Month: aprile 2009

Devi…o non Devi?

 

Non troppo originale l’esordio dei Devi, trio pop-rock di stanza nel New Jersey. Difficile trovare motivi di grande interesse nel loro ‘Get Free’, per quanto la prova sia discretamente godibile e la voce della leader, la cantante e chitarrista Debra che ammicca in copertina, si riveli comunque apprezzabile. Il mio scetticismo non riguarda la qualità in sè di queste undici canzoni, quanto piuttosto l’urgenza di questa nuova proposta, tutto sommato prossima allo zero. Ascoltando il pezzo introduttivo, il singolone di lancio ‘Another Day’, potreste comprendere meglio ciò che intendo. Sembra una canzone delle Hole direttamente da ‘Celebrity Skin’. Forse la miglior canzone che Courtney Love (non) ha scritto da quei tempi lontanissimi. Ecco, è un brano pimpante e ben costruito, cattivo solo di facciata per strizzare l’occhio alle teenager incazzate col mondo, coi suoi riff elementari ma indubbiamente efficaci e la voce della ragazza in primo piano. Sarebbe tutto a posto, non fosse che questa canzone bussa alla nostra porta con una dozzina buona di anni di ritardo. Se ‘Get Free’ fosse impostato interamente in questo modo sarebbe da cestinare senza pensarci troppo su ma fortuna ha voluto che questi ragazzi si siano affidati per la produzione ad una vecchia volpe come Anthony Krizan, già chitarrista degli Spin Doctors, il che ha rappresentato per il suono della band una garanzia sufficiente in termini di varietà. Già il secondo brano, ‘When It Comes Down’, sterza verso un’atmosfera più meditativa, non malvagia, che a qualcuno ha fatto venire in mente la Sheryl Crow meno bolsa mentre a me ricorda la Neko Case battagliera (e da classifica) dell’ultimo disco, paragone che, senza dubbio, gioca a tutto favore dei Devi e della loro cantante. Abbastanza in là nella tracklist, ‘Welcome To The Boneyard’ e ‘Get Free’ confermano che la dimensione più pacata ed intensa è quella che meglio si addice al gruppo: congeniale alla bella Debra per far risaltare in profondità la sua voce, idonea anche quanto a scrittura per colorare di sfumature le canzoni e risultare più credibili, meno caricaturali.

Questa è la direzione in cui i Devi dovrebbero lavorare per il prossimo passo discografico, sempre che ce ne sia uno (io propendo per il sì visto che il materiale artistico a disposizione è grezzo ma interessante). Attualmente, a parte i titoli citati e una cover di Young (‘The Needle and The Damage Done’, sì, come al solito) controllata ma personale, eseguita con una certa passione, non si può negare che i risultati di questo lavoro abbiano il fiato un po’ corto: il compromesso tra rock pompato (‘Demon in The Sack’) e addolcimenti indigesti (‘Runaway’), gli aromi orientali più improbabili (scelti per infiocchettare il pop leggero di ‘Howl at The Moon’) e qualche rallentamento orchestrato ad arte (ma irrimediabilmente piatto, vedi ‘Love That Lasts’) rafforzano l’impressione di un prodotto abbastanza scontato pur se in confezione lussuosa, con qualche chance nei circuiti mainstream più che in quelli alternativi. Se ne cercate la (drammatica) conferma definitiva, skippate i pezzi peggiori e saltate direttamente alla quinta traccia, l’assurda ed emblematica ‘C21H23NO3’: potrebbe quasi regalarvi un accenno di sorriso, col suo basso sinuoso, le sue percussioni morbide e quel ritmo vagamente funky…potrebbe, perché il clima curioso si spegne con l’ennesima svolta verso il rock da MTV e la freschezza torna ad essere infettata dal forte sapore di postdatato. Lo conferma anche l’innocua ‘All That I Need’: questo disco è scaduto alla fine del ’97 e in quell’anno avrebbe potuto fare sfracelli. Oggi le cose sarebbero diverse ma se ci rifacciamo al principio per cui tutto ritorna…

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Dalla Portland che non ti aspetti…

 

