Divine Comedy

Sticky Wickets

       

In questo momento sul mio PC scorrono le note di “Play This Intimately (As If Among Friends)”, che è il nuovo album di una band di nome Pugwash. Mai sentita nominare? Non preoccupatevi, siete la stragrande maggioranza del campione e, no, a meno che non siate patiti del retro-pop raffinatissimo anni ’70 – zona ELO per intenderci, con pesanti inflessioni à la McCartney – non vi siete persi nulla di così indispensabile. La vostra risposta implica comunque che vi siano sfuggiti del tutto i due dischi usciti negli anni scorsi sotto la ragione sociale “The Duckworth Lewis Method”, e qui la mancanza si fa un briciolo più seria visto che quello era il progetto parallelo di un idolo in analoghi territori, il Neil Hannon che ha regalato meraviglie nelle ultime due decadi sotto le spoglie dei/di Divine Comedy. Qui rispolvero il sophomore dell’avventura che il favoloso dandy nordirlandese ha condiviso con il paffuto frontman dei Pugwash, appunto. Non essendoci novità di rilievo sul conto di Hannon, non pare da buttar via questa del capitolo sesto della discografia degli irlandesi, al netto delle raccolte compilative. Se voleste rimediare riguardo al progetto condiviso, il  pezzo che segue su “Sticky Wickets” potrà senz’altro esservi d’aiuto, se non altro perché dovrebbe aiutarvi all’istante a capire se soffriate di orticaria a contatto con certe sonorità. Qualora foste immuni e abbiate passato senza intoppi anche l’ascolto, sappiate che il disco dei Pugwash esplora per l’ennesima volta i medesimi registri, solo con più equilibrio e meno amenità scherzose. Potrebbe fare al caso vostro, chissà. Io non ne scriverò prima di un mesetto, comunque. 
 

Più Bruno Schulz che Witold Gombrowicz. Più Bruno Schulz che Stanislaw Witkiewicz.

L’arte del perdersi nella forma prevale, rendendo accessorio lo spareggio per la piazza d’onore. Nella canzone d’autore di oggi torna la moda dei pazzi annegati, e poco importa se il ribellismo e la disperazione delle seconde scelte varrebbero vendite assai migliori. Per delucidazioni rivolgersi a Luke Haines e Cathal Coughland, genitori scriteriati di tante band di qualche successo (Auteurs, Black Box Recorder, Microdisney e Fatima Mansions), approdati lo scorso anno al progetto monstre dei North Sea Scrolls, condiviso nel segno d’una superba follia revisionista. Super-concept prima che supergruppo, nutrito da elefantiaca grandeur dada, impeccabile humour british e finezza narrativa che sarebbe riduttivo definire d’altri tempi. Prima di loro un azzardo simile era già stato tentato da un’altra coppia di colleghi dalle smodate inclinazioni letterarie, seppur esercitate su terreni prossimi più alla farsa che alla libera astrazione surrealista. Neil Hannon e James Walsh, ovvero i Divine Comedy e gli assai meno noti Pugwash, in una festosa joint venture Irlanda del Nord / Irlanda tout court promossa per celebrare il mito senza tempo del cricket. Tema alquanto insolito in ambito musicale, e tuttavia già cantato dai 10cc di “Dreadlock Holiday” come dal Roy Harper di “When an Old Cricketer Leaves the Crease”.

I Duckworth Lewis Method – questo il nome della bizzarra accoppiata – sono andati però molto al di là del nostalgico e sterile tributo. Hanno sublimato una semplice passione in qualcosa che rasenta l’esperienza mistica, tra slanci d’entusiasmo bambinesco e plateale nozionismo da maniaci. Nel loro incredibile album eponimo, appena quattro anni fa, si respirava l’aria frizzante dei trivia. Aneddoti a profusione, curiosità celate tra le righe in ogni strofa, così da trasporre specifiche e regole secolari in un’inesauribile fonte di metafore già pronte all’uso, filtro nella lettura del presente e patrimonio tascabile di natura quasi filosofica. Due cantori dalle parti della Village Green Preservation Society, insomma, ostinati nella salvaguardia di un mondo sopravvissuto a tutta una sfilza di rivoluzioni sotto le spoglie del dorato anacronismo. Giunti a un passo dall’aggiudicarsi il premio Ivor Novello, il minuto dandy biondo e il suo pacioso sodale hanno brigato parecchio per smentire una critica che troppo seriamente li aveva recepiti, spiegando apertis verbis che di un episodio estemporaneo si sarebbe trattato, con seguiti improbabili e comunque non più prossimi di un paio di decadi. Un successore tanto precoce, in perfetto orario per le Ashes Series di questo 2013, attesta impietoso che sotto quel paio di poderosi mustacchi e favoriti demodé dovevano ridersela proprio di gusto, gli impostori manigoldi.

