi sentimenti franchi e limpidi, la sofferenza dietro al non detto, l'amore non confessato e andato irrimediabilmente perduto, la sua "grigia malinconia" come schermo perenne al senso di una morte mai raccontata ma sempre incombente. Riuscitissimo anche il personaggio di Boyd, razionale, pragmatico ed opportunamente evasivo ("Io ci tengo ad esser sordo quando si parla di certi argomenti"), ma anche fondamentale per mitigare l'istinto della sorella e sostenerne la volontà nei momenti peggiori. Descrivendo in modo acuto ma sincero il loro "specioso presente", servendosi di una narrazione regolare e priva di eccessi inutili o forzature, l'autore riesce a rendere al meglio stati d'animo, pregiudizi ed incomunicabilità nella quiete senza tempo di una provincia ormai perduta per sempre. Una qualità pura, preziosa, che fa di 'Il Nipote' un romanzo commovente ed assolutamente riuscito.

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