Quante volte abbiamo sentito parlare di Portland in riferimento a tanta bella musica più o meno indipendente? Sta diventando il centro di una vera e propria scena, uno dei nuovi punti di riferimento per l’indie ed il folk di questi ultimi anni. Quando ho letto che anche Chriss Sutherland è di Portland non ci ho neanche fatto caso, per i motivi di cui sopra. In questo contesto, l’ennesima rivelazione del folk statunitense casca a fagiolo e sembra perfettamente inserito, ultima di tante efficaci sensazioni venute fuori dall’Oregon. E invece no, un dettaglio sfugge. E’ Portland sì, ma quella che sta dall’altra parte, quella del Maine. Allora ecco, i conti sembrano non tornare affatto. Da dove nasce questa schietta vena cantautoriale, febbrile ed infettata da un’anima che diremmo profondamente latina? Spostato un po’ a sorpresa sulla costa atlantica, Chriss Sutherland assume i più vividi contorni del fulmine a ciel sereno. Andiamo con ordine. Questo ‘Worried Love’, secondo album in proprio dopo alcune esperienze di gruppo che lo hanno visto in campo addirittura per la Young God del grande Michael Gira, parte con ‘Flaking The Hands’ all’insegna di un folk croccante ed appassionato, che integra una trama di chitarra alquanto serrata ad un’altra più aggraziata, mescolando anche la voce calda e un po’ ruvida del cantastorie ad una femminile che ingentilisce il tutto. E’ una formula che ritroveremo di continuo anche nelle tracce seguenti e che rappresenta al meglio l’umore e il carisma di questo artista, tra fragranze sixties west coast che fanno tanto Tim Buckley ed un’indole caparbia e molto autentica. ‘What Are We Gonna Do Now?’ insiste con la medesima impostazione ma ha un aspetto ancora più classico e Dylaniano: pianoforte a supporto, un’elettrica che illumina e lascia il segno anche senza farsi lancinante, l’intatta capacità di conquistare al primo ascolto (e non è da tutti) grazie ad un bel respiro, alla franchezza e all’assenza di urticanti sovrastrutture intellettualistiche. Non ci sono i belletti formali fasulli che spesso i folksinger emergenti adottano strizzando l’occhio al pubblico più facile e meno esigente. Prevale una spontaneità che è sufficiente per non far pesare questi oltre sei minuti, rendendoli leggeri e traducendoli in un bel trasporto per chi ci si abbandona, senza rischi di prolissità.


Le premesse sono dunque molto positive e  ‘New Morning Pine St.’ aggiunge un ulteriore tassello al mosaico della benemerenza di questo sconosciuto Sutherland, virando verso fraseggi ancora più scarni e personali, bagnati da uno spleen comunque sincero e non incline al compromesso con il maledettismo di comodo. Ci sta simpatico Chriss, uno che porta le sue canzoni senza curarsi troppo di come vanno il mondo e le mode. Potrà piacere agli estimatori di Devendra e della New Weird America tutta, non fosse che il barbuto del Maine se ne sta per conto suo al di là di etichette e movimenti forse già sfumati prima di nascere seriamente, prima di poter rappresentare qualcosa più che il mero esercizio di una critica a corto di fantasia. Il disco parrebbe a questo punto aver assunto una propria fisionomia ben delineata ma con ‘Volando Voy‘ arriva uno scossone inatteso: un’immersione completa nell’ambito della canzone messicana, con risultati che vanno ben al di là della trita estetizzazione rilasciando un’interpretazione vera, sentita, caldissima. Al primo ascolto mi sono venuti in mente i Gipsy Kings, e qui ripropongo il nome in mancanza di riferimenti più colti in quell’ambito, data la mia assoluta ignoranza. Chriss è decisamente rustico, perfino un po’ sguaiato, ma si cala nella parte con ammirevole convinzione evitando scivoloni caricaturali e senza lasciar trasparire il minimo calo di tensione. Una meraviglia anche in termini di credibilità (non era facile), quasi a voler far intendere l’esistenza di una seconda anima musicale, sin qui tenuta ben celata all’orecchio dell’ascoltatore per rendere più completa e potente la sorpresa. Qualche minuto più avanti la pacata ‘El Tiempo’ ripropone il folksinger nei panni del charro emotivo e viscerale, confermando la sua preziosa versatilità anche con soluzioni meno accese e più eleganti.

