Cabot Wright Ci Riprova    _letture

 

Ed ecco appunto Cabot Wright. Di nuovo, come in 'Malcolm', un personaggio ideato per restare nella memoria eppure astratto, vaporoso, eternamente sfuggente. Di nuovo una figura che è un concentrato di allusioni, un assortimento di sirene simboliche, e che si conferma alla prova dei fatti non troppo agevole da decifrare. E' sicuramente d'aiuto un finale in cui è resa evidente, nel protagonista di questo romanzo del 1965, la voce quasi da profeta di un James Purdy di molto in anticipo sui tempi nella tabella del disincanto. Proprio come era stato in 'Malcolm', raccontando per iperboli grottesche l'anticonformismo destinato a rivelarsi esplosivo solo qualche anno più tardi. Rispetto all'esordio tuttavia qui c'é molta più consapevolezza, un controllo della materia narrata – decisamente autobiografica visto il ruolo centrale del mondo editoriale e letterario di quegli anni – sufficente a preservarlo dal rischio di scivoloni nel grossolano e nel semplicistico. Non di una banale burla si tratta, ma di un affondo feroce nei confronti di una controcultura emersa con il trionfo del capitalismo e dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Più freddezza asettica, meno cuore rispetto ad un testo toccante come 'Il nipote', ma non meno sincerità dietro questo grido di dolore di un americano colto e disorientato. Gustoso per certi memorabili e spietati ritratti, convincente come analisi originale su temi spesso banalizzati quali l'identità, la parzialità di ogni prospettiva soggettiva, il ruolo dell'intellettuale nella società. Anche il titolo italiano è prezioso, racconta la volontà di riscatto di un personaggio in cerca di se stesso attraverso il giusto autore (decisamente meglio di quello della prima pubblicazione Einaudi, 'Un Ignobile Individuo', del tutto inopportuno). Ancora una volta, come negli altri due libri di Purdy che ho qui citato, risulta cruciale il ruolo dello scrivere, del fissare la (propria) verità su carta, del tramandarla. Intento vano, forse, in anni in cui la dimensione visuale ha preso il sopravvento su quella verbale – così come la televisione sulla radio o sulla stampa – e l'apparire ha schiantato la sostanza dell'essere. Vano, dicevo, ma pur sempre nobile ed in fondo benefico, soprattutto per chi scrive: per Malcolm, che vuole regalare alle proprie avventure il giusto spazio perché vengano ricordate; per Alma, alle prese con il memoriale del nipote per affrontare il dolore di una perdita e lasciarselo alle spalle; per Cabot, intento a definire una volta per tutte il proprio passato per potersi riscrivere un domani; ed anche per Purdy, che evidentemente amava così tanto la letteratura da metterla in discussione, per salvarla. 

Bernie Gladhart, omuncolo iper-nostalgico ritratto dal suo autore con delizioso accanimento, è un aspirante scrittore ambizioso quanto mediocre e di eloquenza “piuttosto limitata”. Per la moglie Carrie, porta dentro di sé un grande libro destinato al grande pubblico, ma a mancargli è l’argomento. E’ proprio lei a fornirgli un soggetto valido in Cabot Wright, eroe della cronaca nera di qualche anno prima, condannato alla galera per centinaia di stupri e da poco rilasciato dopo aver scontato la propria condanna. Incoraggiato dalla donna che ha già pronto un valido rimpiazzo amatorio, Bernie si trasferisce a Brooklyn – l’”ano del cosmo” – sulle tracce di Wright, lo incontra addirittura nei panni del tranquillo vicino di casa e scrive un ampio manoscritto rifacendosi agli articoli sulle riviste e alle cronache giudiziarie. Assunta dallo stesso editore di Gladhart e con il medesimo incarico, la sua conoscente Zoe Bickle propone all’ex maniaco di rielaborare a quattro mani il testo di Bernie. Lei mira a trarne un prodotto vendibile, mentre per lui è l’occasione buona e forse definitiva per fare chiarezza nel proprio nebuloso passato e ritrovarcisi, alla fine (“Ho sentito raccontare la mia vita tante di quelle volte che mi pare la storia di un altro”). Attraverso le interazioni di questi improvvisati collaboratori, veniamo a conoscenza delle incredibili vicende della vita di Cabot: un matrimonio fallimentare, la stanchezza cronica, il misterioso trattamento medico/psichiatrico intrapreso, la sua repentina metamorfosi in criminale dai modi garbati e poi un autentico tourbillon di avvenimenti tanto assurdi quanto sconvolgenti, vissuti dal protagonista con impressionante distacco. Nei resoconti Wright pare davvero aver condotto la propria esistenza sotto anestesia, privato sempre più di ogni interesse proprio come tutti gli altri rispettabili cittadini americani, uomini e donne che “odono, ma non intendono” e “vedono, ma l’immagine è sfocata”, mentre la pioggia “cade sugli schermi delle loro TV”. L’incontro tra i due sembra dare comunque buoni frutti. Insieme romanzano in maniera febbrile il materiale raccolto da un Bernie ormai sempre più disperato ed avulso dalla realtà. Zoe si esalta scoprendosi romanziera ed aggiunge colore alla fredda cronaca, Cabot ritrova smalto poco per volta vedendo prendere forma una versione dei fatti autentica dietro il proprio mito: “un sedimento finissimo delle vaghe, assurde, frustranti, incongruenti minuzie di una vita”. Il re degli editori di New York, da sempre più che entusiasta del progetto, boccia però senza appelli ‘Macchia Indelebile’ dopo averlo proposto preventivamente al gotha della critica. Un responso negativo dovuto non tanto al tema della violenza carnale (considerato addirittura fuori moda) bensì al fatto che nel racconto il protagonista si imbatta solo ed esclusivamente nei rappresentanti di un’America poco edificante – ad esser generosi – e si venga imbottiti di “anormalità e pensieri corrosivi”. Fantastica la giustificazione di Purdy a proposito di questo fallimento: il libro è definito oscuro, scoraggiante, inquietante, sordido ed assolutamente privo di qualsivoglia richiamo per il lettore in quanto non soltanto sporco ma anche troppo ben scritto, quindi difficile, senza la minima traccia di una comoda attrattiva. Nonostante il rifiuto o forse proprio grazie ad esso, alla fine Cabot Wright si dice guarito dalla stanchezza, dalla noia e dall’assenza di emotività. Dopo aver solamente ridacchiato per anni, ha imparato a ridere. Dopo aver raccontato a Zoe la propria storia, è finalmente libero di dimenticarsela, di dimenticare se stesso e di iniziare una nuova avventura ai margini della società, da homeless.

