Raymond Queneau

Tempi duri, Saint Glinglin! _Letture

       

E’ una delle opere più pazze di Queneau questo “Tempi duri, Saint Glinglin!”, folle già per quella genesi d’impronta teatrale dilazionata in tre tempi nell’arco di un quindicennio, e resa un parto faticoso dai continui stravolgimenti e dalle fratture di una forma dilaniata tra monologo interiore, narrativa tradizionale e composizione poetica. Un coacervo di tensioni espressive che la pluralità dei riferimenti culturali – dal mito alla psicanalisi, dal trattato filosofico allo sberleffo surrealista, con un’occhio di riguardo per l’indagine antropologica – avrebbe portato a esplodere in un romanzo incoerente, visionario e debordante. Un romanzo à la Queneau, in pratica…

Pierre Nabonide è un giovane dilaniato dall’inquietudine. Si trova suo malgrado a vivere una sorta di esilio nella “Città Straniera”, dove studia senza alcun profitto l’idioma locale per compiacere il padre e non rendere vana la borsa onorifica che questi si è premurato di assicurargli con grandi sacrifici. Vorrebbe consacrarsi alla scienza della vita ma poi si strugge dinnanzi all’insensata acquesistenza delle creature nel giardino zoologico della fantomatica località estera: aringhe, murene, crostacei e poi i più miserabili di tutti, i pesci cavernicoli. La sua crisi personale raggiunge l’acme alla vigilia della festa patronale di Saint Glinglin, la “Città Natale” abitata dalla sua famiglia e da tutti gli altri “urbinataliani”: il suo ritorno a casa in coincidenza con i festeggiamenti rovina i piani populisti del genitore, il sindaco (un podestà più che altro) universalmente noto come Nabonide tout court (proprio come l’ultimo sovrano di Babilonia), che nei circenses sfrenati della cerimonia ha investito tutto e sperava di distrarre al meglio la collettività. Peggio, la sua ostinazione nel rendersi protagonista di un comizio pubblico apparentemente privo di senso alimenta le malelingue dei notabili meno allineati (Catogan e Paracole) che, a differenza degli altri (Le Busoqueux, Machut, Zostril, Marqueux, Rosquilly, Saimpier, Choumaque), cospiratori silenziosi, non tardano a lamentare apertamente (ma sterilmente) la cattiva gestione in atti pubblici e privati dell’illustre personalità.

Nella cornice invariabilmente alticcia dell’avvenimento, con la popolazione che avalla lo status quo, fracassa giubilante ogni sorta di manufatto in ceramica plasmato per l’occasione e si stordisce tracannando una bottiglia dietro l’altra di Fifrequet e Trapu (o gozzovigliando con il piatto tipico della festa, la super-zuppa di verdure e carne Brouchtoucaille), gli eventi precipitano: mentre si scopre che il primo cittadino teneva segregata una figlia ignota (e del tutto alienata), Helene, questi fugge nella zona impervia delle Colline Aride inseguito dalla prole adirata e trova la morte dopo una rovinosa caduta nella Sorgente che pietrifica. Recuperato, il suo corpo di granito viene eretto a mo’ di statua commemorativa nella piazza principale ed è proprio il figlio Pierre, pure contestatissimo, a raccoglierne il testimone. Un anno più tardi, avvicendamento a parte, nulla di significativo sembra essere davvero accaduto: cittadini, contadini e turisti persistono nelle loro esorbitanti digressioni etiliche, il cerimoniale bislacco della festa continua a calamitare le attenzioni di tutti, lo scaccia-masse-di-nuvole che garantisce il bel tempo perenne è regolarmente in funzione e i polemisti di professione sono sempre in circolazione, velenosi quanto inefficaci nelle loro invettive.

C’è in realtà una nuova forma di sfavillante intrattenimento, introdotta come ogni piccola grande novità dal commerciante e importatore Mandace. E’ il cinematografo, con il suo mondo dorato di stelle e stelline straniere, su tutte quella Alice Phaye che è diventata un’autentica ossessione per il secondo fratello Nabonide, Paul, e che fa visita alla Città Natale giusto alla vigilia della nuova Festa di primavera. Siamo invitati a seguirne la cronaca dalla prospettiva defilata – e in fondo privilegiata perché non viziata dalla locale follia – del turista ed etnografo Dussouchel, testimone smaliziato della fine di un’era e delle sue tradizioni, quando il marchingegno che preserva il clima sereno viene gettato nella discarica da Pierre, la pioggia fa irruzione, vasche e acquari si colmano subito in attesa di ospitare gli adorati pesci e la statua tombale viene dissolta nello sconcerto generale. Il frantumarsi di ogni regola consolidata mentre la pioggia battente comporta nuove forme di assuefazione per gli Urbinataliani, condurrà a esiti imprevedibili prima che la dissoluzione dei quattro fratelli Nabonide riconsegni la cittadina all’impassibile autorità del bel tempo perenne e di nuovi cicli di eventi.

