Lawrence Arabia

The Sparrow

       

Ecco un artista del quale ho parlato davvero in lungo e in largo su queste pagine, scrivendo tutto e il contrario di tutto e raccogliendo abbastanza materiale da ricavarne un’ampia scheda monografica su Ondarock. Rispetto all’affettuosa dissertazione in tre parti intitolata “Genio in sordina”, nella monografia avrei aggiunto le curiose avventure collaterali che James Milne ha collezionato negli ultimi anni in licenza dal proprio progetto principe: prima nel collettivo art-rock dei BARB, capitanato dal figlio del leader dei Crowded House, quindi in un bizzarro esperimento di sofisticazione pop condiviso con il connazionale Mike Fabulous. L’ultimo capitolo della vicenda artistica di Lawrence Arabia è però stato questo disco, “The Sparrow”, uscito esattamente un anno fa. Una prova che, anche grazie al contributo non banale dei due diversivi menzionati poc’anzi, rende testimonianza della significativa maturazione espressiva del cantante e musicista neozelandese, nel songwriting (di suo molto promettente già agli esordi) e ancor più nelle vesti di arrangiatore di se stesso. E’ un piccolo disco, l’ultimo Lawrence Arabia: breve, discreto, per certi versi impressionista. Tuttavia ha retto molto bene questo primo anno d’invecchiamento in virtù di un eleganza poco appariscente ma alquanto azzeccata. Scritto con il consueto acume easy-listening, è un album curato e colorato ma con misura, notevole per l’equilibrio tra le ombre perseguite a livello profondo e le pregevoli orlature lasciate in bella mostra su un piano più epidermico. Milne insegue ancora il fantasma di Lennon ma fa centro soprattutto con i sorprendenti rimandi a Scott Walker e all’idolo non dichiarato, Harry Nilsson. Le qualità ci sono sempre stati e seguono un trend in decisa crescita; il talento onnivoro ha avuto modo di esternare tutta la propria verve in molteplici direzioni; in più c’è la Bella Union, garanzia di qualità e visibilità anche nella comoda nicchia indipendente. Le premesse che portino Lawrence Arabia a compiere davvero il grande salto (fino a ora c’è andato solo vicino, neanche così tanto in realtà) ci sarebbero tutte. Dipenderà in buona parte da lui, specie adesso che la mira è stata perfezionata con lavori sempre più interessanti. Non sprecare quel genio nell’inventare buonissime canzoni pop, sentirsi pronto ad afferrare lo scettro del Dunedin Sound e, finalmente, osare. Se viceversa non dovesse funzionare, rimarrà uno di quei segreti da custodire gelosamente. Almeno per noi non dovrebbe essere un grosso problema.

0 comment

Genio in sordina _parte terza

 