E rieccoli, dunque, calati nei loro bei costumi di scena da avventurieri all’equatore. Intenti a vergare con pugno sicuro cronache da un lontano impero di cui non restano che pallidi ricordi, diligentemente idealizzati. Alla maniera degli spiriti affini North Sea Scrolls, brandiscono l’iperbole kitsch quasi fosse una spada d’audace foggia, sposando l’eleganza delle atmosfere oniriche con lazzi e smargiassate di bassa lega. L’elitario incontra il popolare per regalarsi una sbornia con tutti i crismi, magari nell’attimo stesso in cui si racconta il malinconico trapasso di una sobrietà ormai inservibile. E’ il caso di ‘The Umpire’ e del fascinoso soft focus adottato con mano scaltra dal crooner di Londonderry, direttore della fotografia in fissa per le suggestioni umide, il lirismo rigoglioso e quel tocco di ineffabile decadentismo esposto in bella mostra, là sulla mensola più alta: Just a relic of yesterday, ovvero come un giudice di gara soppiantato dalla tecnologia possa farsi paradigma di un’inadeguatezza più universale, disincantata, strisciante. E’ la stessa regia a evocare con grazia i fantasmi dell’era coloniale e a curare il catalogo di esotismi sinfonici nel gustoso pastiche dedicato a Shahid Afridi, stella pakistana che per il cricket odierno dovrebbe valere quanto Pelé o Maradona nel calcio di ieri.

Hannon è decisamente in parte e si da pena per dimostrarlo. Soltanto quei suoi occhi svelti e volpini restano fuori inquadratura, ma li si intuisce. Mattatore ben più che nell’esordio, affida al compagno ruoli significativi solo nei frangenti in cui un brio à la McCartney non suoni sfrontato: una ‘Third Man’ che in tema d’esagerazioni è ben piazzata, visto il cammeo con spoken word per Harry Potter in persona, e quella ‘Out in the Middle’ che sembra riesumare il Paul sbarazzino della lunga parentesi Wings. Mentre par quasi di sentire Linda ai cori, nelle retrovie, il mimetismo espressivo approda a esiti davvero sensazionali, plasmando un fedelissimo calco vintage dei tardi seventies con tanto di turgida chitarra addetta alle precisazioni calligrafiche. Quando già ci si è incamminati verso la conclusione, riammiriamo in ‘Judd’s Paradox’ gli estenuati tramonti dei Divine Comedy di “Victory For the Comic Muse”. Neil quieta le acque con la necessaria perizia, per offrire poi il meglio del repertorio in quelle sue inconfondibili pose estatiche, da contemplativo vagheggino di casta superiore. Gli “Sticky Wickets” cui allude la raccolta sono i campi da gioco di difficile praticabilità e, per estensione nel figurato, tutte le circostanze amletiche o disagevoli in cui ci si trovi coinvolti in quel gioco ben più arduo che è la vita. Nella categoria rientra per forza anche il paradosso che presta il titolo all’episodio ed è affidato all’aspro recitativo dell’inglesissimo attore Stephen Fry: il conflitto intimo tra la gioia dell’atto ludico in sé e le implicazioni meno lusinghiere che questo sport si porta dietro in quanto simbolo di una violenta prevaricazione culturale.

