Month: marzo 2015

Tre contadini che vanno a ballare _Letture

       

E ora spazio a un titanico capolavoro. Non credo ci siano altre etichette plausibili per l’esordio letterario (ormai trentenne) di Richard Powers, una folgorazione autentica per il sottoscritto. Un libro di quelli ostici sul serio “Three Farmers on Their Way To a Dance”, un pozzo di rimandi, una vertigine di incroci tra fiction e nonfiction da stordimento. Ma anche un’esperienza totalizzante e gratificante, se si è dotati di una pazienza di molto superiore alla media e, perché no, di un amore smodato per la storia. “Storia”, sia ben chiaro, da intendersi anche con la esse minuscola: la genealogia, quel patrimonio di avventure sepolte che potrebbe diventare il romanzo speciale di ognuno di noi, se solo trovassimo il coraggio di scavare (con mio fratello, ad esempio, siamo risaliti per la mia famiglia al 1440, a un altro cognome – Chapiron – e ascendenze subito al di là delle Alpi). L’opera di Powers ha avuto vita facile con me anche per una ragione così banale, ma è indubbio che sia stata la sua complessità di artificio intellettuale prima che narrativo a stimolarmi, a rappresentare una sfida che mai avrei rinunciato a condurre in porto. Nel mio caso la ricompensa è stata notevole: la scoperta dell’arte di quello che nel libro appare come un idolo sullo sfondo, quell’August Sander autore dell’immagine servita da pretesto per questa epica pirotecnia narrativa e concettuale. Un pioniere della fotografia o comunque uno dei primi veri artisti in quel campo. A Parigi, qualche mese fa, ho trovato e acquistato un’opera monografica a lui dedicata e ribadisco che una bella fetta del fascino di “Three Farmers on Their Way To a Dance” è merito suo. Suo e dei suoi improvvisati modelli di strada, si intende.

Tre giovani contadini del Westerwald, in cammino nel tardo pomeriggio primaverile verso un ballo di paese, si imbattono in un distinto gentiluomo in bicicletta. Affascinato dai loro volti interessanti e nel contempo caratteristici, questi si offre di ritrarli nell’abito buono della festa con la sua macchina fotografica, in cambio di una cifra simbolica. E’ il primo maggio 1914 e neanche tre mesi dopo la guerra irromperà sconvolgendo la loro tranquilla quotidianità e segnando nel profondo il loro destino. Alcuni decenni più tardi l’istantanea, scattata in quell’occasione da un tutt’altro che sconosciuto maestro dell’obbiettivo ai tre fratellastri mezzi tedeschi e mezzi olandesi, Hubert, Peter e Adolphe Kinder, incontrerà lo sguardo di un osservatore speciale ed evidentemente predestinato nella città dell’automobile per eccellenza, Detroit, rendendo in fondo necessaria l’indagine che ne riveli gli emblematici retroscena alla vigilia della Grande Guerra. E, più o meno in contemporanea con questa folgorazione, una seconda stupefacente epifania vedrà in quella stessa immagine una cruciale svolta in termini di consapevolezza, quando si manifesterà come rivelazione finale agli occhi dello stralunato redattore di una rivista di micro-tecnologia, Peter Mays, a caccia della verità sulle proprie ascendenze europee.