Scritto in tre tempi nell’arco di un quindicennio (1933, 1938, 1948), con più di un’addizione e più stravolgimenti sulla base delle prime embrionali incarnazioni, “Gueule de pierre” e “Les Temps Melés”, pur senza mai trasfigurarne del tutto l’originario impianto teatrale, “Saint Glinglin” è una perfetta manifestazione dell’inventiva strabordante di Raymond Queneau. Come già per altre e più celebrate opere dello scrittore di Le Havre, non si tratta certo di un testo poco impegnativo, specie per chi patisca le ingegnose trovate lessicali o il nonsense esercitato apparentemente a tutto campo. In anticipo di qualche anno sulle sublimi esternazioni surrealiste del miglior Boris Vian (viene in mente, soprattutto, l’alienante altrove de “L’Autunno a Pechino” e “Lo Sterpacuore”), questo disagevole romanzo si presenta in realtà come una riuscita rielaborazione dei più svariati topoi letterari pescati dalla psicanalisi (la dialettica padre-figlio mutuata dal Freud di “Totem e Tabù”) alla mitologia (Edipo è ovunque), dall’antropologia (il parallelo tra le usanze della Festa di Primavera e il rito del Potlàc descritto da Marcel Mauss nel suo “Saggio sul dono”) alla filosofia della storia (il principio della circolarità hegeliana, sempre aleggiante). E’ originalissimo in particolare, per quanto faticoso in lettura, il trattamento della materia narrativa, articolata in sezioni rigorosamente strutturate sulla norma di un’irriducibile discontinuità. Sette parti per tre diverse tipologie espressive, corrispondenti ai caratteri dei tre rampolli Nabonide: tre monologhi interiori che riflettono la rivolta di Pierre (o l’alienazione di Helene), tre canonici frangenti descrittivi in terza persona a rappresentare il conformismo di Paul e una composizione poetica che simboleggia l’evasione del giovane Jean.

Gli spunti sono insomma numerosissimi anche se il sottofondo disturbante, l’ossessiva inclinazione a un simbolismo quantomeno elusivo e il costante ricorso al sabotaggio linguistico (vedi l’esclusione della lettera “x” nel corpo di ogni parola) possono mettere a dura prova il fruitore facendolo battere in ritirata. Sarebbe un peccato ma ci può stare, il Queneau eccentrico e allucinato di “Saint Glinglin” è quasi un lusso in questi tempi di fantasia liofilizzata e livellata verso il basso. Affabula come da copione pur rivelandosi meno pirotecnico – per citare un’opera stranota e per certi versi paradigmatica – che in “Zazie nel metrò”. Il tono è più crudo, grottesco come nei primi, umidi film di un Jean Pierre Jeunet (“Delicatessen” ci si è ispirato?) e con trovate macabre a dir poco gustose (i morti gettati senza cerimonie nella “marmellata di fango” della discarica). Resta volutamente irrisolto, con il suo bel finale visionario al culmine della spirale di vertigine immaginata dall’autore, e va preso per quel che è: niente più che un sofisticato esercizio ludico sul tema dello scorrere del tempo, sull’eterno contrasto tra generazioni e sull’inutilità (forse) delle lezioni di una Storia al solito cinica e impietosa.

