Month: luglio 2010

Heavy Trash @ Spazio211

20-01-2010

 

Nella conclusione del report dedicato al live di inizio anno degli Heavy Trash provavo ad abbozzare con tono scherzoso (ma serietà di fondo) quella che potrebbe essere una valida scommessa per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il signor Jon Spencer e le sue mirabolanti imprese da operaio del rock indipendente. In anni di reunion sempre più inflazionate e sempre meno necessarie – mi chiedevo – dovrà trascorrere ancora molto tempo prima di ritrovare su un palco i vecchi progetti dimenticati dal leader maximo (ed intestatario unico) della Blues Explosion? In fin dei conti con lui non è mai neanche troppo corretto parlare di scioglimento, visto che il termine congelamento rende sicuramente con maggior fedeltà l’idea di iato nelle produzioni delle sue numerose band. Con i Boss Hog almeno è proprio così che è andata: quasi dieci anni di oblio in fondo al freezer dei propri stimoli, quindi l’improvvisa riscoperta con un tour robusto in giro per il mondo ed un gruppo tale e quale a quello che era stato riposto nel domopak, con buona pace dei tanti che prefiguravano un fiasco ostinandosi a liquidare quella formazione come il personale capriccio della signora Spencer. Proprio la buona riuscita di quel tardivo rilancio mi ha spinto ad azzardare la spontanea provocazione relativa ai Pussy Galore, agli Honeymoon Killers e ad un loro non così improbabile ritorno, nonostante gli anni che ci separano dalle prove meno remote siano una ventina in entrambi i casi. Potrebbe sembrare assurda anche solo l’idea ma quando si parla di Jon Spencer non si può mai mettere la mano nemmeno sulla fiammella di un cerino. Chi l’avrebbe detto che i Boss Hog sarebbero tornati in pista in così buona forma? E chi avrebbe potuto immaginare che Jon avrebbe parcheggiato così a lungo la sua creatura più nota, quella che porta il suo stesso nome, sfornando nel frattempo addirittura tre dischi con il side project revivalista intitolato Heavy Trash? Forse non ci avete fatto caso ma ‘Damage’, ultimo album della JSBX, è vecchio di sei anni e sei anni nel mondo della musica alternativa equivalgono ad un paio di ere geologiche terrestri. Non che questo rappresenti un problema in realtà: di tour il Nostro continua a farne in continuazione, anche con la sua band principale, ed è per tale motivo che diventa lecito aspettarsi una grossa sorpresa per i prossimi anni. Con la moglie ha già ripreso a dividere il palco, convincere anche gli altri potrebbe essere meno complicato del previsto: lasciati in soffitta i Royal Trux e messa da parte la folle collaborazione con Ian Svenonius nei Weird War, Neil Hagerty prosegue per conto suo sotto le spoglie di Howling Hex, abbastanza dimenticato, per cui è plausibile che tornare da protagonista nelle news di Pitchfork e di mille altri webmagazine non gli faccia proprio schifo. Con Julia Cafritz potrebbe essere meno agevole ma è anche vero che l’aver levato dalla naftalina se stessa e le Free Kitten potrebbe aver rappresentato per lei il migliore degli incoraggiamenti. Per il resto un batterista alla buona lo si trova come si vuole, per cui rilancio con fare spavaldo la validità di quella stramba scommessa rimandandovi, qualora vi andasse di leggere il report cui questo spazio era in teoria dedicato, al pezzo stesso (potete accedervi passando dalla seconda foto in alto, come sempre). Due parole in proposito le spendo comunque volentieri, e sono di elogio schietto nei confronti di Jon: una star vera che indossa con umiltà genuina i panni dell’onesto musicista e, perché no, dell’antidivo. Senza il minimo dubbio Spencer è uno che ama profondamente il proprio mestiere, vivendolo come una vocazione da gestire senza risparmiarsi, con assoluta passione. L’ho seguito dal vivo con la Blues Explosion, con i Boss Hog ed appunto nella parentesi garage-rockabilly degli Heavy Trash (condivisa – bisogna riconoscerlo – con una spalla eccellente come Matt Verta-Ray): bene, questa impressione è stata il vero comune denominatore di tre esperienze live altrimenti assai diverse tra loro ed è proprio questo dettaglio cruciale a convincermi che ogni suo concerto resta in fondo imperdibile, pure quelli apparentemente di più dubbio interesse o meno in sintonia con i tempi e le mode. Anche per questo, forse, non vedo l’ora che Jon tiri fuori l’ennesima band defunta dal polveroso sepolcro degli anni e la porti un po’ con sé a spasso per il mondo.
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Genio in sordina _parte prima