Il resto di ‘Worried Love’ mostra un autore più controllato e capace di limitarsi evitando coloriture espressive eccessive, lasciando valide garanzie sulla propria accresciuta maturità dopo appena due album a proprio nome: ‘Desde Alicant’ ricalca nella sostanza i il ritmo caliente dei brani iniziali ma ha in più alcuni congrui interventi corali che gli consentono di rifiatare; ‘My Mind Blues III’ è più intima, senza fronzoli, semplificata forse, un pelo meno coinvolgente (e più convenzionale), ma ci consegna un’immagine inedita e più rassicurante del cantautore. Prima della chiusura, rileviamo sugli scudi ‘Jolie Holland’ e ‘Without Much Time’. La prima è un intenso omaggio all’omonima cantante, realizzato miscelando in maniera indovinata acustico ed elettrico, ricorrendo ad un assolo alcolico e bislacco, spargendo buoni riverberi sullo sfondo e rendendo in tal modo più viva ed inquieta la canzone (la voce fa fatica qua e là ma in fondo conferma la natura genuina del progetto); la seconda è il più felice compromesso dell’intero disco, una cartolina potente ma non macchiettistica, classica ma personalissima, squillante e meditativa al tempo stesso. ‘Hey Justice’, in coda, è l’unico passo falso dell’album, un lunghissimo e spigliato fraseggio preparatorio che non esplode come da attese ma si smorza un poco per volta evaporando, senza rilasciare veramente tutta la propria tensione. Una piccola delusione forse, un passaggio irrisolto. Ma fosse stata l’ennesima grande intuizione di ‘Worried Love’ non staremmo semplicemente qui a parlare di Chriss Sutherland come del promettente nome nuovo dalla Portland che non ti aspetti.

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Volcano! @ Spazio211

09-04-2009

  

Ennesimo appuntamento imperdibile in questa entusiasmante stagione allo Spazio. I Volcano! confermano pienamente fama e aspettative di folli tarantolati a cavallo tra i generi, ed una libertà espressiva che cattura cifre ed umori dai più svariati indirizzi (noise, punk, psych, post-rock) convogliandoli in una formula quanto mai genuina e poco decifrabile. Non ha senso che io aggiunga particolari considerazioni a quelle che Iuri ha espresso con eccelsa sintesi nella recensione che trovate cliccando sulla seconda fotografia. Di mio riporto il rammarico per un’acustica che ha un po’ disinnescato la prova del trio dell’Illinois, se non nell’impatto (che è stato assolutamente efficace) nella varietà di sfumature che abbiamo avuto modo di cogliere. Un problema che si era già colto nell’ultimo live visto allo Spazio (Barzin, ma in quel caso le tonalita soffuse hanno limitato la perdita) e che stavolta non ha consentito di apprezzare a pieno le screziature della voce di Aaron With, uno dei valori aggiunti di questo gruppo: echii yorkiani e buckleyiani (il Jeff meno calligrafico, quello dei live e delle ‘Sketches’) che si sono appena intuiti o poco più. Rimarchevole invece l’istrionismo degli altri due: la seria predisposizione ludica di Mark Cartwright, con tutto il suo armamentario di diavolerie elettroniche, e l’abilità non comune del finto nerd Sam Scranton, il solo che mi ricordi di aver visto suonare contemporaneamente vibrafono e batteria, eccezion fatta per il tizio autistico che suonava qualunque cosa accompagnando Carla Bozulich. Gran bel concerto comunque, e poco importa per la scarsa rappresentanza di pezzi dal loro miglior disco, ‘Beautiful Seizure’. P.S.: il nuovo singolo è fantastico.

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My Maudlin Career

 

Seconda recensione per Monthly Music, in un mese decisamente meno ricco di uscite rispetto a marzo. Era praticamente già scritto che accogliessi a braccia aperte la nuova fatica di Richard Swift ma, ascoltando un paio di volte quell'album, ho capito immediatamente che sarebbe stato molto più gradito da Tonino che non dal sottoscritto. E infatti…lui ha apprezzato e ne parlerà, mentre io ho asciugato la sottilissima slabbrata di delusione e me lo sono goduto con parsimonia, abbassando di una tacca e mezza le mie pretese dai livelli celesti di 'Dressed Up for the Letdown'. Avrò modo in futuro di elencare pregi e difetti di questa curiosa e bislacca prova di Swift, una spruzzata pop sulle sue classiche canzoni folk e certi gustosi eccessi di spassoso svacco glam (compreso un falsetto finale strepitoso), ma ora devo spiegare il motivo per cui ho ripiegato sui Camera Obscura. Non avevo voglia di uscire matto alla ricerca del disco del mese, cosa che infatti 'My Maudlin Career' è ben lungi dall'essere, per cui ho scelto pigramente di buttarmi sull'usato garantito. Avevo grandi aspettative sul nuovo disco degli scozzesi ed in parte resteranno tradite. Dopo il buon esordio Belleandsebastianiano di 'Biggest Bluest Hi-Fi', la mirabile rifinitura di 'Underachievers, Please Try Harder', e la meravigliosa svolta pop del sontuoso 'Let's Get Out of This Country', pensavo ad una nuova rivoluzione (chessò, elettronica, oppure rock) e invece la band di Glasgow ha deciso come me di non rischiare, tirando fuori una specie di compromesso stilistico tra gli ultimi due LP: meno svolazzi di violini rispetto al precedente e qualche briciola di contagioso intimismo in più, ripreso pari pari dai primi lavori (ad esempio in 'Away With Murder', che sembra una outtake di 'Underachievers'). Il mood romantico è enfatizzato da una Tracyanne letteralmente incantevole, con una voce magica come quasi mai in passato, eppure questo disco non mi ha emozionato come gli altri a marchio Camera Obscura.

