Douglas Coupland

Fidanzata in coma _Letture

       

Qualche anno fa ho preso una sbandata per Douglas Coupland, forse l’autore del quale ho scritto maggiormente qui dentro. Un’infatuazione ragionevole, considerando che i primi suoi romanzi che ho letto sono “Generazione X” e “Microservi”, i migliori (e per distacco) di un catalogo già piuttosto ricco. Dopo un’infilata di mezze boiate ho recuperato questo “Girlfriend In A Coma”, uno dei due testi a suo nome pubblicati in Italia da Feltrinelli, relativi a una fase ancora piuttosto remota nel tempo (1998) e quindi con buone speranze. Pareva uscirne una delle sue opere più desolanti e meno autoreferenziali, grazie al cielo, una sorta di fuori onda più che disincantato dell’era Reagan e dell’era Clinton, non fosse che il canadese ha poi deciso di riservare una doppia sterzata narrativa – prima di taglio macabro, poi all’insegna di un miserabile buonismo – che sul lettore smaliziato ha l’effetto di un Ko. Magari sono io a recitare la parte del duro, come ogni innamorato scottato un passo alla volta dalla delusione. Forse ci si può accontentare del titolo rubato alla canzone degli Smiths, o delle plausibili ricadute cinematografiche del libro forse più cinematografico del Nostro (in un certo senso ero stato buon profeta nella recensione, anche se la serie Tv della NBC con Christina Ricci è stata cancellata poco dopo l’annuncio) però, non so, ho l’impressione che il buon Douglas, oggi drammaticamente a corto di idee, qui abbia voluto esagerare e abbia di fatto “sputtanato” una delle sue cose più pregevoli. Il mio amore per lui, ad ogni buon conto, si è da tempo raffreddato.

Vancouver, Dicembre 1979. In un tranquillo sobborgo abitato da un “ceto medio, che più medio non si può”, sei ragazzi prossimi al diploma trascorrono le loro giornate all’insegna della spensieratezza, tra gite sulla neve e allegre serate alcoliche. Hanno da poco perso un compagno cui erano tutti legati, Jarod, stroncato dalla leucemia, ma cercano di non scoraggiarsi facendo affidamento gli uni sulla compagnia degli altri. Sarebbero solo buoni amici ma di fatto costituiscono tre potenziali coppie d’acciaio: lo scavezzacollo Hamilton e la svampita Pam, legittime aspirazioni da modella e relative ossessioni alimentari; i cervelloni Linus e Wendy, due con la testa il più delle volte tra le nuvole e voti ampiamente sopra la media; e poi Richard e Karen, quelli più “normali” della cricca, verrebbe da dire, quelli tra cui l’amore vero sembra sul punto di sbocciare. E sotto una trapunta di stelle, su una cresta innevata, una sera la magia si compie davvero. E’ la prima volta per entrambi, sembra l’inizio di una bella storia sentimentale tra adolescenti, ma qualcosa non va. Lei è strana, confessa di sentirsi minacciata da qualcosa di oscuro, lamenta una certa inquietudine per alcune fosche visioni che ha avuto e affida molti dei suoi timori sul futuro a una lettera che consegna al ragazzo, pregandolo di aprirla solo nell’eventualità che qualcosa di brutto le capiti. Il ché accade puntualmente forse neanche un paio di ore dopo. La giovane prende un valium, lo accompagna con un paio di drink annacquati e poi crolla a terra, abbattuta come da un fulmine a ciel sereno. Non si risveglierà che diciassette anni dopo, deperita nel fisico ma con lo stesso brio di un tempo, solo per scoprire di aver avuto una figlia, Megan, cresciuta poi in sinergia forzata da sua madre Lois e dal fidanzato dei giorni felici.

E’ proprio Richard a diventare così, prestissimo, il protagonista della vicenda, il punto di osservazione privilegiata tramite cui seguire con i sei ex sodali l’appassire di un legame che non si spezzerà mai del tutto, e che troverà anzi nuova benzina dall’insperato risveglio della bella addormentata. Attraverso la soggettiva del giovane ci è offerto un manuale di disincanto in perfetto Coupland-style, amareggiato magari ma mai cinico. E si attraversano tutti d’un fiato gli anni ’80, le cui contraddizioni e falsi miti rappresentano una pietra tombale inequivocabile per i sogni ancora innocenti dei due decenni precedenti. Si entra nei novanta della “Generazione X” – sempre lei! – e le miserie di un’età adulta ormai priva di vere bussole sono apparecchiate con la consueta disinvoltura, anche grazie a un campionario simbolico che per chi abbia letto altro dell’autore non potrà che suonare risaputo, almeno in parte. Certo c’è meno ironia del solito, non si ride che a denti stretti, la rassegna di simpatiche bizzarrie è ridotta all’osso mentre l’ormai trita autoreferenzialità del romanziere canadese resta espediente non pervenuto, grazie al cielo. Il diventare adulti, in Coupland, non è mai stato tanto desolante. Chi aveva un bel cervello lo ha impiegato male. Chi ha sfondato nella moda ne è poi uscito con le ossa rotte. Chi ha ceduto alla droga è condannato a un presente di dipendenze e sostanziale solitudine. E poi c’è Richard, che continua a essere quello “normale” del lotto, anche se la paternità da minorenne non la si può archiviare tra gli eventi ordinari, e le difficoltà della salita vanno a crescere esponenzialmente con la pendenza: l’alcolismo diventa lo sbocco inevitabile per chi non aveva gli strumenti adatti a sobbarcarsi tutto il peso del mondo, e si offre anche nel contempo come il più comodo dei luoghi comuni letterari, giustificando non senza opportunismo la quotidianità sbandata dell’acerba Megan.

Quando l’adolescenza finisce, i sei compagni un tempo inseparabili si trovano allora, spesso e volentieri, separati per forza. Dell’amica in coma finiscono per dimenticarsi tutti, tranne il padre di sua figlia, e tutti si ritrovano a vivere nella certezza che la vita “possa acquisire magicamente significato da un attimo all’altro”, credendoci però sempre meno ogni giorno che passa. Invecchiano senza diventare saggi. Si sentono persi, incarogniti, “assestati con calma in un autunno della vita prematuro” in cui il divertirsi occasionale e poco consapevole non è altro che un velo a occultare l’isteria sottostante. Come nelle tremende premonizioni ricevute in gioventù, Karen si trova circondata da una congrega di “anime impantanate” che non hanno saputo far fruttare le proprie ambizioni, che hanno dimenticato la forza propulsiva dei sogni e si sono trasformati in quel che sono “per pura inerzia”. Ma arrivati a questo punto siamo solo a metà dell’opera. Accade il miracolo, è vero; ma anziché sedersi su allori strappalacrime, Douglas regala una bella sterzata, alquanto imprevista: oscura il cielo di bei nuvoloni neri, alza la posta dell’inquietudine con nuove sinistre evocazioni e, per non farsi mancare proprio nulla, si concede una notevole sbertucciata alla tv del dolore e all’ipocrisia del circo mediatico. Quindi spalanca le porte dell’apocalisse, con una perfidia grottesca degna di un Christopher Moore – le pagine dedicate all’ecatombe collettiva sono le migliori del libro, checché se ne dica, e con la loro amabile galleria di “squaglioni” umani superano il tanto celebrato “Un Lavoro Sporco” – e segna di fatto l’avvio di un’opera del tutto diversa, cupa, conturbante e disperata, ma abbastanza avvincente. Peccato che il gioco non duri a lungo, e il canadese inquini le ultime ottanta pagine con un buonismo da “seconda opportunità” che manda in vacca il tesoretto di tensione sapientemente raggranellato e che non potrebbe essere più fuori luogo di così. Il romanzo forse più denso e irregolare del suo catalogo, quello che meglio si presterebbe per una (o più di una, vista la varietà di spunti) riduzione cinematografica, va allora in archivio all’insegna di una speranza incondizionata nelle nuove generazioni (ipsilon o zeta, se i conti sono giusti) e di una sorta di “Stay hungry, stay foolish” ante litteram che puzza di (mezza) delusione.