 

Ci avete fatto caso? Una delle parole più abusate (quasi sempre a sproposito) dalla critica musicale è "genio". Dovessimo fidarci degli aggettivi delle riviste o dei siti specializzati non potremmo che limitarci a constatare che viviamo in una realtà dorata di genialità a buon mercato. Un disco riuscito, un singolo ben sponsorizzato, un nuovo autore che potrà fregiarsi della generosa credenziale. Anche se crederlo è quanto di più incoraggiante, sappiamo tutti che il mondo reale sforna fenomeni con molta più parsimonia di quanto non racconti la stampa e di quanto noi stessi, in fin dei conti, vorremmo sperare. Scriviamo degli artisti che abbiamo scovato magari fortunosamente, tendiamo ad esaltarci non appena incrociamo un album che transita sulla nostra stessa lunghezza d’onda, ma per eccessivo e sincero entusiasmo finiamo con l’incappare nel medesimo errore che altri commettono scientemente, per puro interesse promozionale. I geni veri non si incontrano facilmente. Viene da dubitare che autori di questa risma esistano ancora o comunque creino la loro arte sugli stessi standard aurei che li hanno consacrati, in passato. Capita invece di imbattersi, non così di rado, in musicisti e cantautori che del genio esprimono solo determinate caratteristiche, magari a sprazzi, non potendo quindi essere annoverati nella categoria dei prodigi autentici. Spesso e volentieri sono proprio loro gli artisti più interessanti: quelli imperfetti, quelli nascosti, quelli col silenziatore. Capaci di tirare fuori dal cilindro un coniglio di tanto in tanto, estemporaneo intervallo tra un paio d’atti di assoluta ordinarietà, oppure di coltivare in disparte un talento non proprio comune, di giocarci a nascondino come non volendosi mai prendere troppo sul serio. L’ultimo in ordine di tempo di cui ho potuto saggiare i pregi si chiama James Milne, non ha ancora trent’anni ed è uno dei giovani cardini dell’assai promettente scena indiepop neozelandese, pur vivendo da qualche anno a Londra e pur avendo manifestato legittime esigenze di sprovincializzazione artistica. Me lo aveva segnalato il leader dei Brunettes, Jonathan Bree, nell’intervista realizzata tempo fa per Indie-rock.it: proprio con Bree e la Mansfield Milne ha mosso i primi passi della sua carriera, ma evidentemente la subalternità gli era di peso. Appena ha potuto ha provato a cimentarsi con materiale proprio, sia da solista (dietro il moniker Lawrence Arabia) che al timone di una vera e propria band, i Reduction Agents. Sono stati sufficienti un paio di LP, più un terzo pubblicato alla fine del 2009, a convincere delle sue qualità artisti di prima grandezza come Will Sheff o Feist, il primo cooptandolo come turnista negli Okkervil River, la seconda facendogli aprire tutte le date di un recente tour europeo. Ora, qui non voglio convincere nessuno sul fatto che James Milne sia un genio, anche perché io per primo non lo credo minimamente. Però non mi dispiace fare un po’ di pubblicità ad uno di quei talenti minori (vedi Richard Swift, Kelley Stoltz e Jim Noir) che, lontani dai riflettori, si stanno cimentando in una personale riscrittura della tradizione pop con risultati quanto meno apprezzabili. L’excursus che per comodità sarà diviso in tre tappe – una per ogni LP pubblicato – non può che partire dal già emblematico esordio del progetto solista Lawrence Arabia, un album eponimo uscito in contemporanea per la propria etichetta (Honorary Bedouin) e per quella di Bree (Lil’ Chief) nell’aprile del 2006. 