Sicuramente è frutto dell'assenza di quell'effetto sorpresa che fino ad oggi era stato sempre replicato per miracolo. La band si è come fermata a rifiatare, guardandosi alle spalle e riproponendo una selezione riarrangiata di alcune tra le sue melodie più riuscite. Questo è l'aspetto più evidente di 'My Maudlin Career' e mi è sembrato giusto sottolinearlo, vista la sfacciata ostinazione con cui la band ha pescato senza limiti dal proprio repertorio. E' eclatante. Il modo in cui la title track cita un singolo peraltro recente come 'If Looks Could Kill' è sbalorditivo: un netto rallentamento e qualche tocco etereo come a impacchettare una nuova canzone, trasognata e affettata. No miei cari, chi vi ama non può cascarci. Questo caso mi indurrebbe a scrivere di "plagio" non fosse che i saccheggiati sono loro stessi. Però è ugualmente da bacchettata sulle mani. Altrove il gioco è più coperto e meno parossistico e resta una piacevole occupazione la caccia alla somiglianza: il ritmo di 'I Love My Jean' vampirizzato dalla coloratissima 'Swans', la neanche troppo vecchia 'Country Mile' incastonata con scarsa abilità mimetica dentro 'Other Towns and Cities', la spumeggiante indole di 'Lyoid' imitata un po' goffamente da 'Honey in the sun'. Certo la qualità resta alta, anche molto. Tracyanne è come una droga per me, e questi giochetti, queste autocitazioni occultate, si perdonano senza fatica. E' un disco leggero, gradevolissimo, adatto a contrastare il caldo che torna a farsi molesto. Un elogio della malinconia, che è quasi un'infezione trascinante dentro questi undici brani. Si resta affascinati, come sempre, anche se questa volta si conosce perfettamente la chiave che aziona il meccanismo. L'apice nostalgico arriva con la struggente 'Careless Love', ma anche il resto è all'altezza. Spunteranno nuovi estimatori, c'è da scommetterci, ma per la prossima uscita chiediamo qualche rischio o un briciolo di cattiveria in più.

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Il suono del cuore che si spezza

 

Assurde certe cose che ascolto oggi e mi piacciono subito alla follia. Non assurde di per sé, ma messe a confronto con alcuni dischi che ho consumato in un passato non proprio remoto. Mi avessero anticipato che arrivato a questo punto sarei andato (quasi) in brodo di giuggiole per un piccolo album gospel-folk (ehh?), contaminato da soul, jazz e country, avrei chiesto dove poter firmare per l’eutanasia culturale al compimento del trentesimo anno di vita, e pace. In effetti i gusti cambiano con l’andar del tempo, ultimamente mi rendo conto di quanto sia vera questa cosa. ‘Oh Maria’ di Jon-Rae Fletcher ha avuto la relativa fortuna di venir fuori per il sottoscritto al momento giusto, data la mia cresciuta tolleranza nei confronti di tutto il genere folk e, in particolare, delle sue propaggini più meditative e meno scartavetrate. Certo l’urgenza dell’autore per questo suo nuovo lavoro non era legata in alcun modo al sottoscritto bensì al proprio vissuto di songwriter, segnato recentemente da spostamenti geografici, fratture a livello sentimentale e analoghe rotture nella sfera lavorativa (la sua band, The Rivers, si è sciolta da pochissimo). Tuttavia è un disco che calza a pennello per quelli come me, oggi. Indipendentemente dalle astrazioni e dalle sovrastrutture passionali conferite dal fruitore entusiasta, questo di Jon-Rae Fletcher è un grandissimo album, non ci sono dubbi.

