Fatto di sangue _Letture

       

Il mio amore per la Marcos Y Marcos mi ha portato a confrontarmi in qualche caso anche con romanzi piuttosto recenti, cosa alquanto insolita per l’anomalo ma intransigente amante dei classici nel quale mi sono trasformato in questi ultimi anni. L’autore di questo “Fatto di Sangue” è un maiorchino che per poco non è mio coetaneo, condizione questa che per il talebano dentro di me equivale a una squalifica senza appelli. E invece dovevo essere in buona quando l’ho premiato tra i tanti altri “Alianti” sullo scaffale, convinto dalla copertina appena prima di imbarcarmi nel viaggio di nozze. L’ho attaccato in nave e la partenza, devo dire, è stata ottima. Ma è andato discretamente bene fin quasi alla meta, intravista la quale ha iniziato a fare acqua un po’ da tutte le parti. Lo stile comunque è meritevole, quindi non escludo di riprovare con uno degli altri volumi che ho di Sebastià, appena mi concederò un’altra pausa da scrittori o libri di tutt’altra fama.

 

 

Barcellona, 1936. Non fossero sufficienti le atrocità fratricide portate in dote dalla guerra civile, nei meandri della capitale catalana accade qualcosa di inquietante e non facilmente etichettabile: strane uccisioni che non sembrano l’opera di un essere umano, neppure nell’accezione bestiale che spesso un conflitto crudele inevitabilmente implica. Ma dato il turbolento contesto sociale e politico, questa è solo una grana in più da sbrogliare in cima al cumulo del commissario Gregori Muñoz, impeccabile poliziotto vecchio stampo con qualche dolorosa ferita nel proprio passato. Il medico legale Humbert Pellicer e il magistrato Miquel Carbonissa, che lo coadiuvano nell’indagine sugli efferati omicidi di un prete e un bambino, vorrebbero spingerlo ad abbracciare la più incredibile delle ipotesi, ovvero che l’autore dei delitti sia un vampiro, ma l’investigatore è troppo schiacciato dalla logica rigorosa, dalla realtà tangibile e da biechi giochi di potere orchestrati alle sue spalle, per poter tradire la propria visione del mondo e accogliere l’inesorabilità mostruosa di una natura umana spinta oltre il limite. Il precipitare degli eventi, la brutalità del comitato anarchico temporaneamente al potere e l’incontro con una creatura artificiale che parrebbe uscita dagli inferi lo costringeranno a cambiare opinione quasi su tutto, ma lo spiazzamento non gli impedirà di svolgere al meglio il proprio lavoro impedendo che il sangue innocente di una novizia poco più che bambina, suor Concezione, vada ad aggiungersi a quello di centinaia di religiosi sterminati senza alcuna pietà tra le quattro mura di un convento, lo stesso teatro in cui il misterioso assassino ha trovato il più confortevole dei ripari e dove già pregusta nuovi orribili misfatti per placare la propria inesausta sete.

 

Prende le mosse da vicende storiche reali “Fatto di Sangue”, e si configura come un agile romanzo dalle coloriture gialle e una felice inclinazione al thriller, ma per svoltare tra le pieghe del fantastico e del grottesco non esita a imboccare la prima curva a disposizione: una sorta di ironica cornice-introduzione è affidata infatti proprio al soliloquio del vampiro in persona, la cui voce tornerà di tanto in tanto a farsi viva e a lasciare un calzante commento ai fatti narrati, ma preme sottolineare come con l’Alzamora feroce pessimista di quest’opera ci si trova a anni luce di distanza dai triti cliché di genere, dai tanti Twilight come dal Christopher Lee e dal Bela Lugosi di leggendaria tradizione cinematografica. Qui l’essere maligno ci si presenta quasi nei panni del filosofo, un po’ come il suo omologo nel celeberrimo “Intervista col vampiro”, e offre una prospettiva lucida, disincantata e amarissima sul male insito nell’umana natura, sui mostri che abbiamo dentro e che sfuggono al controllo civile quando ogni regola condivisa, al di fuori, cede di schianto: nulla di particolarmente nuovo sotto al sole – sia chiaro – ma esposto senza cinici grimaldelli e senza ruffianeria nei confronti del lettore. L’inquadramento storico è sufficientemente accurato pur limitandosi all’essenziale, e ha il merito nient’affatto scontato di fuggire le comode tentazioni manichee (gli anarchici al potere non si dimostrano certo migliori dei franchisti). Lo stile è asciutto ma intrigante e trova il suo meglio in una sorta di “montaggio alternato” che, non appena ci si familiarizza, riesce alquanto avvincente e spinge il fruitore a procedere con avidità nella propria missione.

 

Il vero punto di forza di “Fatto di Sangue” risiede tuttavia nelle sue spettacolari caratterizzazioni. Non vi è un unico protagonista in scena. Oltre al già citato commissario Muñoz, un posto di rilievo è riservato al frate marista Darder, che perderà poco per volta i propri freni inibitori di uomo mite per trasformarsi fatalmente in angelo sterminatore; al capetto deforme della FAI Manuel Escorza, un cattivo di altissimo profilo; alla novizia tredicenne, Suor Concezione, finita nelle mire nient’altro che candide del vescovo maniaco, Gabriel Perugorrìa; e poi un manipolo di vermi e traditori di piccolo calibro, dal viscido Fra Plana all’infame poliziotto Sirga al violento esecutore Gil Portela, tutta bassa manovalanza di un male ormai pronto a tracimare e saturare ogni interstizio dell’umana convivenza. Numerose note di merito nella contabilità finale, insomma. Peccato per il cedimento a una fantascienza francamente stucchevole con la vicenda del cavallo Hadaly – un po’ Golem, un po’ Frankenstein da operetta – e soprattutto per un finale iperbolico (e a tinte gore) che spinge un libro di così mirabile equilibrio verso il baratro della baracconata farsesca. Peccato, soprattutto, per l’esplicita sconfessione di quella figura prima solo tratteggiata con superba suggestione romantica, il vampiro che è l’autentico protagonista ombra, e che scopriamo essere nulla più che un pederasta di lega grossolana. Alzamora non ci ha creduto fino in fondo, viene da pensare, e alla fine è riuscito ben più didascalico del necessario. La sua penna, ad ogni modo, merita di essere tenuta d’occhio.

6.6/10

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