Dopo i fuochi d’artificio del duplice esordio, James Milne ha macinato chilometri su chilometri a rimorchio di svariate star della scena indipendente nordamericana, venendo anche cooptato per numerosi concerti in Europa e negli States. Ha cambiato residenza, optando per Londra, ha firmato con la mitica etichetta di Beach House, Explosions in the Sky, Midlake e Czars, la Bella Union, e, cosa più importante, si è fatto ampiamente desiderare. Ci sono voluti circa tre anni perché il moniker Lawrence Arabia tornasse sugli scaffali dei negozi specializzati con il fatidico sophomore effort, quasi un’eternità per un artista giovane ed emergente, ma bisogna riconoscere che difficilmente avrebbe potuto esprimere se stesso in maniera più fedele di quanto ‘Chant Darling’ non abbia fatto per lui. Arrivato sul mercato europeo con l’incredibile ritardo di oltre un anno, questo nuovo è un disco che ha tutto del suo autore, pure nell’inevitabile incompiutezza di una quarantina di minuti scarsi: ne incarna tutta l’irregolare, sofisticata e nostalgica grandezza ma, ancor più che in passato, ce lo presenta spesso e volentieri intento a concedersi pause inattese e non giustificate per un songwriter che ha in fondo ancora tutto da dimostrare. Miserie e nobiltà espressive convivono a stretto contatto nell’angusto spazio di un piccolo album, talento e broccaggine si danno il cambio in un’opera che sa deliziare e imbarazzare senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza mezzi termini. Al cantante di Christchurch viene a mancare troppo sovente la rinfrancante levità del giusto mezzo, un livello medio di tutto rispetto, e gli innegabili miglioramenti espressi in pezzi di superba fattura finiscono con l’essere accompagnati da passaggi di sconcertante pochezza, indisponendo automaticamente chiunque avesse riposto in lui determinate aspettative. ‘Chant Darling’, avrò modo di rilevarlo a breve, parte in maniera del tutto incoraggiante ma ha il grave demerito di svilirsi molto presto, girando a vuoto troppo a lungo e quasi irrimediabilmente. Dopo tre ottimi pezzi catchy, Lawrence Arabia non riesce a mettere il silenziatore alla propria immaturità e pecca d’ingenuità nell’azzardato calypso lounge di ‘Auckland CBD Part Two’, ibrido improbabile (ma ancora abbastanza godibile, almeno per il sottoscritto) offerto nella confezione povera di un risaputo lo-fi e con la recidiva ostinazione per il frammento che già aveva limitato il più che valido esordio del 2006. Nella sua ormai proverbiale (ed in fondo fallimentare) passione per il nascondino, James rivela una tendenza masochistica che nella musica leggera non può proprio pagare. Della squillante ma ricercata immediatezza e delle sgargianti tinte unite del miglior Milne non v’è traccia, mentre torna a prevalere l’effetto flou di ‘Lawrence Arabia’, l’amore per il soft focus e per certa fumosa indefinitezza, quella logica dispersiva che, spingendo l’ascoltatore a soffermarsi su dettagli secondari, non può che penalizzare per forza di cose l’efficacia e l’acutezza della scrittura. Altrove è la scarsa convinzione del neozelandese ad indebolire le sue canzoni. ‘The Beautiful Young Crew’ non sarebbe affatto male se James la sviluppasse con la dovuta accuratezza anziché abbandonarla in uno stato a dir poco embrionale, con striminzito ricamo di chitarra, coloriture sbiadite da qualche fiato tristanzuolo ed una carica corale invero alquanto smorta. Nella parte centrale del disco – una “pancia” sfortunatamente quasi interminabile – regna sovrana un’eccessiva approssimazione che pesa in quanto frutto di uno svogliato approccio al songwriting. Il basso profilo – il Nostro dovrebbe ormai averlo imparato – è ingrediente deleterio quando si punti a creare del buon easy listening. ‘Fine Old Friends’ non fa che confermarlo: carina sì, nel solco dell’esperienza condivisa con Ryan McPhun dei Ruby Suns per merito di quella discreta predisposizione alle trame semplici e di agevole impatto, eppure poco brillante anch’essa, praticamente un’outtake scarsina da ‘The Dance Reduction Agents’ e niente più. ‘Chant Darling’ riesce comunque a fare ben di peggio. Quello di ‘Eye A’, per dire, è un pop bandistico senza alcun mordente, con troppa faciloneria ed una piattezza di fondo disarmante: con il suo brio alla naftalina e la sua allarmante assenza di idee decenti sarebbe discutibile anche come sciapa B-side, mentre troneggia invece proprio nel cuore dell’album. Di poco migliore la successiva ‘The Crew of the Commodore’ (ennesimo riferimento metaforico a ciurme e viaggi per mare, tema sviluppato con buona efficacia nelle immagini promozionali che hanno accompagnato l’uscita dell’LP), forse un po’ troppo buttata li, affogata nella noia e nella sua stessa fiacca indolenza per riscire a colpire davvero l’attenzione di chi ascolta.
 