Chiedersi quale delle due anime abbia la meglio al termine della fiera suonerà come il più futile degli esercizi retorici, considerati stoffa e trascorsi degli interpreti. L’impronta di massima resta quella delle silly songs impregnate di pungente arguzia, e con una cover goliardica come questa dello striker d’annata sul bel pitch immacolato non potrebbe essere altrimenti. I momenti di pura ilarità non si contano. Dal divertissement sovraccarico che apre le danze in un clima di lussureggiante eclettismo pop anni ’70 (il medesimo – marca Electric Light Orchestra – già sfoggiato nel precedente inning) e strizza l’occhio a “Sticky Fingers” degli Stones, alle vaghe reminescenze dei Kinks di “Arthur” nell’eccentrico e squillante vaudeville intestato ai “gaudenti cavalieri”, un po’ marcetta e un po’ provocazione guascona à la Monty Python. Neil recita senza fallo nei panni del professore di facezia, tra vertiginosi scioglilingua con tastierina in accompagnamento (‘Mystery Man’), spacconate electro-funk circa primi ’80 (‘Line and Lenght’) e toni da frivolo circo equestre stile “Bang Goes the Knighthood” opportunamente rispolverati (‘It’s Just Not Cricket’). Il Duckworth Lewis Method della ragione sociale non è altro che l’astrusa modalità di calcolo dei punteggi finali nelle partite interrotte da un clima particolarmente bizzoso. Di tutti questi arzigogoli nell’omonima brigata a due non vi è però traccia, tranne forse quell’implicita ironia di fondo che ogni sproposito tende a portare con sé.

Quella di Hannon e Walsh è musica da sole splendente. Che non si fa scrupoli quando si tratta di condurci a bella posta in una dimensione altra, immaginaria. E che bissa con profitto i registri ampollosi e fiabeschi dei Magnetic Fields di “Realism”, nei suoni l’aura ovattata di un sofisticato balocco, di una giostra, di tanta magia vittoriana. La costruzione ossessiva e ritornante dell’interminabile sfilata d’ospiti (Neil Finn e Carl Barât, tra gli altri) che chiude il disco può riportare alla mente quella della vecchia “The Booklovers”, e non per caso. Incastonata nel ciondolante motivetto riproposto fino alla nausea, risplende infatti un’altra perla identitaria che vale l’intera posta: “We don’t want to be superstars / cause that’s not really who we are”.
Neghiamo loro le colorate architetture di quel pretesto concettuale e avremo solo – si fa per dire – due splendidi esemplari di pazzi contemporanei.
Umanissimi, serafici, sorridenti.
Rigorosamente sommersi.

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Divine Comedy @ Hiroshima                09/12/2010

    

O meglio, “An evening with Neil Hannon”. Ecco il caso di un concerto fuori dall’ordinario e, conseguentemente, di un report non troppo ortodosso. A dire il vero entrambi i momenti mi hanno suggerito una sorta di idea comune, come un filo rosso che li ha legati, ovvero quel senso di comfort che assai di rado capita di respirare nella frenesia del vivere e del raccontare eventi. L’insolita serata con Mr. Divine Comedy si è incanalata prestissimo su questi binari, definendo agevolmente la propria rilassata (ma non svaccata) direzione. Avevo ascoltato i suoi dischi, quindi un’idea abbastanza precisa sul personaggio me l’ero fatta. Eppure l’artista in scena riesce a sorprendere perché stravolge canoni consolidati e sa creare un rapporto speciale con il suo pubblico, sa mettere tutti a proprio agio. In tal senso, probabilmente, andava letto il sottotitolo ufficiale di questo che è stato un vero e proprio spettacolo, con tanto genio tirato a lustro per l’occasione ed una scorta minima di improvvisazione. Per tenere traccia di un concerto elegante e molto particolare come questo di Hannon all’Hiroshima sarebbe stata indicata una forma di cronaca non meno sorprendente, per quanto puntuale e priva di eccessivi ghirigori formali. Fortuna ha voluto che mi godessi l’esibizione del folletto nordirlandese da posizione comoda, privilegiata, una prima fila senza transenne e con il palco ad altezza accettabile per consentirmi di giostrare in perfetta tranquillità tra il ruolo di fotografo, quello di testimone con tanto di blocchetto degli appunti e quello di appassionato di buona musica, placidamente abbandonato ad un metro dal pianoforte e con un bicchiere di vino a portata di mano, gentilmente offerto dall’artista stesso. La recensione di questo bellissimo concerto si è scritta quasi da sola, tratteggiata con la medesima naturalezza dei toni garbati ed ironici del moderno dandy cantastorie in scena, riportando sui tasti del mio portatile le sensazioni grattate a matita sul block notes, arricchite appena da quel minimo di ricamo e spensieratezza.
Andasse sempre in questo modo, la vita sarebbe davvero soffice come un merletto.

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