 

Sin dall’inizio, Fletcher punta a chiarire orientamenti e prospettive sonore rinunciando agli orpelli più ricercati, proponendo senza equivoci la propria musica come uno stato emotivo più che come il risultato di un freddo lavoro di scrittura. Non si fa fatica a riconoscere le parentele con artisti a lui molto vicini nel tempo e nello spazio (quindi i vari Barzin, Great Lake Swimmers, ecc…) ma l’identificazione è solo il punto di partenza di un viaggio emozionante. L’apertura di ‘Maria’ porta in tavola tutti gli ingredienti che troveremo in seguito quasi sublimati da un uso sempre più caldo e appassionato: una chitarra acustica ordinaria e limitata quasi unicamente alla dimensione ritmica; un’elettrica agra, che lavora in sottofondo e con parsimonia; un pianoforte brillante ma che sembra voler giocare a nascondino; una tromba che regala di continuo piccoli acquerelli umorali; una voce che inizia in sordina e può ricordare il cantante degli Interpol prestato al folk. Il sapore è quello di uno spiritual ben a fuoco, senza cali di intensità. ‘City Lights’ riprende lo schema aggiungendo un elemento: la qualità dell’interprete. Jon-Rae è romantico, vellutato, un folksinger vecchio stampo che sa donare enfasi alla grazia e coinvolgere con parti corali assai curate pur senza mai forzare i toni, anzi, restando incisivo nella pacatezza. ‘The Story’ e ‘No Dancing’ raccontano un altro pezzo di lui. Il primo è un rapido passaggio country, una parentesi eseguita in maniera convincente e con belle sfumature di chitarra. La seconda si muove elegiaca e delicata su analoghi terreni, limpida a livello vocale, precisa sul piano musicale (preziosissimo il pianoforte discreto) e tutt’altro che caricaturale.

 

Questo sarebbe già molto. Abbastanza per inquadrare un buon disco in termini di equilibrio dell’esecuzione. Eppure con ‘My Hands’ l’album prende decisamente un’altra direzione facendosi più imprevedibile, leggero ed entusiasmante. E’ un pezzo trascinante, pianoforte e tromba in primissimo piano, con una voce che inizia ad ostentare sicurezza e carattere ad ogni frangente. Non c’è spocchia, prevale la disinvoltura nel proporre qualcosa di tradizionale in modo divertente. Non molti sono capaci di fare qualcosa di simile con uguale naturalezza. A lasciare veramente meravigliati è il fatto che quest’ottimo passaggio sia  subito incalzato da un terzetto di brani semplicemente splendidi, più umbratili ma non meno intensi ed emozionanti. ‘Big Talker’, ‘Downtown’ e ‘The Sound’ restano subito impresse, anche non trattandosi in realtà di pur sapidi bozzetti easy listening. Grandi canzoni, toccanti e poco elaborate, franche, sincere, palpitanti. La seconda, forse la più convincente di tutto il disco, rappresenta benissimo il suo autore: cantata con anima, fermezza, classe e sentimento, è assolutamente strepitosa. Le parole migliori sono affidate però alla terza, autentico climax di quello che non è sbagliato definire un concept album sulla fine di un amore: ‘This is the sound, the sound of the heart breaking in two’.

 

Esperienze dolorose esorcizzate per ricominciare, in un miracolo di genuina emotività che colpisce nel segno con un materiale che altri renderebbero banalissimo, e che Jon-Rae riesce invece a trasformare in un magico stream of consciousness, la sua confessione per noi. Ancora due tracce e non ci si ferma. In questa seconda parte Fletcher sembra aver lanciato un incantesimo sull’ascoltatore per tenere alta la soglia dello stupore. ‘The Hill’ conferma il crescendo emozionale dell’album verso la risoluzione della vicenda cantata, raggiungendo forse l’acmè dell’intensità e nascondendo tutta la potenza di cui il cantautore è capace dietro una veste raccolta: l’ennesima dimostrazione di come ‘Oh Maria’ sia molto meno scontato di quanto potrebbe far credere e sappia scaldare il cuore di chi ne scopre un poco per volta il fascino, prendendolo per mano e portandolo via. La title track arriva dopo trentacinque minuti a chiudere il cerchio. La vampa elettrica è solo un bagliore che brucia sullo sfondo ed anima in profondità, rischiarandola, questa magnifica reprise. Senza alcun timore di venire smentiti, uno dei migliori dischi folk dell’anno.

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