Tutto questo per rendere conto di quanto possa essere sciagurato il buon Milne quando gioca a risparmio o da per scontata la meraviglia del proprio tocco. Tutto questo per ribadire che non è proprio di un prodigio che si sta parlando. Anche se…beh, il resto di ‘Chant Darling’ mantiene e rilancia le promesse dei precedenti incoraggianti episodi. La partenza, come accennato, è da knock-out tecnico. ‘Looks Like a Fool’ è un numero magistrale da navigato ammiraglio del pop, sempre per la serie dei titoli di coda (o di testa, in questo caso) ideali. Raffinata ma diretta, con una voce finalmente priva di incertezze e i coretti angelici che esaltano la sua vocazione sixties, svela nello sviluppo della sua trama un calore ed una squisitezza armonica che testimoniano a fondo la volontà di James di rischiare qualcosa, il suo romanticismo da perdente d’altri tempi. E’ una canzone pop che insegue da vicino la perfezione solleticando con la sua apparente idea di scontatezza, con la falsa disinvoltura di chi vuol lasciar intendere che quanto creato sia il frutto di un’estrema, irrisoria facilità, mentre è vero l’esatto contrario. ‘Apple Pie Bed’ è un altro impeccabile congegno pop che emana prodigiosi aromi anni ’60 e tiene alta la soglia dell’espansività grazie ad un ritmo contagioso (prezioso il basso) e all’ennesimo ritornello bostick della ditta. Dietro la spensieratezza di facciata e la leggerezza del taglio e dei riferimenti, si affaccia però l’irriducibile malinconia (come suggerisce anche l’ambigua promiscuità del vizioso videoclip, raggiungibile dalla foto qui sopra), altro dardo vincente nella faretra del neozelandese. Tra i due brani forti d’apertura, ‘The Undesirables’ appare più elementare e stilizzata nella resa melodica, pulviscolare in quanto a sostanza e durata, eppure è un ulteriore pezzo di bravura per via di quel refrain maledetto (in pratica non c’è altro) che insiste a omaggiare Lennon come stella polare e si conficca implacabilmente nella testa di chi gli presta attenzione. A questa partenza prodigiosa fa seguito la lunga ellissi di cui si è detto, e bisogna arrivare addirittura alla nona traccia per ritrovare un passaggio di eguale pregio, se non superiore: ‘I’ve Smoked Too Much’, un gioiello, l’orgoglioso colpo di coda del genio dopo un mezzo oceano di banalità. Parte con i soliti coretti brillanti, prosegue con la melanconica e sfacciata (in senso buono) posa da crooner lagnoso per poi sfociare in un nuovo irresistibile ritornello, svoltando sempre con estrema perizia tra le più disparate ed amabili direzioni melodiche. Vuoi per la superba fattura, vuoi per la sorpresa di averlo ritrovato quando non lo si sperava più, è un vero piacere stargli dietro per tutti i cinque minuti e mezzo: durata doppia per gli standard di Lawrence Arabia, anche perché si tratta praticamente di due canzoni (ottime entrambe) in una. La chiusa, riservata all’affabile ‘Dream Teacher’, conferma il livello qualitativo elevato del miglior James pur con estrema economia di risorse, a conferma che con i suoi soli impasti vocali Milne è capace di risultati eccelsi. Molto più raccolto, aulico, delicato ma anche estremamente toccante (vedi la formidabile estasi wilsoniana che chiude il crescendo) ed immune al virus della maniera. Un momento di autentica goduria per il finale, irritante se ci si sofferma a raffrontarlo con le troppe pause precedenti ma comunque di buon auspicio per il futuro prossimo. Già, il domani alle porte che lo porterà in tour in Italia questo autunno e chissà cos’altro potrebbe riservare. La mia speranza è tutta rivolta ad un nuovo Reduction Agents, possibilmente con la franchezza succosa del primo capitolo e senza le scorie di timidezza e gli eccessi dispersivi che fin qui ne hanno sempre inzavorrato il talento.
 

Per una ideale raccolta: ‘You Beautiful Militant’ (da ‘Mars Loves Venus’, The Brunettes), ‘Talk About Good Times’, ‘Bloody Shins’, ‘Hold Us Together With Sutures’, ‘The Thinnest Air’, ‘I Hope The Pope Makes You a Saint’ (da ‘Lawrence Arabia’, Lawrence Arabia), ‘Cold Glass Tube’, ‘80’s Celebration’, ‘Mississippi Moonshine Girls’, ‘Sweet Ingredients’, ‘Our Jukebox Run is Over’ (da ‘The Dance Reduction Agents’, The Reduction Agents), ‘Looks Like a Fool’, ‘The Undesirables’, ‘Apple Pie Bed’, ‘I’ve Smoked Too Much’, ‘Dream Teacher’ (da ‘Chant Darling’, Lawrence Arabia).

