Genio in sordina _parte seconda

 

Il 20 aprile 2006 non deve essere stato un giorno come tutti gli altri per James Milne. In abbinamento di lancio con l’eponimo ‘Lawrence Arabia’, Lil’ Chief e Honorary Bedouin fecero uscire in quella stessa data anche il primo e per ora unico album dei Reduction Agents, band capitanata da Milne con Ryan McPhun – leader dei Ruby Suns – negli improvvisati panni di batterista, oltre ad un paio di misconosciuti compari a completare l’organico. Evidentemente la scelta di sincronizzare al minuto la pubblicazione di questo doppio esordio fu voluta con forza dall’autore, intenzionato a sparare tutte le proprie cartucce nella speranza di fare centro in almeno una occasione. Di certo ha pagato: fino ad allora James si era limitato a suonare in un diversi dischi o EP dei Brunettes restando abbastanza nell’ombra, specie come autore. Il suo contributo con la canzone ‘You Beautiful Militant’, nel secondo LP dei concittadini (‘Mars Love Venus’, 2004) deve aver spinto l’amico Bree ad incoraggiarne con forza gli sforzi, ripagati in meno di due anni con questa duplice uscita. I frutti di un simile tour de force non hanno tardato a manifestarsi, considerato l’arruolamento da parte di grossi calibri americani (vedi parte prima), le tournee da antipasto in giro per il mondo, la fuga a Londra e la firma con la Bella Union. Se per ‘Lawrence Arabia’ Milne aveva composto in pochi mesi materiale nuovo o rielaborato per l’occasione nella spoglia ma intrigante veste dell’album, ‘The Dance Reduction Agents’ si è presentato come l’occasione unica per ragionare da leader di una compagine e non semplicemente da solista, qualità chiaramente nelle corde del cantante di Christchurch da chissà quanto tempo. Anche in questo caso Milne non ha fatto altro che organizzarsi e registrare canzoni che gli danzavano nella testa da anni, più intrise, rispetto a quelle destinate al progetto solista, di una vena scoppiettante per assecondare la quale era necessario un lavoro di gruppo, una visione partecipata e condivisa da più spiriti affini. Messi al servizio di una vera band questi brani riescono a funzionare in modo impeccabile, e poco importa se i musicisti non sono proprio dei fenomeni. Rispetto a quell’altra opera ‘The Dance Reduction Agents’ non patisce gli spifferi di un eccessivo solipsismo, di un’intonazione spesso cerebrale e artefatta per quanto sostanzialmente sincera e più che godibile. E’ un disco sorprendente questo, estremamente espansivo e a fuoco pure nell’eterogeneità degli spunti proposti. Fatica piuttosto a trattenerli, pecca di eccessiva spontaneità e dell’assenza di maschere che filtrino l’insieme come orientamento più consapevole. Personalmente trovo che questo non sia affatto un male e costituisca per paradosso proprio il punto di forza dell’album, la sua natura incontenibile. Anche se non siamo in presenza di un genio, di un talento canonico e a tutto tondo, non resta un dettaglio da poco che questo novellino venticinquenne dall’altra parte del mondo abbia saputo tirar fuori in un sol colpo due dischi così diversi e così in armonia, perfetti nel completarsi a vicenda rappresentando le due anime del loro autore con una veridicità estrema. L’album dei Reduction Agents è una formidabile esplosione pop, una collezione di hook irresistibili e di sorprese estemporanee.

 

Se voleste farvi un’idea provate con ‘80’s Celebration’, frammento introdotto dalla drum machine e capace di sposare con disinvolta bravura strofa malinconica e delizioso refrain uptempo, il tutto in un memorabile concentrato di due minuti scarsi, per nulla ridondante. Di più. Se ‘Lawrence Arabia’ non faceva pesare il rilievo di debiti sin troppo scoperti nei confronti di sicuri maestri del passato, in ‘The Dance Reduction Agents’ l’opera di riciclo intelligente si fa se possibile ancora più scaltra ed eclettica, portando Milne a spaziare in un vasto range di riferimenti senza mai suonare fasullo o troppo derivativo (termine osceno ma, vabbeh, va tanto di moda). Dalle squillanti chitarre di ‘Urban Yard’ (che fa tanto Kinks primi anni settanta) alla colorata sgroppata power-pop di ‘Our Jukebox Run Is Over’ (sorta di impossibile confino nei seventies per gli Zombies), non c’è modo di annoiarsi. In collegamento diretto con alcuni tra i migliori momenti della prima prova in solitaria, ‘The Pool’ rappresenta un altro smaccato furto con scasso dallo scrigno Beatles: ‘Being for the Benefit of Mr. Kite’ viene scopiazzata con rispetto ed amore per poi essere innervata di una follia policroma molto più attuale, parente prossima dei Supergrass, poco ma sicuro. In ‘Last Night’s Love’ va in scena l’ospitata canora di un Jonathan Bree che restituisce all’amico il favore di due anni prima e contribuisce alla curiosa fusione tra il proprio cristallino approccio al pop e quello più obliquo di Milne, compensando i soliti vecchi cliché da ballata romantica al pianoforte. Tanto per alzare la posta James e i sodali decidono di organizzare in ‘Mississippi Moonshine Girls’ una festa a base di Jangle-pop credibile quanto infettivo, guardando alla lezione dei Byrds dal comodissimo avamposto Paisley Underground dei mai troppo apprezzati Rain Parade. Applausi. Piaccia o meno, per il musicista neozelandese ‘The Dance Reduction Agents’ è la palestra perfetta in cui esercitare liberamente le proprie intuizioni trasformiste. ‘Sweet Ingredients’, pagina più sofisticata da navigato seduttore, è emblematica di questo spirito cangiante e discontinuo che predilige le sterzate stilistiche e di tonalità, le assidue deviazioni melodiche studiate per tener sempre desta l’attenzione di chi ascolta. Il miracolo, rispetto a ‘Lawrence Arabia’ e al successivo ‘Chant Darling’, è che qui non ci sono giri a vuoto: nessun calo di ispirazione, nessun filler (persino la piccola ‘Freeways’ aspira al titolo di gioiellino grazie ai sensazionali impasti vocali e al falsetto) piazzato di straforo, nessuna infelice ingenuità. Dalla calorosa posa da rubacuori di ‘Waiting For Your Love’ al ciondolante (e dolcemente indolente) voce e chitarra di ‘Cabinets and Mountaintops’, dal rispolverato intimismo folk-cantautorale di ‘Cold Glass Tube’ al crooning appassionato dell’intensa ‘Couldn’t Anymore’, è tutto un continuo cambio d’abito, con un meccanismo nell’insieme così ben oliato dal non lasciar intravvedere sbavature o passi falsi: stropicciato ma senza incertezze, romantico ma non ruffiano, raffinato ma non manierista, il Milne dell’esordio con la sua band improvvisata resta il migliore ascoltato sin qui, una promessa molto più solida di quanto i successivi passaggi non abbiano detto, un autore più libero dai condizionamenti nel recuperare quanto amava dal passato. In due parole, più personale.

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