Tre storie scorrono apparentemente indipendenti nel tempo e nello spazio, ma sono destinate a convergere. La prima è il racconto di un’ossessione, in prima persona, con la voce di un narratore che nulla vieta di identificare nello stesso autore Richard Powers, rimasto segnato dall’incontro del tutto casuale con questo eccezionale documento d’inizio novecento. “Chi l’ha scattata? In quali circostanze? Che cosa significa?”, si domanda l’io narrante sul ciglio di un baratro di affannose e, per lunghi tratti, infruttuose ricerche. La seconda linea è quella che romanza con disinvolta licenza, ma anche con indubbia verosimiglianza, i vissuti dei tre soggetti di quella stesso scatto. La terza ha invece un più canonico sviluppo romanzesco, in una forma brillante e spudoratamente anni ’80, ed è anch’esso il resoconto di una tortuosa ricognizione nel passato e di un non meno lacerante turbamento. A premiare con la vertigine del senso e a entusiasmare il lettore che si sia dimostrato paziente quanto basta, nonché opportunamente bendisposto nei confronti degli arditi paradossi logici, penserà nelle battute conclusive l’incontro di queste tre direttrici solo in linea teorica divergenti: con le vorticose evoluzioni contaminanti tra fabula e intreccio e la scoperta che un ramo non è altro che la diramazione fantastica dell’altro, la sua genesi beffarda, il frutto dell’immaginazione salvifica di un personaggio a sua volta immaginato.

Gli spunti di riflessione degni di nota sono innumerevoli, nei primi due filoni soprattutto. L’insistenza con cui il narratore individua nessi sorprendenti tra Henry Ford, Sarah Bernhardt e il fotografo August Sander, autore dell’istantanea eletta a fulcro dell’intero testo – qui elevati al rango di figure archetipe chiave della svolta del secolo, in concomitanza con gli sconvolgimenti del primo grande conflitto mondiale – apre la narrazione a un profluvio di considerazioni di natura storica, filosofica, sociologica e antropologica su alcune delle più determinanti rivoluzioni culturali nella storia dell’umanità. Inevitabile lasciarsi travolgere e perdersi in questa ricchezza di valutazioni invariabilmente pregnanti e spesso sorprendenti, ma senza mai prestare il fianco alle un po’ logore lusinghe di un fatalismo di comodo, come spesso capita nei romanzi d’impronta storica sempre a caccia di sensazionali colpi di teatro. In “Tre contadini che vanno a ballare” tutto questo non accade. Il testo è sì in odore di bulimia informativa, di sovraccarico e confusione senza confini, ma la grandiosa regia di Powers sa rivelarsi all’altezza della propria smisurata ambizione, scongiurando con originale eleganza ogni deriva fine a se stessa e soprattutto avendo cura di non perdere mai di vista la nobile missione di una tesi divulgativa che è anche pirotecnica invenzione letteraria di pura finzione.

A cavallo tra fiction e non-fiction, indagine documentaristica e dedalo postmoderno, è aperta la strada a un ragionamento mai banale sull’idea stessa di opera d’arte, sulla sua riproducibilità in serie, sul ruolo e lo sguardo del creatore e la dignità di chi è chiamato a raccogliere la sua urgenza nel presente come nel futuro. Un romanzo infarcito di iperboli, digressioni nozionistiche e considerazioni alte, a suo modo titanico per la mole delle pretese dettate al suo fruitore e per i cortocircuiti interpretativi cui di continuo sottopone quest’ultimo. Un’architettura narrativa monumentale, convulsa, affascinante, che non mancherà di ripagare chi si faccia carico di uno sforzo intellettuale non indifferente, come in Pynchon e a tratti meglio che in Pynchon, in virtù della sua concretezza mirabile. E’ anche il lavoro “struggente del formidabile genio” Richard Powers qui alla sua opera prima, un programmatore innamorato della storia, capace in seguito di confermare in pieno la straordinaria prova di talento di questo magistrale esordio. Un romanzo difficile, insomma, non certo di quelli d’evasione che si lasciano divorare in tre giorni. Che può però trovare uno sbalorditivo completamento nella visione delle meravigliose testimonianze lasciateci da Sander.
Consiglio di dedicarcisi a lettura ultimata, come sorta di premio per la vostra piccola impresa di lettori volitivi. Basta digitare “August Sander” su google immagini e dare un invio. Difficilmente, se avete apprezzato “Tre contadini che vanno a ballare”, resterete delusi dallo sterminato potenziale di storie non raccontate, racchiuse negli sguardi lontani di questi silenziosi protagonisti del secolo scorso.