0 comment

Genio in sordina _parte seconda

 

Il 20 aprile 2006 non deve essere stato un giorno come tutti gli altri per James Milne. In abbinamento di lancio con l’eponimo ‘Lawrence Arabia’, Lil’ Chief e Honorary Bedouin fecero uscire in quella stessa data anche il primo e per ora unico album dei Reduction Agents, band capitanata da Milne con Ryan McPhun – leader dei Ruby Suns – negli improvvisati panni di batterista, oltre ad un paio di misconosciuti compari a completare l’organico. Evidentemente la scelta di sincronizzare al minuto la pubblicazione di questo doppio esordio fu voluta con forza dall’autore, intenzionato a sparare tutte le proprie cartucce nella speranza di fare centro in almeno una occasione. Di certo ha pagato: fino ad allora James si era limitato a suonare in un diversi dischi o EP dei Brunettes restando abbastanza nell’ombra, specie come autore. Il suo contributo con la canzone ‘You Beautiful Militant’, nel secondo LP dei concittadini (‘Mars Love Venus’, 2004) deve aver spinto l’amico Bree ad incoraggiarne con forza gli sforzi, ripagati in meno di due anni con questa duplice uscita. I frutti di un simile tour de force non hanno tardato a manifestarsi, considerato l’arruolamento da parte di grossi calibri americani (vedi parte prima), le tournee da antipasto in giro per il mondo, la fuga a Londra e la firma con la Bella Union. Se per ‘Lawrence Arabia’ Milne aveva composto in pochi mesi materiale nuovo o rielaborato per l’occasione nella spoglia ma intrigante veste dell’album, ‘The Dance Reduction Agents’ si è presentato come l’occasione unica per ragionare da leader di una compagine e non semplicemente da solista, qualità chiaramente nelle corde del cantante di Christchurch da chissà quanto tempo. Anche in questo caso Milne non ha fatto altro che organizzarsi e registrare canzoni che gli danzavano nella testa da anni, più intrise, rispetto a quelle destinate al progetto solista, di una vena scoppiettante per assecondare la quale era necessario un lavoro di gruppo, una visione partecipata e condivisa da più spiriti affini. Messi al servizio di una vera band questi brani riescono a funzionare in modo impeccabile, e poco importa se i musicisti non sono proprio dei fenomeni. Rispetto a quell’altra opera ‘The Dance Reduction Agents’ non patisce gli spifferi di un eccessivo solipsismo, di un’intonazione spesso cerebrale e artefatta per quanto sostanzialmente sincera e più che godibile. E’ un disco sorprendente questo, estremamente espansivo e a fuoco pure nell’eterogeneità degli spunti proposti. Fatica piuttosto a trattenerli, pecca di eccessiva spontaneità e dell’assenza di maschere che filtrino l’insieme come orientamento più consapevole. Personalmente trovo che questo non sia affatto un male e costituisca per paradosso proprio il punto di forza dell’album, la sua natura incontenibile. Anche se non siamo in presenza di un genio, di un talento canonico e a tutto tondo, non resta un dettaglio da poco che questo novellino venticinquenne dall’altra parte del mondo abbia saputo tirar fuori in un sol colpo due dischi così diversi e così in armonia, perfetti nel completarsi a vicenda rappresentando le due anime del loro autore con una veridicità estrema. L’album dei Reduction Agents è una formidabile esplosione pop, una collezione di hook irresistibili e di sorprese estemporanee.

 

