Tony Manero

L’uccello che caga nel proprio nido è un uccello del malaugurio’.

Raùl Peralta è un piccolo e miserabile uomo condannato alla mediocrità. Fosse solo questa la sua croce, non correrebbe alcuna rilevante differenza tra lui e il pulviscolo umano che attraversa le sue giornate nelle strade sporche e minacciose della Santiago del 1978, in pieno regime di Pinochet. Ma Raùl Peralta è qualcosa in più di un semplice reietto cileno di mezza età, indifferente agli altri e alla vita stessa. E’ un assassino, un pazzo scatenato. La sua condanna è ben più grave di un semplice destino anonimo, perché ne fa la vittima senza speranza di un’ossesione atroce. Consumato dalla patina luccicante di un frammento dell’‘American Dream’, Raùl trascorre le sue giornate squallide nell’illusione di essere il protagonista de ‘La Febbre del Sabato Sera’, la pellicola vista in continuazione nel desolato cinema del suo quartiere. Non John Travolta, ma Tony Manero, il personaggio. Sua ragione di vita diventa la vittoria in un contest televisivo dedicato proprio agli emuli di quel nuovo eroe americano. Una vittoria che vale ben più dell’elettrodomestico messo in palio dall’emittente, è il riconoscimento stesso di un senso e di un valore alla propria esistenza, per quanto distorto da una mente destinata ad andare alla deriva.

 

‘Tony Manero’ sta tutto nella cronaca neorealista di pochi giorni nella vita di questo grottesco individuo, ballerino fallito ma adorato dalla sua cerchia di anime sventurate, pedinato in modo incalzante dall’occhio curioso ed impietoso di Pablo Larraìn. Un punto di vista che non nasconde la brutalità anche se si ferma sempre al momento giusto, per non indugiare nel morboso. Uno sguardo compiaciuto nel mostrare allo spettatore lo spirito di ostinata conservazione che il Peralta sfodera a difesa del suo delirante progetto, senza scrupoli, senza limite alcuno. ‘Tony Manero’ è il racconto di questo disperato aggrapparsi all’illusione e alla propria mania, con una determinazione gelida e feroce che va anche oltre il finale, lasciando intuire la punizione per l’indegno usurpatore del proprio incontestabile trionfo. Alfredo Castro interpreta l’inconcludente devianza di Raùl con una prova di bravura ermetica, senza concedere nemmeno un frammento di spazio alla simpatia o a qualsivoglia possibilità di identificazione da parte di chi guarda. E allo stesso modo è bravo Larraìn a trattenersi dall’esplicita condanna del suo pessimo eroe, lasciato libero di agire e giudicato unicamente dalla fredda cronaca delle sue malefatte, un po’ come la Rosetta dei Dardenne.

 

Larraìn ha chiarito in un’intervista di aver voluto costruire una semplice ma efficace metafora del Cile nei primi anni della dittatura. Missione brillantemente riuscita, viene da dire. L’ambiente e il contesto in cui i patetici personaggi del film si muovono funziona perfettamente in tal senso, un po’ come la Bucarest buia e gelida di ‘4 Mesi, 3 Settimane, 2 Giorni’. E’ squallido, sporco, ostile, polveroso. Stesso discorso vale per il protagonista, anch’esso specchio formidabile di quel particolare clima storico, politico e sociale. Cupo, tenebroso, senza margini di redenzione, Raùl riflette l’amoralità e l’impunità del regime stesso, pare nutrirsi della stessa barbara violenza che la polizia politica esercita indiscriminatamente per le vie di Santiago ed è accecato dal medesimo delirio, dalla ridicola pretesa di mantenere il controllo su tutto. Ogni presunto ostacolo che viene a frapporsi inconsapevolmente  tra lui e la celebrazione del suo (dubbio) talento diventa solo l’ultimo dei fastidi in una lunga lista di minacce da rimuovere. Una trave di legno marcio può costargli una gamba nello snervante allenamento che lo separa dalla gloria e deve essere fracassata con l’intero pavimento; un rivale più giovane e agghindato a dovere può rappresentare uno smacco tremendo e va ridotto all’impotenza con il più laido degli spregi; persino la sostituzione del film idolatrato con uno ritenuto analogo solo perché “ci lavora lo stesso signore” (‘Grease’) vale una vendetta adeguata all’insulto.

 

Così, di tappa in tappa, l’ossessione devastante consuma Raùl e tutti coloro che hanno la sventura di incrociare le proprie esistenze con la sua: le tre donne disperate che si illudono di amarlo, ed in realtà trascinano il loro stanco vivere sotto lo scacco di un’analoga malattia, oltre alle vittime che il caso pone sulla strada diretta che dovrebbe condurre Raùl alla coronazione del sogno (la povera vecchia con la televisione a colori, l’avido robivecchi che vuole fare la cresta sugli orridi cocci di vetro per la pista di Raùl, il giovane e insulso trionfatore del contest). Allo stesso modo è divertente seguire le tristi peregrinazioni del Peralta per i vicoli di Santiago e il suo ingegnarsi per replicare l’aura fantastica del suo idolo: il pallone coi frammenti di specchio incollati sopra o le luci dell’improvvisata sala da ballo sono trovate fantastiche, aggiungono un tocco di colore e humor. Eppure non tradiscono la sensazione di desolazione che il film genera e continuamente richiama ed amplifica. La desolazione di un piccolo uomo incompiuto anche nella sfera sessuale, dove potrebbe avere ben più di quanto meriti effettivamente ma che preferisce chiudersi nel culto sfrenato, malato e onanistico di sé, meritandosi il lapidario ‘Tu sei morto dentro’ rivoltogli da una delle sue sfiorite spasimanti, una condanna a tutti gli effetti.

Un film raggelante, disturbante e crudo dedicato all’alienazione e all’incomunicabilità che spesso nascono dalla più fosca delle miserie umane.

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