Colpisce come nell’amarissimo finale, dove si sostiene per bocca di Zoe che “non vale la pena essere uno scrittore in un posto e in un’epoca come questi”, lo stupratore seriale Cabot wright appaia nella sua purezza priva di cattiveria o cinismo quasi alla stregua di un gentiluomo vecchio stampo, che fa simpatia perché non agisce per secondi fini e diventa suo malgrado oggetto delle attenzioni ben più morbose di una società nuova ed ipocrita, di una borghesia spietata, ignorante ed arrivista che non ha costruito la propria fortuna ma si è limitata ad ereditarla. E così il libro di Purdy diventa un pamphlet feroce sull’inutilità dello scrivere, della letteratura, in un contesto in cui falsità e mediocrità propinate a tutto campo soprattutto dal mezzo televisivo definiscono l’agenda culturale e condizionano nel profondo il modo di pensare (e di essere) di un’intera nazione. E’ questo nuovo grande spaccato sull’insensibilità della sazia ed annoiata America alto borghese degli anni sessanta a colpire nel segno: il necrologio prematuro di una “nazione di meduse congelate”, dove “a nessuno piace più nulla”, dove si violenta per noia, dove conta solo fare soldi ed apparire eternamente belli e giovani (memorabile nella sua miseria il personaggio della vacua Goldie). Che i limitati riscontri di critica e commerciali dei suoi primi romanzi abbiano accentuato la piega pessimista dello sguardo di Purdy è cosa pressoché certa, ma in ‘Cabot Wright ci riprova’ il disincanto appare comunque totale: lo si intuisce dall’alone quasi terapeutico con cui vengono presentati per il protagonista i “Sermoni” del vecchio Warburton, deliri xenofobi ma anche canto del cigno di una classe sociale autoritaria eppure rigorosa, fondata su solidi valori. Emerge qui il senso di disorientamento in cui è facile riconoscere la modernità di un romanzo che Purdy scrisse in anni di cambiamenti cruciali, non solo sul piano sociale e culturale ma anche in termini di dinamiche della comunicazione, nella trasformazione dei cittadini in consumatori, nella radicale falsificazione e nella mercificazione di realtà dolosamente artefatte, gli albori della cosiddetta fiction descritti con impressionante e profetica visionarietà. L’elite letteraria newyorkese non gradì l’attacco, forse perché fu costretta ad identificarsi nel grande editore senza scrupoli Princeton Keith e nel suo inesorabile fallimento. Anche lui, comunque, almeno una perla la regala: “la maggior parte dei libri viene al mondo facendo meno rumore di un bambino nato morto”. Una critica che non si può certo rivolgere a Purdy ed alla prosa cordialmente spietata di un romanzo attualissimo come ‘Cabot Wright ci riprova’.

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  1. Refugio
    giugno 8, 2018 at 8:51 am (6 anni ago)

    Thanks, it’s very informative

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