Se voleste farvi un’idea provate con ‘80’s Celebration’, frammento introdotto dalla drum machine e capace di sposare con disinvolta bravura strofa malinconica e delizioso refrain uptempo, il tutto in un memorabile concentrato di due minuti scarsi, per nulla ridondante. Di più. Se ‘Lawrence Arabia’ non faceva pesare il rilievo di debiti sin troppo scoperti nei confronti di sicuri maestri del passato, in ‘The Dance Reduction Agents’ l’opera di riciclo intelligente si fa se possibile ancora più scaltra ed eclettica, portando Milne a spaziare in un vasto range di riferimenti senza mai suonare fasullo o troppo derivativo (termine osceno ma, vabbeh, va tanto di moda). Dalle squillanti chitarre di ‘Urban Yard’ (che fa tanto Kinks primi anni settanta) alla colorata sgroppata power-pop di ‘Our Jukebox Run Is Over’ (sorta di impossibile confino nei seventies per gli Zombies), non c’è modo di annoiarsi. In collegamento diretto con alcuni tra i migliori momenti della prima prova in solitaria, ‘The Pool’ rappresenta un altro smaccato furto con scasso dallo scrigno Beatles: ‘Being for the Benefit of Mr. Kite’ viene scopiazzata con rispetto ed amore per poi essere innervata di una follia policroma molto più attuale, parente prossima dei Supergrass, poco ma sicuro. In ‘Last Night’s Love’ va in scena l’ospitata canora di un Jonathan Bree che restituisce all’amico il favore di due anni prima e contribuisce alla curiosa fusione tra il proprio cristallino approccio al pop e quello più obliquo di Milne, compensando i soliti vecchi cliché da ballata romantica al pianoforte. Tanto per alzare la posta James e i sodali decidono di organizzare in ‘Mississippi Moonshine Girls’ una festa a base di Jangle-pop credibile quanto infettivo, guardando alla lezione dei Byrds dal comodissimo avamposto Paisley Underground dei mai troppo apprezzati Rain Parade. Applausi. Piaccia o meno, per il musicista neozelandese ‘The Dance Reduction Agents’ è la palestra perfetta in cui esercitare liberamente le proprie intuizioni trasformiste. ‘Sweet Ingredients’, pagina più sofisticata da navigato seduttore, è emblematica di questo spirito cangiante e discontinuo che predilige le sterzate stilistiche e di tonalità, le assidue deviazioni melodiche studiate per tener sempre desta l’attenzione di chi ascolta. Il miracolo, rispetto a ‘Lawrence Arabia’ e al successivo ‘Chant Darling’, è che qui non ci sono giri a vuoto: nessun calo di ispirazione, nessun filler (persino la piccola ‘Freeways’ aspira al titolo di gioiellino grazie ai sensazionali impasti vocali e al falsetto) piazzato di straforo, nessuna infelice ingenuità. Dalla calorosa posa da rubacuori di ‘Waiting For Your Love’ al ciondolante (e dolcemente indolente) voce e chitarra di ‘Cabinets and Mountaintops’, dal rispolverato intimismo folk-cantautorale di ‘Cold Glass Tube’ al crooning appassionato dell’intensa ‘Couldn’t Anymore’, è tutto un continuo cambio d’abito, con un meccanismo nell’insieme così ben oliato dal non lasciar intravvedere sbavature o passi falsi: stropicciato ma senza incertezze, romantico ma non ruffiano, raffinato ma non manierista, il Milne dell’esordio con la sua band improvvisata resta il migliore ascoltato sin qui, una promessa molto più solida di quanto i successivi passaggi non abbiano detto, un autore più libero dai condizionamenti nel recuperare quanto amava dal passato. In due parole, più personale.

0 comment

Genio in sordina _parte prima

 