9.4/10

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Il Paradiso degli Orchi _Letture

       

Gesù, quanto me l’hanno fatto a fette con Pennac! Leggi questo, leggi quello, e alla fine ho dovuto cedere. Glieli ho comprati tutti i libri del ciclo Malaussene, anche perché li si trova ovunque a prezzi irrisori, persino nuovi negli scaffali dell’usato. E allora via con il primo dei quattro titoli, quel “Paradiso degli Orchi” che mi sembra di intendere sia stato una specie di caso letterario. Quali impressioni mi restano, molto a posteriori? Beh, in primo luogo che riesco a capire perfettamente il successo di questo testo. E’ un’opera molto gradevole, si legge senza particolare difficoltà ed è ricca di suggestioni distopiche e riferimenti pseudo-colti che in ampie schiere di lettori – quelli occasionali e che si vorrebbero impegnati – non possono che avere partita facile. E in seconda battuta, che al momento non ho la minima intenzione di affidarmi a uno dei successivi capitoli della tetralogia. Ora sembrerò iper-critico, e con ogni probabilità lo sono davvero, ma non mento sostenendo che si tratta di un libro più che discreto e in fondo consigliato un po’ a tutti. Non l’opera di chissà quale Dio della letteratura, ma sicuramente di un valido alfiere della narrativa contemporanea: fantasiosa, cerchiobottista e, perché no, scaltra al punto giusto; ma anche meritevole di encomi, per le innumerevoli lance spezzate da Pennac nei confronti della lettura, insostituibile arma pedagogica per i più piccoli. Chiunque vada in cerca di qualcosa che, nel genere, possa vantare un retrogusto assai più speziato e il valore aggiunto di una più sana (e autentica) follia dada, non simulata per intenderci, farebbe però bene ad affidarsi a Raymond Queneau o alle fantasmagorie patafisiche di Boris Vian. Letture più ardite e non certo adatte a tutti ma, qualora foste contemplativi inguaribili e non temeste la noia, anche infinitamente più gratificanti di questo piacevole e fortunatissimo romanzetto.

In una Parigi inquieta e insolitamente grigia, Benjamin Malaussene lavora nella pancia del Tempio del Benessere, opulento Grande Magazzino che nei giorni caotici delle feste natalizie somiglia a un brulicante formicaio e diventa teatro di ripetuti, strani attentati esplosivi. Il suo non proprio invidiabile impiego consiste nel recitare la parte del “capro espiatorio” presso l’ufficio reclami, in combutta con lo spietato ex sottufficiale alsaziano Lehmann, al solo scopo di intenerire i clienti danneggiati e spingerli pietosamente a ritirare le richieste di risarcimento. Ulteriori fattori di stress sono le frequenti telefonate della sorella Louna, infermiera con tante relazioni tormentate e tanti aborti alle spalle, e soprattutto della madre, donna petulante, incline ai piagnistei e chiaramente affetta dalla sindrome di Peter Pan, “perennemente sintonizzata altrove” in una fuga a rotta di collo da ogni relazione stabile e dai propri doveri genitoriali. L’ancora di salvezza per il disastrato Ben lo attende però a casa, nel vecchio appartamento al pianterreno nel vivace melting-pot zonale a Belleville, ed è l’appassionato uditorio dei suoi resoconti in prima persona, una versione iperbolica, iperrealista, romanzata e non meno convulsa della pirotecnica realtà in cui si trova immerso ogni santo giorno. E’ una famiglia modernissima composta da un grosso cane vittima di epilessia, Julius, e quattro ragazzini – suoi fratellastri e sorellastre – che non si sa bene di quali padri siano figli: l’aspirante segretaria Therese, che stenografa assolutamente tutto quello che viene detto senza interruzioni, come per dare forma ad un unico torrenziale romanzo che si proverà poi a far pubblicare (con il geniale titolo “Implosione”); il razionalista Jeremy, attratto dalle strategie militari, dalle armi e relativa fabbricazione; il “piccolo”, che disegna “Orchi Natale” rossi e colleziona le fototessere dello “zio” Theo, omosessuale amico del clan, gerontofilo e responsabile del reparto Fai da te al Centro Commerciale; e infine Clara, fotografa dilettante e brillante osservatrice che anestetizza gli orrori a colpi di otturatore ed è la più valida sostenitrice dello sventurato fratello maggiore.