Peccato, resto convinto che Coupland sia uno scrittore valido proprio per come sa gestire le emozioni, sentimentale senza sentimentalismi. Nel caso di “Fidanzata in Coma” ha finito per essere troppo didascalico proponendo a forza una morale (e un fantasma risibile) di cui non si avvertiva il bisogno, così un po’ di perplessità è da mettere in conto.

6.4/10

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Jpod _Letture

       

Era un blog d’argomento musicale (generosamente autoproclamatosi tale), è diventato un raccoglitore di pseudo-recensioni di libri, anzi, quasi solo di opere di Douglas Coupland. E, a proposito di Coupland, con “Jpod” siamo un po’ al nadir di una carriera che troppo a lungo ha citato e riciclato se stessa, lo stesso immaginario pop, la stessa giocosa nostalgia e il medesimo breviario di disincanto pronto all’uso. Alla decima replica, sempre meno credibile e sempre più inquinata dal narcisismo (e dalle relative invasioni di campo), è inevitabile che qualcosa non funzioni più come un tempo. Se gradite queste atmosfere e questi personaggi tra il geek e il nerd, virate con decisione su “Microservi”, che è il modello a fronte della caricatura che non fa ridere.

Tra di loro si considerano reciprocamente alla stregua di “vacui cartoon umani”. Sono un campionario delle più disparate eccentricità pop partorite dalla sottocultura di massa degli anni ’80 e ’90, e condividono in sei un bizzarro habitat cubicolare, affettuosamente ribattezzato jpod in onore dell’iniziale dei loro cognomi, in seno a una mega-multinazionale canadese. La loro sfida più grande consiste nel mantenere la loro integrità di beati eletti nell’universo dei geek da battaglia, e soprattutto in quell’”avere un lavoro senza lavorare”, obiettivo davvero arduo da raggiungere all’interno di una compagnia “in cui la produttività viene misurata con ogni sistema metrico mai concepito dall’uomo”. Cowboy vive segnato dall’ossessione per la morte e l’astinenza sessuale; il “malvagio” Mark è sprovvisto di qualsivoglia senso dell’umorismo ed è puntualmente bersagliato dai compagni per questo; John Doe è cresciuto in una comune di invasate hippie che lo ha preservato, suo malgrado, da ogni possibile forma di contagio mediatico e commerciale, ragion per cui la sua massima aspirazione è al conformismo più disarmante, anche in ambito sessuale; Bree è per converso affetta da una specie di ninfomania d’elite che la rende fragile quanto volubile negli interessi come nelle relazioni; Kaitlin tende a recitare nei panni della prima della classe o semplicemente è solo la più sana di mente, e fatica per questo a integrarsi in un team che vive con estrema ripugnanza; con una simile accozzaglia umana in guisa a fargli da controparte d’elezione, parrebbe avere vita facile come specchio della normalità il mite Ethan, quello più razionale, meno infognato con gli assurdi dettami della filosofia nerd, quello che sembra provare sentimenti meno morbosi e più ortodossi (rivolti masochisticamente verso l’ostile Kaitlin, ultima arrivata).

L’apparenza inganna, e al lettore non serve troppo tempo per accorgersene. La quotidianità del giovane protagonista è infatti ammorbata da una coppia di genitori fedifraghi che sono un esplosivo coacervo di stravaganze e pericolose inclinazioni: mamma ha una piantagione di hashish in cantina, amanti più o meno giovani di entrambi i sessi e più di uno scheletro nell’armadio di cui sbarazzarsi con l’aiuto del malcapitato figlio; il babbo è invece un fallito il cui solo scopo nella vita è quello di ottenere finalmente una parte con battute in pellicole di infimo livello o spot pubblicitari (non ci riuscirà), e che affoga la propria rassegnazione nelle gare di ballo, nelle miscele di rum e Gatorade e in occasionali relazioni con le vecchie compagne di scuola dei figli. Figli, perché nel cast rientrano anche un fratello, Greg, agente immobiliare, e soprattutto il socio di quest’ultimo in affari tutt’altro che leciti, il minacciosissimo Kam Fong. Riusciranno i sei scoppiati del jpod (e il loro capo Steve, insopportabilmente idiota e ordinario, prima che un grosso trauma e l’eroina lo rivoltino come un calzino) a completare la progettazione di un videogame di skateboard, sabotato dai superiori con sceneggiature infantili o orrende derive fantasy, prima che l’azienda riveda i suoi piani e opti per la cancellazione? Tra lettere d’amore al clown di McDonald, Ronald, bizzarri esercizi matematici, brevi interviste (onanistiche) per fantomatici corsi di inglese e intere paginate di ciarpame informatico, assisteremo al naufragare di un candido sogno per perdenti, rimpiazzato dall’edulcorante sapore di una realtà vincente.

Per quanto destinata, magari, a lasciare il tempo che trova, una pur dozzinale analisi critica di “Jpod” non può in alcun modo prescindere dai necessari paralleli con le più simili tra le precedenti opere dell’autore. La domanda corretta da porsi, a romanzo ultimato, dovrebbe essere: “cosa resta della mitica Generazione X, quindici anni dopo?”. La risposta è nelle vostre mani, abbastanza impietosa. Non certo quel respiro ampio per quanto vago, generazionale appunto, che in quell’opera prima era una benzina sorprendente nonostante una prospettiva di sconfinato disincanto. Gli (anti)eroi di “Jpod” potrebbero essere i fratelli minori o, meglio, dei cugini giovani, ma in comune con Andy, Dag e Claire hanno davvero pochissimo. Non quello spessore “umano” fatto di debolezze e disorientamento, reso nelle psicologie con tendenza alla stilizzazione ma anche buona efficacia. Al confronto, questi quasi trentenni sono caricature del modello invecchiate male, figurine di carta ideate per rendere alla meno peggio una certa idea del disordine di questi anni, in ambito sentimentale, comunicativo, culturale. delle surreali favole di allora, praticamente non vi è traccia. La testimonianza confusa ma sincera dello smarrimento di quello che all’epoca era il ceto medio lascia il posto a una generale tendenza al divertissement, alla stravaganza pacchiana, al bombardamento di stimoli e rimandi a tratti contraddittori, che tendono a solleticare l’epidermide del lettore, a distrarlo senza soluzione di continuità. La trama semplice e divagante di un tempo è rimpiazzata da un groviglio di situazioni anche divertenti, ma fondamentalmente iperboliche e assai poco credibili. L’universo geek raccontato con grazia ed equilibrio mirabili in “Microservi” (ad oggi il vero titolo imperdibile dello scrittore canadese) è qui ridotto a una barzelletta che non fa nemmeno particolarmente ridere, una scenografia di cartapesta, un fondale privo di profondità, un pretesto più simbolico che altro, anche se svuotato di significati degni di una qualsiasi riflessione.