7.6/10

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Gli ultimi giorni _Letture

       

Che autore incredibile è stato Raymond Queneau! Un innovatore e sabotatore come pochi per la lingua francese, un dadaista della parola ma anche un fine intellettuale. Gli ultimi suoi testi che ho letto non fanno parte dello sterminato catalogo Einaudi (con l’inarrivabile “I Fiori Blu” o “Zazie nel metrò” sugli scudi), né della ridotta pattuglia Feltrinelliana, bensì di una più recente e modesta edizione per Newton Compton. Si tratta del vorticoso (e di lunghissima gestazione) “Tempi Duri Saint Glinglin!” e de “Gli Ultimi Giorni” che qui presento pur brevemente. Un testo, quest’ultimo, che appartiene alla sezione giovanile della produzione del narratore di Le Havre, e che quando uscì per Gallimard nel 1937 faceva seguito ai soli “Hazard E Fissile” (uscito postumo) e “Il Pantano”. Se “Saint Glinglin” è opera pirotecnica e del tutto irregolare nello stile, “Gli Ultimi Giorni” appare un lavoro assai più posato, filosofico e malinconico, un saggio esistenzialista che sorprende per la delicatezza delle sue riflessioni e della sua ironia. Non è forse l’introduzione migliore alla grandezza di Queneau ma può rivelarsi un piacevolissimo diversivo.

Parigi, primi anni venti. Tra i tavolini del Café Soufflet, un bicchiere di Pernod dopo l’altro, giovani studenti di belle speranze discorrono con aria annoiata dell’avvenire, mentre gli anziani si consolano delle piccole amarezze quotidiane perdendosi nel piacere soffuso dei ricordi di gioventù. In entrambi i casi è il tempo il convitato di pietra, immancabilmente al centro delle dissertazioni di tutti. Ossessionato dall’allineamento dei pianeti, il cameriere Alfred è convinto di poter prevedere – al di là di ragionevoli dubbi e infinitesimi errori di calcolo – l’esatto compiersi di qualsiasi evento. E’ lui il testimone discreto di quanto accade fuori scena agli avventori del locale, e a intervalli più o meno regolari ne fa l’oggetto di garbate confidenze rivolte al lettore. Tra gli universitari, siamo invitati a seguire in particolare un manipolo di matricole di Le Havre, nei suoi ciondolamenti in solitaria o in gruppo nel gomitolo di strade attorno alla Sorbona e in tutto il Quartiere Latino. C’è il bugiardo viveur Armand Rohel, anticonformista ampiamente fuori luogo nell’esclusivo salotto letterario in cui è introdotto dal più inquadrato compagno Brennuire, autoctono, e dove desterà un certo clamore recitando versi cubisti; c’è Hublin, l’appassionato di spiritismo che un bel giorno parte per il Brasile per fare fortuna con il caffè e decide di voltare le spalle a tutto ciò in cui ha creduto.

E poi c’è Vincent Tuquedenne, quanto di più simile – in questa amarognola commedia per più voci – a un protagonista: schivo, malinconico, abitudinario, “asceta per debolezza”, si professa ora dadaista ora bergsoniano, vive di paradossi, di barbosissime letture e di poesia situazionista, ma il tempo tende più che altro ad ammazzarlo senza concludere nulla. Tra gli uomini maturi spicca il “Pasticca” Tolut, professore di geografia in pensione, macerato dal rimorso nella convinzione di non aver insegnato adeguatamente bene la materia, non avendo mai viaggiato. A scatenare questi dubbi quasi fuori tempo massimo è il fatale incontro con Brabbant, piccolo truffatore dalle mille identità, un Landru che non uccide e che ha deciso di tentare il tardivo salto di qualità con un raggiro memorabile, per sistemarsi fino alla fine dei suoi giorni. Per tutti l’occasione è lì, a portata. Ma come pronosticato dal mite Alfred, tutto andrà come deve, e poi l’ennesimo ciclo si chiuderà: i giovani si rimetteranno in quadro dopo un ambientamento difficoltoso, concluderanno gli studi e partiranno militari; i vecchi saranno traditi nell’ultimo slancio, chi dalla demenza senile, chi da una riconciliazione negata forse senza un vero perché. Tutti si faranno da parte, come le foglie morte che sui viali si decompongono in pozze fangose, spazzate via per lasciare il posto a quelle ingiallite e cadute dopo l’ennesima estate.