Dopo essersi imbattuto nella sensuale fatalona “zia” Julia, giornalista di “Actuel” che scriverà un reportage sulla sua ingrata professione e occasionalmente gli accorderà i suoi favori sessuali, il mite Malaussene inizia a indagare per conto proprio e a riportare a casa, grazie all’immancabile filtro fantastico (indimenticabili Gib La Iena e Bas Basetta, favolistici duplicati dei soli leali poliziotti, il commissario Rabdomant e l’ispettore Caregga), i crudi retroscena via via svelati, certe odiose storiacce di pedofilia e tortura risalenti alla notte della ragione, negli anni dell’occupazione nazista. Per paradosso, la cruda ironia sfoderata al cospetto degli sprovveduti organi inquirenti, il suo ruolo di dipendente più tartassato e – si suppone – più rancoroso, oltre al fatto di essere il solo individuo sempre presente nei luoghi delle esplosioni, ne fanno in men che non si dica il principale sospettato, inviso per la sua condotta poco accondiscendente anche ai vertici del sindacato e alla proprietà (nella persona del brillante e insopportabile Sainclair), che pure non esita a raddoppiargli gli emolumenti visti i notevoli risultati ottenuti nei panni della vittima sacrificale. Come avrà modo di realizzare amaramente sulla propria pelle, perché quella deformazione professionale evolva in vocazione esistenziale, suo malgrado, il passo è quanto mai breve…

Proprio come il suo protagonista, Pennac si rivela un affabulatore di razza e da vita a una realtà narrativa ricca di fascino e personaggi memorabili, dalla quale è quasi inevitabile lasciarsi irretire. “Il Paradiso degli Orchi” è un testo agile, breve, eppure denso di invenzioni strepitose e dettagli appassionanti, a cominciare dai fantasmagorici resoconti finzionali che Benjamin smercia ai fratelli bambini a fine giornata. Tra un omaggio alla Roma di Gadda e alla Parigi di Sue, alla Mosca di Dostoevskj e alla Londra di “Blow-Up”, prende forma un giallo surrealista, un noir virato in chiave felicemente pop che, come il saggio interpretato dal guardiano notturno Stojil, ha la sua massima forza nell’umorismo, “irriducibile espressione dell’etica”. Proprio l’ironia consente a Pennac di affrontare con la sua penna mostri e demoni contemporanei con ammirevole leggerezza, senza venirne fagocitato e senza mai scadere in triti (e comodi) luoghi comuni. Meglio l’imprevedibilità di una prima parte davvero avvincente, in cui il lettore è invitato con garbo a familiarizzare (nel vero senso della parola) con questo bizzarro universo parallelo e vi si trova talvolta piacevolmente sperduto. Nelle battute conclusive l’autore sembra invece più interessato a far andare al loro posto tutti i tasselli del puzzle e non ha modo di evitare qualche soluzione più accomodante e didascalica, per non far perdere la rotta a chi segue le vicende dei Malaussene tra le pieghe di un intreccio sempre rigorosamente intrepido. Un pizzico di virtuosismo programmatico in meno e un po’ di sana follia dada alla Queneau o di nonsense grottesco alla Vian (evidentemente non solo semplici riferimenti tra i tanti) in più avrebbero giovato, anche considerando il tenore e le trovate chiave del libro, ma questo terzo romanzo di Pennac resta comunque una lettura intelligente, stimolante ed estremamente godibile, lieve senza mai essere superficiale.

7.5/10

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