Poi certo, Coupland è sempre il solito fenomenale intrattenitore: infarcisce anche questo testo di dettagli grotteschi, curiosità assortite da fanatici della rete, spiccioli di weirdness colorata, tuffi a bomba nel grande e un po’ avvizzito calderone degli anni ottanta, con quell’immaginario condiviso che in maniera non troppo onesta ci pungola nel vivo, nostalgia canaglia. Non c’era internet ai tempi, mentre oggi siamo alla sovraesposizione. Un po’ come per l’inventiva di un autore che ha già raccontato questo tipo di attualità fino alla nausea – certe volte bene, certe volte meno – e ora si vede costretto a fare i salti mortali per non ripetersi, ricorre a qualche baracconata di troppo e sostanzialmente fallisce. Lo stratagemma di menzionare se stesso nella prima frase del libro, in qualità di residuato di una cultura pop bersagliata ma in fondo amatissima, poteva e doveva valere come campanello d’allarme. Alla quarta autocitazione, il narcisismometro tendeva ormai pericolosamente alla soglia di massima criticità. Ma ridursi a fare di sé un personaggio tra gli altri, ferocemente cinico poi (ma chi ci crede?), solo per ritagliarsi il più comodo degli alibi narrativi è un colpo davvero basso, duro da incassare, una trovata del tipo “raschiamo la morchia in fondo a questo barile” che dal buon Douglas non ci si aspettava. Tre stelle comunque, perché quest’uomo rimane un dannato, adorabile, fratello maggiore.

6.4/10

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Il Ladro di Gomme _Letture

       

Cosa è diventato Douglas Coupland in questi ultimi anni? Un artista pop fighetto. Uno che fa del presenzialismo sulle copertine, che flirta con attori e musicisti, che si cimenta con la televisione e il giornalismo alla moda, con sculture monumentali e personali nei musei di arte contemporanea, con la non-fiction e il design. Occasionalmente riesce ancora a trovare qualche margine per la sua attività di romanziere, anche se non può stupire la sostanziale mediocrità dei suoi libri recenti. Tra questi, uno dei meno peggio è sicuramente “Il Ladro di Gomme”, una delle poche occasioni in cui il canadese ha provato ad attualizzare certe formule vincenti della sua narrativa senza scadere nel grottesco. E’ anche l’opera che presenta i maggiori punti di contatto con il suo “Generazione X”, certo con l’originalità ridotta al lumicino di qualche pallido espediente metanarrativo. Di questi tempi, comunque, prendiamo e portiamo a casa.

Quarantenne, divorziato, la dolorosa morte di un figlio piccolo alle spalle, Roger Thorpe è ormai persuaso di essere giunto anzitempo al capolinea, in un teatro di “balordi negativi e falliti” dove il completo disastro sembra il pane quotidiano che accomuna tutti, condito da una sofferenza che è ovunque, insormontabile. Lavora come malinconico e anacronistico commesso in mezzo a un’orda di anonimi colleghi ragazzini presso Staples, megastore specializzato in articoli per ufficio, e si vede come un uomo senz’anima, pressoché invisibile agli altri, desideroso di fuggire da se stesso per quanto apparentemente incapace di una simile impresa. Sue uniche valvole di sfogo sono “Lo Stagno del Guanto”, assurdo romanzo sulla crisi della coppia borghese, oltre al diario in cui raccoglie riflessioni in ordine sparso sulla vita sdoppiando la propria prospettiva tra un canonico io narrante e lo sguardo solo immaginato della giovane compagna di lavoro Bethany (con la quale condivide senza saperlo una generalizzata sfiducia negli esseri umani). Quando la ragazza, giunta a conclusioni non troppo dissimili attraverso un sentiero se possibile ancor più cupo e nichilista, metterà per caso le mani su quel documento, sceglierà di stare al gioco e rispondere con una lettera dando il la a un carteggio sempre più liberatorio per entrambi. Ne verranno coinvolti anche DeeDee, madre della giovane, anch’essa gravata da enormi problemi di natura relazionale, e Joan, ex moglie dello stesso Roger, così da conferire un carattere polifonico al mosaico via via articolato e da suggerire al lettore le possibilità di una serie di svolte caratteriali che, di fatto, non troveranno effettivi riscontri nelle loro esistenze così zoppicanti.

Erano davvero buone le premesse di questo nuovo romanzo di Coupland, al di là dell’insistenza con cui l’autore ha optato per un ristretto cast di protagonisti al solito provati da ogni sorta di sventura, condannati a correre a velocità ridotta sui binari di una vita a dir poco imperfetta eppure non privati dell’eventualità di un riscatto inatteso, di un raggio di sole improvviso e bellissimo. In questo caso si rivela originale, soprattutto, la struttura narrativa (che è anche metanarrativa, dettaglio importante), un congegno magari caotico ma estremamente vitale, il cui autentico colpo di genio è rappresentato dagli inserti dell’opera grottesca partorita dall’inventiva di Roger, quasi una pièce teatrale su una coppia di tetri coniugi che sembrano trapiantati nell’attualità da un passato tendente alla mitologia (viene citato il matrimonio tra Elizabeth Taylor e Richard Burton come efficacissimo termine di riferimento), emblema dello sfiorire delle passioni e della bellezza. Finché le sorprese vengono gestite in maniera armonica e i personaggi principali restano attendibili nel loro quadro di moderato sconforto quotidiano, tutto funziona decisamente bene, assai meglio che in opere (degli stessi anni) stiracchiate e non troppo genuine come “Generazione A” o “Eleanor Rigby”. Poi però l’umanità, il tocco gentile e l’ottimismo di fondo per cui il canadese è noto prendono inverosimilmente il sopravvento: i personaggi si auto-rivoluzionano nel volgere di poche pagine (Bethany passa da dark girl a ragazzina acqua e sapone in maniera persino stucchevole), salvo poi tornare sui propri passi appena in tempo per la morale conclusiva: stravolgersi non ha senso, occorre accettarsi per come si è o, quantomeno, provare a convivere dignitosamente con se stessi.

Nella prima parte, ad ogni modo, uno dei migliori Coupland degli ultimi anni: lucido, divertente, con più di un lampo di genio e – ma non è una novità per lui – senza scadere nel cinismo di comodo à la Palahniuk. Il collage di narrazioni brevi che affiora dal ricco scambio di spunti tra i due protagonisti può ricordare lo storytelling romantico e decadente che animava “Generazione X”, l’opera per cui Douglas verrà più o meno giustamente ricordato. Non è un caso, allora, che Roger Thorpe somigli molto da vicino ai quasi trentenni di quel primo romanzo: invecchiato, sbiadito, intristito, promessa non mantenuta degli anni novanta in un presente davvero privo di bussole e prospettive. In tal senso resta indubbio come Coupland sappia ancora raccontare benissimo il nostro tempo e, con esso, il declino impietoso che ci abbruttisce, ogni giorno di più. Così per l’opaco antieroe, il cui massimo gesto di ribellione consiste nel rubare gomme da masticare sul posto di lavoro nel momento stesso in cui si fa licenziare, finendo per specchiarsi grazie a un pregevole gioco di specchi nel protagonista del testo di fantasia dello scrittore di successo Kyle Falconcrest, uno dei personaggi principali de “Lo Stagno del Guanto”. La vertigine dietro questa prospettiva-matrioska e ancor più l’ironia con cui si chiude il libro (che scopriremo essere tutt’intero il saggio di fine anno per uno squallido corso di scrittura creativa) valgono forse come sole ancore di salvezza degne di questo nome e assicurano a “Il ladro di gomme” una sufficienza comunque piena.