 

Se cercaste un’immediata conferma alla mia riflessione in merito al patologico basso profilo di Milne, considerate che il disco in questione comincia con una sequenza di ben quattro filler, pure di ottima fattura, e altri ne dissemina via via sul tragitto, dall’esilissimo divertissement di ‘Everyone Had Dinner With Rabbits’ al frammento scapigliato di ‘The Kinds of Feelings That Happen on Summer Beaches’. Se bastano gli episodi iniziali a chiarire come l’inclinazione di questa prima prova sia decisamente folky-cantautorale, non si può liquidare la tendenza al bozzettismo senza rimarcare la gentilezza, la semplicità miracolosa e quella sottile atemporalità che preservano anche riempitivi senza grosse pretese (quale è ad esempio il brano d’apertura, ‘The Mystery Lair’) dall’impietosa etichetta del banale. Milne si offre poco per volta, adottando cadenze sornione ed un distacco che è tutta apparenza. Servendosi magari di un tappeto di elettronica morbida e prudente (‘Half The Right Size’), Lawrence Arabia si ingegna per “addormentare il gioco” ma è comunque insinuante e sa colpire al momento giusto con la sua voce ammaliante e malandrina, prima che i riverberi della sua elettrica gli diano il cambio e prendano il sopravvento. Anche in questo atteggiamento traspare una certa propensione di stile per un dandismo che é tanto sofisticato quanto polveroso (e lontano dalla grazia), abbracciando una sorta di maniera noir a fin di bene, con sincera passione per il genere e appena qualche debito di troppo nei confronti di Bowie (’Thistle Tends To Stingle’). Quando concede campo libero alla propria vena decadente, James approda a esiti incoraggianti. ‘Talk About Good Times’ è discreta, romantica, anacronistica, perfetta per gli ideali titoli di coda di un film ancora da girare: il classico colpo ad effetto che lascia il segno anche senza ricorrere a soluzioni appariscenti, vera virtù che è solo dei talentuosi. A rimorchio di questo gioiellino di crooning consumato ecco ‘Bloody Shins’, dove il fare estenuato, la malinconia di grana grossa e un lennonismo imperante riescono come per magia a non scadere nel fiacco sentimentalismo che per tanti sarebbe stata una sicura falla. L’obliquità è una delle migliori carte nel songwriting di Milne, e questo esordio la porta all’attenzione dell’ascoltatore in tante occasioni. ‘Hold Us Together With Sutures’ è sicuramente una delle migliori, nonché l’episodio più sfuggente di tutto il disco: il canto si fa più ruvido, lamentoso, stropicciato (quasi un miagolio), mentre le deviazioni arrivano dai curiosi inserti notturni che enfatizzano il potenziale melodico emozionando in un finale elettrico sempre più esasperato e crepuscolare. Stupiscono nell’album gli accostamenti anomali sul piano sonoro, disposti quasi con indifferente coraggio dall’autore, fondendo soffusi ricami acustici, sottili campionamenti ed occasionali aromi psichedelici. E’ la follia gentile di Lawrence Arabia, sempre misuratissimo nel suggerire alternative bislacche alle soluzioni di comodo o agli effettacci eclatanti che per molti basterebbero a compensare i vuoti pneumatici di una creatività lacunosa. Nel finale questa tendenza produce alcuni dei suoi frutti più gustosi, tra melodie traballanti che si conficcano in testa al primo giro di giostra, radiose ed irresistibili schiarite sixties (‘I Hope The Pope Makes You a Saint’) e buone impennate di asprigna emotività (‘The Thinnest Air’). Non occorre dilungarsi in esempi lampanti per rivelare la felice inclinazione pop di Milne, un accenno di quella dote veramente notevole che il neozelandese saprà poi sviluppare con maggiore autorevolezza nella seconda prova e nell’uscita di gruppo con i Reduction Agents: sono sufficienti le ombre beatlesiane (l’eco di ‘Revolution’ è dietro l’angolo) di ‘Business Planning’, evidentemente qualcosa più di un’acerba dichiarazione di intenti. Un po’ come tutto quest’esordio, peraltro.

