Month: aprile 2013

Monthlymusic.it is 50!        

 

Mi concedo il lusso di una breve parentesi autocelebrativa. Mentre su Ondarock sto prendendo il giro e le cose sembrano funzionare bene, Monthlymusic.it festeggia in silenzio i suoi primi cinquanta mesi di vita. Trattandosi di una webzine il cui il calendario è tutto giocato sull’alternarsi dei mesi ed essendo partita nella più assoluta sordina ormai quattro anni fa, senza pretese e con una sua incoscienza bella, questo suo piccolo traguardo mi sembra degno di una pur minima sottolineatura. Ne approfitto allora per tracciare un consuntivo in merito a una collaborazione che, per quanto mi riguarda, è cresciuta e non poco d’importanza con l’andar del tempo. Forse è sufficiente la lunghezza dei pezzi a chiarirlo più di tanti aggettivi. In principio l’organizzatore del progetto aveva imposto tra i vincoli insindacabili alla partecipazione un limite numerico alle battute di ogni recensione. Non ricordo con precisione di quante parole si trattasse ma mi basta tornare alle prime cose che ho scritto per il sito per ritrovarmi schiacciato dalla necessità dei tagli, peggio di un qualsiasi ministro dell’economia di questi tempi. La sintesi, devo dire, è una virtù. Non ho problemi a riconoscerlo, è qualcosa che ammiro in un testo. Ma se si parla di dischi trovo non meno gratificante che tutti gli spunti interessanti siano messi opportunamente in rilievo e vengano a galla. Questo spiega perché, pur esercitandomi con costanza nella nobile arte della stringatezza (e Twitter nella sua semplicità “basica” è una piacevole palestra), ho insistito affinché la tenaglia del “conteggio parole” venisse almeno in parte smorzata. A leggere le mie ultime critiche sulla webzine si potrebbe pensare che la vecchia regola sia poi stata abbandonata del tutto, ma non è così. Per mia natura soffro di incontinenza da idee e riflessioni, tendo a tracimare, a buttare nel calderone tutto ciò che ritengo valido o interessante. Nonostante ciò, anche questi articoletti sono frutto di una sostanziale disciplina. Ricchi, ma a modo loro morigerati. Qualcuno che si è trovato uno dei miei link tra le scatole ha poi liquidato il lavoro con l’acronimo TMI, costringendomi ad una repentina verifica in rete e alla scoperta che, evidentemente, l’accuratezza di quanto si racconta non è più annoverata tra le voci positive nella “stampa” di oggi. La frenesia e la fruizione iperparcellizzata non mi preoccupano. Se quello che leggo è apprezzabile, la sua lunghezza passa in secondo piano. Se invece è solo di slogan e teaser che vado in cerca, la rete ne è piena e un posto, più o meno, varrà l’altro. Senza rancori, senza eccessiva fidelizzazione, e non è neppure detto che questo sia un male. Tornando allo specifico dei miei pezzi su Monthlymusic, mi preme ribadire che di quest’allegra brigata io resto (felicemente) la pecora nera. Gli altri autori accendono l’immaginazione e la fanno vagare libera, tra slanci poetici e legittime ambizioni. Io preferisco ancora parlare in concreto dei dischi scelti di volta in volta, e per farlo ho trovato comunque una piacevole soluzione di compromesso: descrivere con la necessaria dovizia di particolari un album e il suo autore ma farlo nella maniera meno convenzionale o ingessata possibile. Raccontando storie servendomi della raccolta di canzoni a mo’ di pretesto. Romanzando, forse anche oltre il lecito. Affabulando, quando mi riesce di aprire il baule dei trucchi. Per i miei articoli “professionali” c’è il rigore, il volto ultra-autorevole della webzine no. 1, Ondarock. Per gli altri, quelli in eterna licenza, quelli volutamente ludici e svagati, MM rimane invece un diversivo gustoso e in fondo necessario: nonostante i loro eccessi, i bizantinismi e le tante (forse troppe) coloriture, sono particolarmente legato a queste cinquanta recensioni “anomale”. Anche se spesso non omaggiano proprio dei capolavori. I soggetti di volta in volta trascinati in scena sono più significativi per come appaiono che non per come siano in realtà, ecco perché mi tocca ragionare sempre secondo la logica dell’appeal letterario che un determinato artista o band può evocare piuttosto che in base all’effettivo valore della sua opera. Anche in questo senso, nella scuderia MM faccio eccezione. Poi certo, quando uno è messo con le spalle al muro da un disco deve per forza adattarsi. Anche io quindi ho ceduto alle sirene della pura narrazione, in un paio di occasioni. Una volta perché l’album in questione – ‘Embryonic’ dei Flaming Lips – non era praticamente raccontabile in forma canonica e richiedeva comunque il sostegno della fantasia e dello stream of consciousness. La seconda, più che altro, per stanchezza da parte mia: un lavoro deludente dei Belle & Sebastian il cui titolo, ‘Write About Love’, mi ha spinto a costruire una sorta di dialogo o polifonia immaginaria servendomi di una miriade di frammenti sull’amore contenuti nei loro testi,  lungo tutta la carriera. Con risultati certo più originali che soddisfacenti (e sono ancora autoindulgente). Bene o male, comunque, cinquanta mesi sono passati (volati?) e essere qui a tirare le somme fa anche piacere. Non senza compiacimento, resto nella schiera dei critici musicali dilettanti e abbraccio l’etichetta con lo stesso entusiasmo del primo giorno. I pezzi su MM saranno con ogni probabilità i meno letti tra le ormai centinaia che ho scritto e gettato nei mulinelli della rete a partire dal 2006. Forse però sono anche quelli che mi somigliano di più: strabordanti, contemplativi e sempre, immancabilmente, imperfetti.