6.5/10

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Eleanor Rigby  _Letture

      

OK, giuro che per un po’ non scriverò più nulla a proposito di Douglas Coupland, salvo intercettare fortunosamente quel paio di titoli del suo catalogo che ancora mi mancano (‘Fidanzata in coma’, ‘Jpod’) e venirne in qualche modo travolto. Anche plausibile come prospettiva, non lo nego. Mi tratterrò dal parlarne ancora perché credo di aver detto proprio tutto su di lui e sulla sua arte. O meglio, lo pensavo fino a poco tempo fa, poi ho incrociato questo suo romanzo per molti versi anomalo – ‘Eleanor Rigby’ – e non citarlo almeno sommariamente mi è parso un peccato. E’ un libro diverso da tutti gli altri di questo adorabile talento canadese. Per una volta rinuncia ad immortalare il sentimento del tempo in un frammento di vita condivisa, per puntare il fuoco su un solo personaggio, pure così verosimile nella sua insulsa banalità esteriore. A rendere interessante il tutto pensa Coupland, donando a questa sgraziata antieroina una scintilla di formidabile carisma e umanità. Nulla di sbalorditivo verrebbe da dire, visto che questi sono i tipici tratti grazie ai quali le caratterizzazioni del Nostro riescono sempre così puntuali e toccanti. A fare sensazione questa volta è la sensibilità nitidissima, l’intelligenza con la quale questa viene delineata nei tanti monologhi del romanzo. Sembra davvero scritto da una donna ‘Eleanor Rigby’, e non è un particolare da poco. Poi certo, al solito ci si trova in corsa sulla giostra con la classica coda pelosa da acchiappare: il pedaggio è qualche lacrima, ci si incazza quando il giostraio sembra barare con trucchetti sleali ma alla fine si esce comunque con l’agognato trofeo, sazi e riconoscenti. Leggere di sentimenti senza ingombri sentimentalistici è sempre un discreto piacere.

Come la protagonista della celeberrima canzone dei Beatles, Elizabeth Dunn è una donna sola e serenamente rassegnata ad un’esistenza priva di guizzi emotivi e di affetti importanti. Un lavoro impiegatizio ben retribuito, una bella casa arredata senza il minimo gusto e pochi contatti con la cerchia dei familiari più stretti che ancora la tormentano a quasi quarant’anni: una madre vedova sbiellata da troppi sbalzi d’umore, una sorella vamp un po’ carogna, ed un fratello egoista e insoddisfatto, con insopportabili moglie e marmocchi al seguito. Incolore, sottilmente acida, affogata in una routine deprimente ma consapevole e non priva di autoironia, Liz è abilissima quando si tratta di rendersi invisibile al resto del mondo, inespressiva, ma anche quando aggrapparsi ai sogni ad occhi aperti diventa una necessità per convivere in maniera dignitosa con la propria irriducibile misantropia. Tra rari momenti di sentimentalismo ed autocommiserazione (come la spassosa maratona cinematografica delle lacrime) ed una bella rassegna di caustiche riflessioni sul vivere contemporaneo, la sua vita procede senza particolari rimpianti sui binari di un tranquillo isolamento fino al giorno in cui il destino irrompe con forza e le offre una carta importante. Decisa a lasciarsi finalmente andare alla corrente, con una curiosità non più frustrata a guidarne l’estro come nuova chiave di lettura sul reale, Liz raccoglie il passaggio della cometa Hale-Bopp come il presagio ed il pretesto giusti per ripartire, sbarazzarsi delle cattive idee, delle abitudini insensate e dell’eccessivo razionalismo. Fin qui si resta sul piano dei buoni propositi e dei divertenti flussi di coscienza imbastiti da un’eroina anomala e ben poco attraente, ma la vera scossa nelle vicende come nel taglio stesso del romanzo è offerta dall’incontro con la seconda cometa – meglio, una meteora – che scombina ogni piano e dona concretezza a quelle stesse fragili aspirazioni. Sarà determinante il fugace ma memorabile cataclisma sentimentale portato in dote dal ventenne Jeremy, figlio di un passato sepolto e piccolo guitto sfrontato e visionario, a riequilibrare ogni assetto nella narrazione e salvare la protagonista dalla cancrena di un destino crudele.

Maneggiando con fare disinvolto temi universali e consumati quali la solitudine, la malattia e la morte, Coupland si è esposto in ‘Eleanor Rigby’ a tutti i rischi del caso ma non ha sbagliato. Forse per la prima volta ha scelto di abbandonare i registri canonici del romanzo generazionale sul disincanto per dedicarsi con straordinaria delicatezza ad un solo personaggio e alla sua parabola umana, alla svolta che solo l’amore innato per un figlio può aprire in un cuore indurito dall’abbandono. Un terreno scivolosissimo quello dei sentimenti, affrontato però dallo scrittore canadese con un piglio ed un’umanità rigorosi, coinvolgenti e mai comodamente consolatori, evitando in modo opportuno ogni deriva pietista, le ovvie suggestioni del patetico ed affidandosi in via esclusiva alla sensibilità tutta femminile e all’intelligenza pulsante, non artefatta, di una protagonista enorme, squisitamente e finemente caratterizzata dalla prima all’ultima pagina. Ancora una volta non mancano i passaggi al limite dell’incredibile, gli sviluppi strampalati e le famiglie disfunzionali, ma sono soltanto piccoli fuochi d’artificio in una notte altrimenti più che verosimile, dove gioie e dolori arrivano alla spicciolata con la precisione dei frammenti di vita vera ed anche un lieto fine un po’ ingombrante è accolto e registrato dal lettore meno prevenuto senza particolari scompensi. Davvero eccellente la prima parte, quella con meno azione e più ricami psicologici a decorare una straordinaria sequenza alternata di flashback incisivi e miserie quotidiane, con la ciliegina macabra dei ricordi di un’estate lontana degna di ‘Stand By Me’. Seconda metà più sfilacciata e pirotecnica, tenuta in piedi con mestiere da Coupland e comunque più che godibile. Tra una lacrima estorta senza ricatti apparenti e diverse risate in alleggerimento, una lettura indubbiamente piacevole.