Romanzo giovanile, a torto o ragione considerato “minore” in seno alla produzione letteraria del grande autore francese, “Gli Ultimi Giorni” è un’opera piacevolmente fuori moda – meglio, sospesa in una sorta di bolla atemporale – che pennella con indubbia delicatezza lo sfumare delle stagioni della vita, attento al valore universale e in fondo inesorabile dei suoi assunti ma anche all’intima verità di pochi personaggi esemplari. Si discetta in lungo e in largo di morale, filosofia, ragione, scienza, esistenzialismo, ma non c’è pedanteria di sorta a inquinare queste pagine. Semmai un po’ di indolenza, quell’apatia languida e triste che il rinunciatario Tuquedenne trasmette quasi per osmosi capitolo dopo capitolo, prima di dare una sterzata alla sua pallida parabola di studente autoconfinatosi nella solitudine; oppure quella certa spolverata di ininterrotta amarezza, nascosta tra le righe, implicita ma innegabile, per lo spreco inesauribile di intelligenze, buoni propositi e tempo, tempo soprattutto. Non c’è spazio, tuttavia, per il pessimismo. Queneau condisce ogni capoverso con un’ironia gentile, mai beffarda, e si rivela fatalista nel senso migliore del termine, astenendosi da ogni forma di speculazione non neutra.

“Non vale la pena cercare il sole a mezzanotte”, sostiene a un certo punto uno dei ragazzi. E’ inutile cioè incaponirsi a caccia di significati reconditi, negli schemi oscuri dell’esistenza come in questo libro. Quello è compito di chi governa le clessidre, il destino. Squisitamente interpretato ne “Gli Ultimi Giorni” dal bonario cameriere di un caffè parigino, Alfred, sempre brillante nei vaticini sulla pittoresca umanità del quartiere e tenacissimo nel proposito di rendere finalmente giustizia al proprio padre, per tutta la cattiva sorte patita negli ippodromi cittadini. Ovviamente avrà ragione lui, su tutta la linea.

7.7/10

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Zazie nel metrò  _Letture

      

Che bella sorpresa ‘Zazie nel metrò’. Oddio, sorpresa fino a un certo punto: qualche era geologica fa avevo visto infatti l’adattamento cinematografico curato da un signor regista come Louis Malle, all’epoca giovanissimo ma con già una Palma d’oro nella propria bacheca dei cimeli. Film molto carino quello, amatissimo da Truffaut, debitore di Tati, dell’estetica dada, del surrealismo e per certi versi anticipatore di alcuni fra gli aspetti chiave della Nouvelle Vague, primo tra tutti lo spirito libero, il felice anarchismo espressivo. Nel romanzo di Queneau questa poetica è ben presente e, se possibile, sviscerata con una vitalità creativa ancor più straripante. Un’anima irruenta e fantasiosa che affascina tra trovate nonsense e apparente amore per il grottesco, celando in realtà un’inclinazione alla satira pungente e amarissima che non ha perso mordente in oltre mezzo secolo di onorata esistenza. Perde invece qualcosa, purtroppo, con la traduzione, visto che il romanzo è ricordato da Roland Barthes come autentica esperienza di lotta con la letteratura e la lingua francese. Certi neologismi, certi calembour, la tendenza a squassare e dirottare il senso all’interno della singola frase sono aspetti che rischiano di sparire in vere e proprie guazze incomprensibili, per il lettore di oggi che non abbia confidenza con la lingua originale. Questo spiegherebbe anche i giudizi poco lusinghieri di tutti quelli che su Anobii hanno bollato il libro come un’irritante cretinata. Un problema legato agli strumenti, forse. O dovuto alla mancata intesa con l’originalissimo genio che da vita a un’opera onirica e pirotecnica come questa, o come quelle di Boris Vian, vero spirito affine.