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Múm @ Spazio211

1-12-2009

 

Incredibile come le attese della vigilia possano influenzare la nostra opinione su un concerto che si è visto, in maniera anche piuttosto radicale. Il caso del recente tour degli islandesi Múm è stato a suo modo emblematico di questo principio, e mi fa piacere riportarlo con un paio di esempi illuminanti, entrambi evidentemente sinceri. Da un lato il mio report relativo all’esibizione torinese del primo dicembre scorso (ci si accede dalla seconda foto qui in alto), dall’altro quello dell’amico Andrea "Cacca" D’Avolio in merito al live milanese di appena due sere prima (il link è nell’immagine in fondo al post). Due concerti distinti, è vero, ma questo sembra poco più che un dettaglio vista la statura indiscussa dei musicisti in questione. Che il giudizio di Cacca in proposito sia assolutamente fidato e motivato non lo sostengo per il solo fatto di conoscere e condividere in buona parte i gusti e le opinioni del "collega", ma proprio perché al centro della sua cronaca ha posto la componente emozionale, quei cruciali riferimenti alla "pelle d’oca", senza tradire alcun pregiudizio riguardo all’ambito prettamente estetico/musicale. Un commento inattaccabile quindi, e tanto più solido se si considera che Cacca si avvicina all’identikit del fan di questa fantastica compagine islandese assai più del sottoscritto, anche perché io li ho seguiti in passato un po’ a spizzichi e bocconi e spesso forse troppo tiepidamente. Questo per ribadire come siano le aspettative che portiamo con noi nei locali per concerti a condizionanarci in modo tanto determinante e a riplasmare quanto si manifesta davanti ai nostri occhi in un modo piuttosto che nell’altro. Lui ha vestito con ogni probabilità i panni dell’estimatore scettico, poco convinto dall’ultima svolta della band, mentre io ho avuto la fortuna, credo, di andare allo Spazio con la soglia delle attese prossima allo zero. Questo deve aver pesato considerevolmente favorendo Örvar Smárason e Silla Gísladóttir nella loro impresa di conquista nei miei confronti, un’avanzata a tutto campo che non ha incontrato da parte mia particolari resistenze. Cacca non ha vissuto l’analogo evento allo stesso modo perché aspettava i Múm al varco e in un certo senso ha trovato conferme alla sua idea: non una condanna sui meriti e sulla qualità dei musicisti, da lui peraltro ribaditi ed evidenziati con una certa dovizia, quanto la concretizzazione di un timore legato a quella svolta sonora che io ho vissuto con un certo interesse solo perché non ero mai andato pazzo per le origini glitch del gruppo venuto dal nord. Ha ragione lui a sostenere che si tratta di una virata operata più che altro per legittime ragioni commerciali. Ha ragione a sconfessare la critica che ha bollato questa nuova fase come salutare reinvenzione folk della propria identità: è una ricostruzione sì, anche piuttosto marcata, ma verso quell’indiepop che in Scandinavia non ha mai smesso di andar di moda. Ora, non so come la veda il buon Cacca su questo particolare approdo, personalmente io vado pazzo al momento per un indirizzo estetico che trovo fresco, emozionante ed anche raffinato come pochi altri al mondo. Il concerto di Torino ci si è collocato senza la minima esitazione e questo spiega il perché di un resoconto tanto entusiastico da parte mia. Entusiastico ma non più vero di quello di Cacca per il live milanese. Una lettura in sequenza di entrambi gli articoli può descrivere forse con la massima completezza possibile quella ricca gamma di umori e sensazioni che piccoli eventi come un concerto indie si portano sempre inevitabilmente dietro, al di là della (e in fondo grazie alla) parzialità del nostro personalissimo punto di vista sulla realtà.

 

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