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Generazione A  _Letture

      

Comincia a diventare una vera impresa pescare in rete foto di volta in volta inedite di Douglas Coupland, ad accompagnare la recensione di turno dell’ennesimo suo romanzo letto. Allo stesso modo sembra stia diventando un’abitudine che le mie parole si mantengano ben lontane dai toni entusiasti con cui avevo celebrato le sue primissime letture. E’ solo una coincidenza che i suoi due titoli forse meno convincenti siano arrivati in sequenza, a strettissimo giro di posta. La prossima critica di un suo libro lo dimostrerà. Per questo ‘Generazione A’ rimane l’impressione di un lavoro pasticciato, con troppe idee mescolate in un intruglio letterario ammiccante ma un po’ banale (persino giovanilista, in maniera poco opportuna) in cui Coupland ha girato a vuoto proprio con quelli che sono i cavalli di battaglia del suo repertorio. La scrittura rimane vivace ed avvincente, le trovate buone non mancano come quel suo romanticismo pop da fine del mondo, però non bastano a fare di questo un grande romanzo. Davvero molto belle invece l’edizione e la copertina italiana per ISBN.

Servendosi della deformazione distopica sottilmente applicata ad una narrazione di taglio realista, confermando quasi mimeticamente il grosso delle attuali prospettive ma tingendo d’apocalisse le restanti tessere, Douglas Coupland racconta un 2020 mai davvero incredibile in cui le api sono soltanto un ricordo, l’impollinazione viene effettuata manualmente dagli addetti di una nuova industria, le coltivazioni di mais sono tutte transgeniche e miliardi di persone hanno sostituito il piacere solipsistico garantito dalla lettura con il perdurante intontimento di un nuovo farmaco che promette di far dimenticare qualsiasi ansia legata al futuro e alle relazioni con gli altri, di trasformare ogni individuo “da cane in gatto”. Quando alcuni giovani ai quattro angoli del globo vengono punti dagli insetti redivivi, si apre forse un piccolo margine alla speranza.
Ancora una volta Coupland riesce a dire cose non banali attraverso riflessioni ironiche e personali, ed ancora una volta si dimostra capace di cogliere lo spirito dei tempi nelle galoppanti contraddizioni della gioventù forse più indecifrabile (o meno incasellabile) di sempre, quella cui manca persino la vecchia arma del disincanto per guardare al domani con un minimo di coraggio. Raccontare l’universo dei cosiddetti nativi digitali era l’intento di massima. Analizzare con scrupolo ed humour la generazione nata dopo gli anni ottanta, quella che rappresenta in fondo la fine ed il superamento di ogni generazione convenzionalmente intesa per quel suo incarnare la negazione di qualsivoglia principio di comunità non virtuale o non mediata: drogata dal proprio insopprimibile e frenetico bisogno di tradurre tutto in comunicazione, pur non avendo più nulla di significativo da condividere o un ruolo pregnante da interpretare in un universo orientato in declino costante verso la barbarie (ipertecnologica, però), sola, privata della capacità di sognare in grande come in piccolo, anestetizzata, fredda, emotivamente non pervenuta.
Per centrare il bersaglio l’autore canadese intende fotografare il positivo di questa fosca realtà seguendo in maniera frenetica le soggettive impazzite dei suoi giovani eroi, luminose eccezioni alla regola, nel calvario caotico della loro cattura e della prigionia nelle mani di oscuri scienziati. Ad una prima parte assai leggera e vivace, che diverte ma non rinuncia ad inquietare, fa seguito il vero cuore ambizioso ma disordinato del romanzo, con i protagonisti raccolti su una remota isola dell’Alaska per inventare e raccontarsi storie a vicenda secondo un’esplicita prospettiva decameroniana, rendendo evidente come solo la forza del collettivo e della fantasia possano rappresentare la svolta in un mondo rassegnato all’individualismo più sterile. Le pagine che in linea teorica avrebbero dovuto essere la punta di diamante di questo romanzo finiscono col rappresentarne il tallone d’Achille: l’inserimento improvviso della lunga parabola affabulatoria risulta sconclusionato, forzato e pretestuoso, assai meno armonico delle fantastiche “favole della buonanotte” che punteggiavano di poesia i capitoli del vecchio ‘Generazione X’. C’è il consueto talento crudo e surreale del canadese a renderle quantomeno interessanti, alcuni passaggi grotteschi (l’appassionato elogio della lettura di ‘Pianeta Filetto’, oppure la fiaba dei supereroi costretti nella spirale della devianza criminale per pagarsi i Martini preparati da un barman d’eccezione come Yoda) sono ancora irresistibili, eppure concentrati tutti assieme in un blocco granitico quanto indigesto non riescono ad emanare il fascino sperato, spegnendosi in una critica anche abbastanza scontata sulle trappole delle nuove imperative forme di comunicazione. Il problema di‘Generazione A’, che pure ha più di uno spunto pregevole, sta nel fatto di non aver saputo resistere alla tentazione di mettere troppa carne sulla griglia. Tradito dalla valanga di riferimenti alla caleidoscopica cultura pop della web-age (tipo gli innumerevoli rimandi ai Simpson, per la prima volta – forse – persino stucchevoli) così come dallo sfavillante luccichio delle tante suggestioni armeggiate con leggerezza, il grande romanziere si impantana in un finale estremamente confusionario, insieme sbrigativo ed arzigogolato, e non può mascherare un po’ di appannamento. Per una volta, poi, è anche il lavoro sui personaggi a deludere, con troppi protagonisti in ballo e troppo blandamente caratterizzati anche per dare credito all’intento di rendere una realtà giovanile spersonalizzata e attratta dagli stereotipi. Dei cinque “piccoli Wonka”, voci critiche sui temi della globalizzazione, delle multinazionali, dell’imperialismo culturale a stelle e strisce, degli eccessi della virtualità, dei deliri e delle derive social, similissimi tra loro già in partenza e sovrapponibili quasi in tutto, l’unico ad emergere per profondità socio-psicologica è il cingalese Harj. Incarna l’intelligenza scettica, il buon senso e la dignità del sud del mondo al cospetto del grande Leviatano americano e del mito vuoto della libertà (“il fuggevole sogno dei Craig”), finendo tuttavia per essere connotato suo malgrado nel solco di un (involontario) politically correct che in un romanzo di Coupland non può non stonare. A giochi fatti, una buona occasione sciupata.

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La vita dopo Dio  _Letture

      

Era quasi inevitabile che, gira e rigira, mi capitasse per le mani un libro non troppo convincente di Douglas Coupland. Stupisce che l’opera in questione sia una di quelle più amate dal popolo dei suoi più affezionati lettori, quel ‘La vita dopo Dio’ che sin dal titolo pareva promettere spunti e considerazioni illuminanti come da bagaglio del romanziere canadese. La forma agile del diario con illustrazioni, tutto stream of consciousness e brucianti riflessioni, sembrava in effetti la più adatta a lasciare qua e là perle di cui far tesoro, un po’ come nello stile di ‘Generazione X’ ma con un taglio ancora più diretto, franco, lapidario. Effettivamente le pagine folgoranti non mancano, come il bel finale romantico à la ‘Into The Wild’ o alcuni passaggi sulla morte, sullo sgretolarsi dei legami affettivi e familiari, sulla solitudine. Però a prevalere, per una volta, è uno sconforto senza confini, una prospettiva molto meno “umanistica” rispetto agli standard di Coupland e quasi rassegnata ad un cinismo evidentemente non troppo nelle sue corde. Pur ben scritto, questo romanzo non mi ha conquistato. Anzi, mi ha lasciato un senso di vuoto impietoso e di tristezza che anche le sue opere meno ottimiste riuscivano sempre a scansare con lo humor gentile o l’empatia. Qui prevale piuttosto l’ironia incattivita dei senza speranza, uno sguardo più che legittimo sulla contemporaneità che non riesce a farsi amare fino in fondo. 