Affidata alle cure dello zio Gabriel da una madre priva di criterio, ben più interessata a dare sfogo ai propri sollazzi carnali che non all’educazione della figlia, la piccola Zazie si trova catapultata dalla provincia nella pancia di una Parigi di cui tanto ha letto sui giornali e che già brama di piegare ai propri capricci infantili come uno smisurato giocattolo extralusso. Che le cose non le dicano proprio benissimo è chiaro sin dal principio, visto che l’immancabile sciopero degli addetti alle pinze perforanti del metrò cittadino equivale ad una netta riga nera sulla prima voce della sua personale lista dei desideri. Svincolatasi senza problemi dalla nemmeno poi così rigida tutela del parente, la ragazzina è libera di esplorare per due turbolente giornate una città che, almeno all’inizio, sembra in grado di comprendere e soggiogare con fin troppa malizia. Annoiata da una torma di grandi apparentemente monodimensionali, in primis la zia Marceline, tutta moine, convenevoli e dolcezza nell’eloquio, Zazie tiranneggia letteralmente nella prima metà del romanzo, dedicata alle sue scorribande in solitaria per le strade di Parigi (“la scuola del vizio”, come sostiene qualcuno ad un certo punto), e si imprime nella narrazione come un fulmine a ciel sereno o un peperino impertinente, personaggio modernissimo ed irrequieto dotato di un piglio e di un acume che la rendono proprio tutto fuorché una candida sprovveduta. Nelle mani del suo creatore diviene presto un paradossale strumento di indagine morale (ma non moralistica) poiché del tutto funzionale nello smascherare, attraverso il più dissacrante degli scherni, le mille ipocrisie del mondo degli adulti. Proprio a questo scopo è tratteggiata come un pupazzo feroce caricato a molla, una maschera deforme e grottesca, un mostro: è la cattiva caricatura di quel che dovrebbe essere una bimbetta, poiché proprio sbugiardare e mettere alla berlina i comuni mostri sembra essere la sua missione. Sembra, perché in realtà le cose prendono presto un’altra piega, la teatralità impone le proprie coordinate e la trama si sfarina, rivelando tutta la propria deliziosa e inessenziale natura. Gli orrori, l’ambiguità e l’insensatezza del male quotidiano, meravigliosamente incarnati da un misterioso ed elusivo personaggio che ha tante personificazioni (Pedro il satiro, Trouscallion il flic, l’efferata autorità con licenza d’uccidere Aroun Arachide) e nessun volto certo, finiranno con l’avere la meglio anche sulla positiva irriverenza che parrebbe renderla eternamente giovane, relegandola senza troppe cortesie nei ranghi delle numerose figurine di contorno condannate a diventare grandi o, meglio, ad invecchiare.

Lo stile di Zazie nel metrò è onirico ed iperbolico alla maniera del Boris Vian de ‘La Schiuma dei Giorni’ (ma con più irruenza e meno infiorettature poetiche) e questa vicinanza non può stupire, considerando che i due autori erano amici e si trovarono a collaborare in più occasioni. Il registro surreale pressoché incontrastato, l’ironia galoppante e la sua controparte finale, un disincanto che raggela, sono gli autentici motori di una narrazione che sarebbe stata poi felicemente trasposta anche in ambito cinematografico, grazie al talento di un (allora) giovane Louis Malle.
Queneau gioca con il racconto rompendone il costrutto logico e sfalsandone costantemente i riferimenti architettonici, svuotandolo ed infarcendolo, confondendo sfondi e primi piani, figure ed ombre. Gioca con le identità, con i travestimenti e gli artifici che frantumano le certezze del lettore, invitato a concedersi una pausa dal flusso tortuoso dei suoi ragionamenti ma senza rinunciare comunque all’indispensabile assistenza del pensiero. Ed allo stesso mondo gioca con la lingua ed i suoi stereotipi, imbarbarendola e coprendola di ridicolo con francesizzazioni di termini stranieri, doppi sensi astrusi, promozioni sfacciate dal gergo della strada e neologismi bislacchi, che ben contribuiscono al clima di follia farsesca (ma mai gratuitamente cretina) in cui il romanzo pian piano scivola, fino alla fiammata di violenza insensata che da una scossa nelle battute conclusive, virando verso le tonalità dell’incubo i contorni di quello che fino ad allora era parso poco più di un sogno innocente. Molto di questa fantasia anarchica è destinato ad andar perso, purtroppo, con la pur valida traduzione italiana, ma la qualità dinamitarda dello sberleffo verbale e concettuale portato in dote da Zazie e dagli altri strani personaggi del libro resta facilmente intuibile e, tutto sommato, godibilissima. Molte delle caratterizzazioni rimangono allora indelebili e determinano buona parte del successo che ebbe il romanzo negli anni ’60 (non sembra sbagliato sostenere che ne anticipò anche a grandi linee lo spirito di ribellione): la scurrile ed incontenibile protagonista in primo luogo, ma anche il buon senso dello zio Gabriel, vero maniaco della granatina, e persino il pappagallo Laverdure con la sua battuta immutabile ed irriducibile, eletta spesso a divenire, per volontà dell’autore, la frase più intelligente (e meno fuori luogo) in pagine e pagine di scoppiettanti dialoghi.
Una curiosità: non devono essere recensori troppo attenti quelli che sottolineano come, beffa delle beffe, il titolo racconti qualcosa di falso. In realtà Zazie nell’agognato metrò ci viaggerà, eccome. Solo che lo farà dormendo, un po’ come certi lettori evidentemente distratti dalla pirotecnia di questo romanzo.

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