 




 

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Between the Times and the Tides

       

Chissà che fine faranno i Sonic Youth? Ogni tanto capita di pensarci, segno che la loro assenza pesa. Quanto durerà quella “end for a while” menzionata da Lee Ranaldo nel laconico comunicato uscito ormai quasi due anni fa, a rimorchio dell’annuncio sulla separazione dei coniugi Moore dopo ventisette anni di matrimonio. Sembravano la coppia perfetta Kim e Thurston, inossidabili e inseparabili nella vita e nell’arte, ché parlare di lavoro sembra brutto. E’ stato bello crederci, più che altro, e non si può negare l’effetto doccia fredda per chi seguiva la band con affetto da tanti anni. Nell’attesa di sapere cosa ne sarà di un gruppo comunque importante, anche negli ultimi lustri di buon mestiere e “contenimento”, con l’odiosa parola hiatus che suona beffarda mentre le pagine wikipedia ancora parlano di loro al presente, non resta che cercare tutto il buono possibile nelle avventure soliste dei quattro alfieri della (neanche più troppo) gioventù sonica. Mentre della Gordon – che tra un paio di settimane compirà (ma ci crede qualcuno?) sessant’anni –  sembrano essersi perse le tracce, anche se è plausibile che non sia proprio la classica separata inconsolabile quanto piuttosto la stessa mattacchiona di sempre, persa in chissà quale fumoso e inascoltabile progetto sperimentale, gli altri tre hanno tutti battuto qualche colpo. Lo ha da poco fatto Thurston Moore, al comando di una nuova formazione chiamata Chelsea Light Moving. Esperienza abbastanza deludente, per quanto mi riguarda. Al di là della stima sconfinata che provo per lui, resto perplesso da certe sue recenti collaborazioni. L’idea di proporre una versione unplugged della band regina, per giunta nella sua incarnazione più movimentata e spigolosa, non mi aveva esattamente elettrizzato negli episodi di tale fatta sui suoi ultimi lavori in solitaria, forse perché non stravedo per la compagnia di giro da cui si fa affiancare negli ultimi tempi (non mi piace ad esempio Samara Lubelski come non mi piacciono i Charalambides e l’influenza free folk esercitata sul Nostro già da un po’). Un disco insomma senza infamia e senza lode questo suo esordio eponimo, indeciso tra intarsi acustici fiacchi, rumorismo senza slanci e ipotesi giovanilistiche assolutamente fuori luogo. Veramente troppo poco considerando che è del caschetto d’oro della più importante squadriglia rock alternativa che stiamo parlando. Il batterista Steve Shelley ha continuato a operare con più profitto restando abbastanza nell’ombra, producendo band di nicchia, facendo casino pro tempore nei Disappears (assieme ai quali ha realizzato prima di chiamarsi fuori un album quantomeno interessante , ‘Pre Language’, del 2012) e regalando ospitate – tra gli altri – a M. Ward e al compagno di squadra Lee Ranaldo. E proprio il vecchio zio Lee sembra quello che sin qui si è meglio comportato. Uscito per Matador nel marzo dello scorso anno, il suo primo disco solista veramente accessibile (ce ne sarebbe infatti un’altra decina, dal 1987 ad oggi, ma sono poco pratico e faccio che glissare elegantemente) è stata una piacevole sorpresa. “Sorpresa”, oddio, non pare nemmeno il termine più appropriato. Diciamo un buon lavoro per i fan in un periodo di evidente spaesamento. Una risposta concreta, mitigante, sugli stessi standard rotondi e melodici dei Sonic Youth rassicuranti dell’ultimo decennio e mezzo (ma facciamo due, visti gli echi tangibili di ‘Goo’ e ‘Dirty’). Tutt’altro che un’opera arrabbiata o di rottura, quindi, bensì una raccolta di canzoni che forse Lee voleva scrivere e registrare da un sacco di tempo ma evitava di liberare, temendo etichettature poco gentili negli scaffali pop, quasi fosse motivo di vergogna. Che poi a essere onesti questo è ancora soprattutto un buon disco rock, di quelli alternative che si facevano una volta, senza suffissi inutili e senza estremismi d’accatto, buoni persino per quelle radio un minimo coraggiose che avessero pensato di accostarcisi. La presenza sostanziale dell’immarcescibile Nels Cline, l’uomo che ha rivoluzionato il suono dei Wilco aprendolo alla massima gratificazione cui gli ascoltatori potessero aspirare, dice già molto delle coordinate di un disco limpido e godibilissimo. Lo rispolvero per il blog ad un anno abbondante dalla recensione su Monthlymusic e a qualche mese da un lusinghiero piazzamento nella mia classifica di fine anno. Un passaggio veloce sull’Ipod e, beh, non mi rimangio nulla. Lunga a vita a Ranaldo allora, almeno a lui.

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