Quella dopo Dio è una vita senza più utopie e sogni bigger than life. Un’esistenza fatta di solitudini irriducibili, legami sfilacciati, giornate lente ed individui invariabilmente lontani dalla grazia, sempre sul punto di sbocciare tra i protagonisti di una storia fantastica eppure destinati a perdersi molto blandamente per strada, come gli animaletti raccontati alla figlia bambina nel viaggio delle prime pagine. E’ una vita scandita dallo scorrere inesorabile di un tempo che non porta mai con sé quanto promesso, che non si può fermare quando tutto diventa irreparabile e ci si è arresi alla propria incapacità di meravigliarsi, di emozionarsi, di elevarsi al di sopra della soglia dei comuni incubi condivisi e perfino di raccontare favole. Non c’è fatalismo questa volta, non ci sono consolazioni di sorta, nemmeno l’inferno. C’è spazio unicamente per la rassegnazione, laica ed estenuata, che può avere come unica catartica via d’uscita il ritorno alla beatitudine onesta, silenziosa e placentare della natura. Nella rinuncia a relazioni ormai svuotate di qualsiasi residua traccia di senso e bellezza, descritta dall’autore in questa sorta di breve diario della sconfitta, o album di istantanee bloccate nella mediocrità insipida di un eterno presente, si assiste senza troppo pathos ad un raffreddarsi delle speranze che lo scrittore canadese aveva lasciato in dote ai tre antieroi di ‘Generazione X’, al loro completo fallimento e alla deriva grottesca di idoli ormai vuoti come l’amore, l’amicizia, la famiglia, la solidarietà tra esseri umani. La struttura leggera di questi brevi racconti (con le loro illuminanti illustrazioni) contribuisce a rendere digeribile il libro in assoluto più triste e pessimista di Coupland, anche se la prospettiva volatile, inevitabilmente discontinua ed un po’ fumosa della narrazione non aiuta il lettore nelle sue riflessioni, finendo col togliere forza a quello che rimane così, nel migliore dei casi, solo un curioso mosaico di folgoranti bozzetti sul male di vivere contemporaneo. Certo lo humor non manca, si conferma anzi una componente chiave, ma non può da solo annullare quella netta sensazione di amarezza imperante che anima la soggettiva pensierosa di Scout su di sé e sugli altri. Emblematiche le sue parole, verso la fine: <<Forse abbiamo dovuto pagare un prezzo per la nostra vita scintillante, e il prezzo è stato l’incapacità di credere totalmente nell’amore. Al suo posto abbiamo ricevuto in dono una particolare forma di ironia che ha bruciato tutto quello con cui entravamo in contatto>>. E’ così anche per ‘La vita dopo Dio’: feroce a tratti, pungente, eppure troppo debole e disincantato. Apprezzabile, ma non certo il miglior Coupland.

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Miss Wyoming _Letture

      

Ancora Coupland e ancora un bel libro. So di ripetermi insistendo nel promuovere questo cinquantenne canadese, ma se su cinque romanzi mi sono poi trovato a commentare altrettante soddisfazioni è evidente che non sto parlando di un autore fra i tanti. Non è astruso, non è un intellettualoide da strapazzo e non smercia merdate new age di quelle che cannibalizzano le classifiche di vendita. Eppure è uno scrittore che potrebbe piacere tanto ai più esigenti quanto ai divoratori di bestseller. E’ sempre attualissimo, ha qualità affabulatorie che pescano a piene mani dai meccanismi narrativi del cinema – questo in particolare – non annoia ma è anche bravo a dissimulare certe licenze un po’ troppo iperboliche per quanto riguarda la realtà delle vicende trattate. Soprattutto diverte e commuove in egual misura, senza la pretesa di raccontare verità universali e senza il bieco proposito di lasciare sbalorditi ad ogni pagina, sempre e comunque. Dopo le prime venti o trenta pagine di ‘Miss Wyoming’ ho temuto seriamente di essermi imbattuto nella sua prima vaccata. Troppi luoghi comuni affastellati tutti assieme e troppe formule già viste e metabolizzate sul grande e sul piccolo schermo. Parevano le premesse per una commediola agrodolce alquanto insulsa, ma Coupland non si è smentito. Rimane un romanziere accessibile e mai veramente impegnativo, ma i suoi spunti si confermano intelligenti lasciando margini ampi per una riflessione su questi anni, oltre a quell’inconfondibile retrogusto amaro che tutela il lettore dalle facili consolazioni. Persino in casi come questo in cui si chiude con un lieto fine. La vita non è poi troppo diversa da quella delle figurine nei suoi romanzi, anche quando si raccontano una miss o un produttore caduti in disgrazia.

Volendosi fermare alle sempre accattivanti note di copertina, ‘Miss Wyoming’ sembrerebbe quasi identificarsi con lo scontato plot racchiuso nella premessa, il colpo di fulmine a dir poco cinematografico tra un produttore hollywoodiano di B movie in evidente crisi esistenziale ed una ex reginetta di bellezza che leggiamo esser stata anche ragazzina prodigio in svariate sitcom televisive, moglie di un cantante rock, superstite di un disastro aereo ed “enigma pubblico”. Un banalissimo incontro di solitudini quello tra John Johnson e Susan Colgate, che effettivamente impregna le prime dieci pagine del romanzo di luoghi comuni sulle starlet e sui marpioni degli Studios californiani e pare destinato a gettare le basi per l’ennesima melensa commediola romantica bilanciata da un’altrettanto risaputa critica al bel mondo dei red carpet, dei lustrini e delle feste a base di cocaina e superalcolici. Niente di più lontano in realtà dalle effettive intenzioni dell’autore, come dimostra la scelta di far “recitare” nuovamente assieme i due protagonisti soltanto nelle battute conclusive, quasi trecento pagine dopo. Certo l’idea di mantenere la macchina da presa in maniera costante su personaggi per forza di cose stereotipati ed apparentemente tutt’altro che simpatici sembra penalizzante e l’avvio mette in effetti alla prova il lettore meno indulgente, quello poco propenso a solidarizzare con la rassegnazione al declino di due antieroi così distanti dalla sua realtà. E’ solo un pretesto però. A compensare la scarsa originalità del soggetto pensa infatti il Fattore Coupland, ancora una volta una garanzia nel rendere l’intima umanità e la tristezza di due personaggi accomunati dalla natura di sopravvissuti (ad un’apocalisse aerea come ad un cocktail letale o ad una disastrosa esperienza di vagabondaggio sulla scia di Kerouac) e spogliati poco alla volta dei soliti pregiudizi, di quei cliché letterari adoperati ben oltre il lecito da altri autori (ben più celebrati del canadese e non altrettanto validi).

A lasciare realmente meravigliati in ‘Miss Wyoming’ è l’intreccio, il meccanismo perfetto che porta a svelare poco per volta attraverso flashback rivelatori i trascorsi separati ma affini di queste due anime inquiete, inframmezzandoli ad una narrazione sul presente che assume strada facendo i toni brillanti della commedia gialla. Un romanzo indubbiamente leggero ma non per questo meno intelligente rispetto a opere ritenute cruciali come ‘Generazione X’ o ‘Microservi’. Anche in questo caso non mancano i colpi bassi né quello sguardo unico ed impietoso sulle malattie derivate dal troppo benessere, sul vuoto pneumatico di un mondo corrotto ed immorale e sui troppi alibi dietro lo smarrimento esistenziale e dei sentimenti. Non è un caso che John e Susan siano legati anche da una fallimentare esperienza che vorrebbe profumare di redenzione, il tentativo-illusione di perdersi in una vita ai margini come estrema fuga dai condizionamenti opprimenti della propria vita: il sogno di rigenerazione e ravvedimento di due ingenui romantici, vittime di una solitudine in fondo non così soffocante perché mai veramente disperata, descritto da Coupland con affetto ma senza benevolenza assolutoria.

Nel dissotterrare le radici del malessere di Susan attraverso le istantanee allucinanti di tanti grotteschi concorsi di bellezza, si svela progressivamente il nodo insoluto del legame della protagonista con sua madre Marilyn, donna spregiudicata e insoddisfatta che l’ha costretta per anni a “scuotere il sedere davanti ad una parata infinita di concessionari d’auto e parrucchieri”. Anche questo nuovo repertorio di modelli e formule già ampiamente sviscerati dal cinema e dalla letteratura potrebbe sembrare l’espediente necessario per un’analisi inevitabilmente più facile e tiepida, ma ancora una volta Coupland non è interessato al cinismo di comodo sulle piccole miserie del quotidiano. Più che la critica sociale e di costume sulle deformità morbose di un mondo, di una filosofia di vita ed un credo (profondamente yankee) che non riconosce alcuna dignità agli sconfitti e alla cultura in generale, all’autore preme dare spazio ai personaggi, alla loro umanità vera dietro le maschere meschine e l’avidità spicciola. Così anche per Marilyn ogni tentazione manichea è bandita e la madre di Susan si ritaglia un ruolo da coprotagonista, diviene un nuovo attore cruciale piuttosto che una caricatura agevolmente demonizzata: non semplicemente il Mangiafuoco implacabile delle mille rassegne nazionali, né solo una campionessa in speculazioni emotive (c’è anche la TV del dolore, come potrebbe mancare?), ma piuttosto un mostro a sua volta vittima di mostri, una donna frustrata, feroce e commovente, emersa dalla barbarie col solo desiderio di assicurare a sua figlia un’esistenza meno infelice e tormentata della propria. Nella sapiente demolizione di tanta vacua mitologia moderna in formato tascabile, il romanziere lascia un piccolo spazio al lieto fine. Con buona pace dei detrattori di questo libro, è difficile sostenere che se ne potesse fare a meno.
Grazie al cielo Coupland non è Palahniuk.

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Generazione X                                              _Letture

    

Soltanto due mesi fa annunciavo da queste stesse pagine la mia intenzione di affrontare finalmente il romanzo più noto e celebrato di Douglas Coupland, quel ‘Generazione X’ che è stato spesso chiamato in causa (a sproposito) per vestire gli scomodi panni del documento generazionale. A lettura ultimata posso sostenere con una certa tranquillità che non si tratta di un capolavoro e che in fondo nemmeno aspira ad esserlo, che non è privo di quelle ingenuità tipiche degli esordi e che l’autore canadese ha saputo in seguito essere ancora più visionario, caustico e toccante. Nonostante questo ridimensionamento quasi demitizzante, l’opera prima di Coupland resta una lettura decisamente gradevole oltreché un lavoro di rilievo, per almeno due distinte ragioni. In primo luogo perché esprime già con una certa vivacità il talento di uno dei migliori narratori degli ultimi vent’anni, magari acerbo in qualche passaggio, magari dispersivo o non troppo bene a fuoco come per esempio in ‘Hey Nostradamus’. E poi perché rimane una fotografia impressionante di quello che siamo oggi noi trentenni, impressionante perché scattata nel 1991 eppure specchio fedele di ciò in cui l’occidente senza prospettive si sarebbe lentamente trasformato. Definirlo un romanzo profetico sarà forse banale, ma non vedo termini migliori di questo. Non è un inno generazionale, come si potrebbe immaginare senza averlo letto, perché non parla in positivo ma in negativo, perché da il colpo di grazia al vuoto pneumatico e alla volgarità degli anni ’80 senza avere in realtà alcun nuovo credo da promuovere in cambio. Parla di disorientamento e di disagio senza la pretesa di una verità assoluta da celebrare. Forse proprio in quella che è la migliore delle sue qualità, a più di vent’anni dalla pubblicazione, risiede il segreto di tanta longevità.

Affogati nel deserto di Palm Springs come testimoni silenziosi, apparentemente a loro agio in un transitorio rifugio dalla volgare mediocrità della loro precedente vita metropolitana, Andy, Dag e Claire sono trentenni in fuga da una realtà sempre meno vivibile e sempre più opprimente: da contesti familiari troppo perfetti o troppo imperfetti per essere ragionevolmente tollerati, dallo stress disumano di impieghi insignificanti, svolti di malavoglia e senza riconoscimenti di sorta, ma anche da pulsioni e condizionamenti socioculturali che spingono sempre più a confondere lo shopping con la creatività. L’intelligenza e la fantasia con cui ricamano le “favole della buonanotte” che improvvisano senza sosta sono le sole armi con le quali combattere una battaglia per l’autorealizzazione che non potrà esser vinta se non nella piena emancipazione dal fardello del loro benessere yankee, ovvero con quell’inevitabile esilio messicano che lascia aperto il finale alla speranza. L’esordio letterario del canadese Douglas Coupland rimane ad oggi la sua opera più conosciuta, pur non essendo forse la migliore. Il canto di una gioventù – quella dei shin jin rui, i “nuovi uomini” che mirano deliberatamente a nascondersi e a perdersi – condannata all’incomunicabilità e al disincanto in una società gretta e gerontocratica, dove il più beffardo paradosso è quello degli anziani ricconi californiani che dilapidano fortune in cerca di quella stessa giovinezza a suo tempo sacrificata agli idoli del denaro e del potere. E’ anche una struggente riflessione sulla fine di ogni vera speranza nell’avvenire, emblematicamente illustrata dalla rabbia silenziosa verso i propri genitori nelle parole che l’autore affida ad Andy, il protagonista-narratore: <<Mi viene voglia di dirgli che li invidio a morte per essere cresciuti in un mondo pulito e affrancati dal problema di un futuro senza-futuro. E poi mi verrebbe voglia di stritolarli per la spensieratezza con cui ce l’hanno lasciato nello stesso modo in cui ci avrebbero lasciato in regalo della biancheria sporca>>. Forse proprio per questa sua critica disordinata (ma mai veramente rancorosa) ‘Generazione X’ è stato promosso – suo malgrado, verrebbe da dire – al rango delle opere universali ed appunto generazionali, ma, più che come presunto romanzo-cartolina su una generazione e i suoi cliché, si apprezza soprattutto come testimonianza confusa (e proprio per questo sincera) sullo smarrimento ed il malessere del nuovo ceto medio, quello di cui la storia non patrocinerà mai le cause, quello che ha barattato la gioia vera con l’appagamento ed il conforto dei sentimenti con le comodità silenziose del benessere materiale. Considerazioni – quelle nascoste dallo scrittore canadese nelle divagazioni fantastiche dei suoi eroi come nelle notazioni finto-sociologiche nella cornice del testo – cui mancano grazie al cielo tanto la pretesa di infallibilità quanto il cinismo esilarante (?!) che immancabilmente le note di copertina attribuiscono al libro, ma che hanno avuto in compenso il merito di anticipare molte delle più rilevanti riflessioni delle scienze sociali degli ultimi due decenni, dalla radicale perdita di identità nei nonluoghi descritti da Marc Augé all’imporsi della precarietà come linea guida in ogni ambito dell’esistenza. A livello poetico o prettamente narrativo, Coupland ha saputo migliorarsi affinando la precisione e l’umanità del suo sguardo in alcune delle opere successive. Nelle pagine di ‘Generazione X’ restano comunque memorabili la cronaca impietosa della fine dei miti degli anni ’80 , dell’universo malato degli yuppies (indimenticabile il ritratto del fatuo ed egoista Tobias) ed almeno una delle numerose surreali favole di amore e morte qua e là disseminate, quella dell’astronauta Buck precipitato nell’eterno 1974 del pianeta Texlahoma.

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La Sacra Famiglia                                          _Letture

    

Ora penso di poterlo dire con una certa convinzione, visto che tre indizi dovrebbero poter costituire una prova fatta: Douglas Coupland è un signor autore. Mi era piaciuto molto ‘Hey Nostradamus!’, un libro romantico e sincero come mi è capitato di leggerne raramente. Mi ero stupito e non poco apprezzando ‘Microservi’, più ostico ed in apparenza freddo, ma in realtà illuminato dalla stessa viva malinconia e da un entusiasmo di fondo non ruffiano che ho ritrovato di recente in un paio di reportage ben fatti sugli anni ruggenti di uno Steve Jobs ancora “affamatissimo”. Questo ‘All Families are Psychotic’ ha confermato in pieno quelle qualità che rendono così pregevole lo stile del romanziere canadese. Agilità, ironia, umanità, merci molto più rare di quanto si pensi in ambito letterario, anche se a giudicare dalla generosità delle recensioni si sarebbe indotti a credere il contrario. Mi fa particolarmente piacere anche una semplice considerazione extra: i tre testi di Coupland che ho letto finora non sono certo i suoi più celebri, né quelli che solitamente vengono citati nelle riduttive biografie da terza di copertina. All’appello mancano tra gli altri ‘Generazione X’, ‘Generazione Shampoo’ e ‘Miss Wyoming’. Soprattutto nel caso del primo – celeberrimo – avevo più di un timore ad imbattermici, forse perché convinto che le lodi unanimi ed il riconosciuto valore “generazionale” si sarebbero tradotti per forza di cose in una delusione cocente. Non lo dico perché mi piaccia passare per snob – Dio me ne scampi –  ma proprio perché guardo sempre con un certo scetticismo ai cosiddetti fenomeni. Ora che ho conosciuto il Coupland meno celebrato, apprezzandolo, penso sia giunto il momento di affrontare anche quello che qualche tempo fa sembrava destinato a diventare un mostro sacro.

Sette giorni in Florida al seguito della sconclusionata famiglia Drummond, riunitasi controvoglia dopo lungo tempo per salutare la prima missione nello spazio dell’unico vero genio di casa, Sarah. L’eccezionale pretesto narrativo, scelto dall’autore come necessario punto di partenza per questo romanzo, diviene immediatamente l’epicentro di un sisma che fa deflagrare nevrosi e luoghi comuni della tipica famiglia americana, per poi arrivare a salvarne dopo mille bordate il genuino spirito di fondo. Con la Florida eletta a ideale teatro di ogni possibile paradosso americano, ed il parco di divertimenti Disney World scento come emblematica punta dell’iceberg, il canadese Coupland costruisce un impagabile compendio di iperboli contemporanee dove non manca davvero nulla: una costante finzione iperrealista, i deliri scientisti, il consumismo sfrenato, la religione fai da te, la pornografia telematica, la malattia e l’autocommiserazione. Una miriade di espedienti socio-psicologici sono chiamati a deporre in un pirotecnico processo alla famiglia in crisi, destinato a concludersi con l’inevitabile assoluzione perche i personaggi de ‘La sacra famiglia’ (orrido rimpiazzo del titolo originale) riescono comunque estremamente simpatici e perché in fondo – per (ir)responsabilità condivisa – “tutte le famiglie sono psicotiche”.
Wade, protagonista e “peggior nemico” di se stesso, è un quarantenne pragmatico ma scapestrato che ha deciso forse troppo tardi di mettere la testa a posto, fermamente convinto che la sua esistenza non sia altro che una commedia di cattivo gusto. Un destino analogo sembrerebbe riservato al fratello Bryan, eterno infante con valide aspirazioni alla catastrofe, e ai due genitori separati: Ted, donnaiolo rovinato da troppi abusi, e Janet, madre coraggio assai poco politically correct nonché cuore pulsante di una cerchia familiare decisamente meno malata di quanto il romanzo non faccia intendere ad una lettura superficiale. Visto che anche i personaggi di contorno funzionano a dovere e la trama si mantiene scoppiettante dalla prima all’ultima pagina, si può chiudere senza problemi un occhio sulla digressione verso il fantastico che nelle battute conclusive spinge le vicende verso l’happy end. Non per questo Coupland può essere tacciato di buonismo. Tutt’altro: questo libro è feroce il giusto, pungente, ma senza mai sbracare. Molto semplicemente il canadese conferma di essere uno di quegli autori che amano trovare il buono anche in ciò che buono non sembra, preferendo di gran lunga storie tribolate ed antieroi pieni zeppi di difetti rispetto ai soliti fasulli soggetti figli della carta carbone. <<A volte vorrei che fossimo come le famiglie degli spot TV. Capelli ben pettinati, atteggiamento ottimista e piccole vite perfette>>, lamenta qualcuno ad un certo punto. Vero, ma in un simile caso ‘La Sacra Famiglia’ si esaurirebbe in una noia mortale, indipendentemente dalla perizia e dalla verve del suo creatore. Un romanziere che, ancora una volta, riesce nel miracolo di una scrittura agilissima e per nulla banale, divertente nel modo in cui muove la propria critica (neanche tanto velata) al costume, ed insieme toccante nel presentare un punto di vista non scontato sul presente, nel raccontare in modo credibile (e leggero) i sentimenti evitando ogni facile tentazione sentimentalistica. Le prime folgoranti pagine lo testimoniano in maniera innegabile, così come quelle amarissime ambientate nel monumentale parco di divertimenti di Orlando: <<Questo posto è una specie di “spegnisogni” cosmico. Tutto ciò che ti da è la sensazione strisciante che tuo figlio nella vita non sarà mai altro che un cliente. Che il mondo intero si sta trasformando in un casinò>>. Magistrale. Gelidamente ironico, gentilmente aspro, senza mai scadere nel cinismo o nelle gratuite provocazioni alla Palahniuk. Per quanto personaggi e situazioni tendano ad una deformazione che va al di là del plausibile e siano scientemente spinti all’eccesso, conservano sempre il proprio fondo di verità, oltre che di attualità, e non si avverte mai la sensazione di una comoda (e trita) satira sociale né della caricaturizzazione grottesca.
In questo risiede il vero talento di Douglas Coupland.

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