Ci avete fatto caso? Una delle parole più abusate (quasi sempre a sproposito) dalla critica musicale è "genio". Dovessimo fidarci degli aggettivi delle riviste o dei siti specializzati non potremmo che limitarci a constatare che viviamo in una realtà dorata di genialità a buon mercato. Un disco riuscito, un singolo ben sponsorizzato, un nuovo autore che potrà fregiarsi della generosa credenziale. Anche se crederlo è quanto di più incoraggiante, sappiamo tutti che il mondo reale sforna fenomeni con molta più parsimonia di quanto non racconti la stampa e di quanto noi stessi, in fin dei conti, vorremmo sperare. Scriviamo degli artisti che abbiamo scovato magari fortunosamente, tendiamo ad esaltarci non appena incrociamo un album che transita sulla nostra stessa lunghezza d’onda, ma per eccessivo e sincero entusiasmo finiamo con l’incappare nel medesimo errore che altri commettono scientemente, per puro interesse promozionale. I geni veri non si incontrano facilmente. Viene da dubitare che autori di questa risma esistano ancora o comunque creino la loro arte sugli stessi standard aurei che li hanno consacrati, in passato. Capita invece di imbattersi, non così di rado, in musicisti e cantautori che del genio esprimono solo determinate caratteristiche, magari a sprazzi, non potendo quindi essere annoverati nella categoria dei prodigi autentici. Spesso e volentieri sono proprio loro gli artisti più interessanti: quelli imperfetti, quelli nascosti, quelli col silenziatore. Capaci di tirare fuori dal cilindro un coniglio di tanto in tanto, estemporaneo intervallo tra un paio d’atti di assoluta ordinarietà, oppure di coltivare in disparte un talento non proprio comune, di giocarci a nascondino come non volendosi mai prendere troppo sul serio. L’ultimo in ordine di tempo di cui ho potuto saggiare i pregi si chiama James Milne, non ha ancora trent’anni ed è uno dei giovani cardini dell’assai promettente scena indiepop neozelandese, pur vivendo da qualche anno a Londra e pur avendo manifestato legittime esigenze di sprovincializzazione artistica. Me lo aveva segnalato il leader dei Brunettes, Jonathan Bree, nell’intervista realizzata tempo fa per Indie-rock.it: proprio con Bree e la Mansfield Milne ha mosso i primi passi della sua carriera, ma evidentemente la subalternità gli era di peso. Appena ha potuto ha provato a cimentarsi con materiale proprio, sia da solista (dietro il moniker Lawrence Arabia) che al timone di una vera e propria band, i Reduction Agents. Sono stati sufficienti un paio di LP, più un terzo pubblicato alla fine del 2009, a convincere delle sue qualità artisti di prima grandezza come Will Sheff o Feist, il primo cooptandolo come turnista negli Okkervil River, la seconda facendogli aprire tutte le date di un recente tour europeo. Ora, qui non voglio convincere nessuno sul fatto che James Milne sia un genio, anche perché io per primo non lo credo minimamente. Però non mi dispiace fare un po’ di pubblicità ad uno di quei talenti minori (vedi Richard Swift, Kelley Stoltz e Jim Noir) che, lontani dai riflettori, si stanno cimentando in una personale riscrittura della tradizione pop con risultati quanto meno apprezzabili. L’excursus che per comodità sarà diviso in tre tappe – una per ogni LP pubblicato – non può che partire dal già emblematico esordio del progetto solista Lawrence Arabia, un album eponimo uscito in contemporanea per la propria etichetta (Honorary Bedouin) e per quella di Bree (Lil’ Chief) nell’aprile del 2006. 

 

Se cercaste un’immediata conferma alla mia riflessione in merito al patologico basso profilo di Milne, considerate che il disco in questione comincia con una sequenza di ben quattro filler, pure di ottima fattura, e altri ne dissemina via via sul tragitto, dall’esilissimo divertissement di ‘Everyone Had Dinner With Rabbits’ al frammento scapigliato di ‘The Kinds of Feelings That Happen on Summer Beaches’. Se bastano gli episodi iniziali a chiarire come l’inclinazione di questa prima prova sia decisamente folky-cantautorale, non si può liquidare la tendenza al bozzettismo senza rimarcare la gentilezza, la semplicità miracolosa e quella sottile atemporalità che preservano anche riempitivi senza grosse pretese (quale è ad esempio il brano d’apertura, ‘The Mystery Lair’) dall’impietosa etichetta del banale. Milne si offre poco per volta, adottando cadenze sornione ed un distacco che è tutta apparenza. Servendosi magari di un tappeto di elettronica morbida e prudente (‘Half The Right Size’), Lawrence Arabia si ingegna per “addormentare il gioco” ma è comunque insinuante e sa colpire al momento giusto con la sua voce ammaliante e malandrina, prima che i riverberi della sua elettrica gli diano il cambio e prendano il sopravvento. Anche in questo atteggiamento traspare una certa propensione di stile per un dandismo che é tanto sofisticato quanto polveroso (e lontano dalla grazia), abbracciando una sorta di maniera noir a fin di bene, con sincera passione per il genere e appena qualche debito di troppo nei confronti di Bowie (’Thistle Tends To Stingle’). Quando concede campo libero alla propria vena decadente, James approda a esiti incoraggianti. ‘Talk About Good Times’ è discreta, romantica, anacronistica, perfetta per gli ideali titoli di coda di un film ancora da girare: il classico colpo ad effetto che lascia il segno anche senza ricorrere a soluzioni appariscenti, vera virtù che è solo dei talentuosi. A rimorchio di questo gioiellino di crooning consumato ecco ‘Bloody Shins’, dove il fare estenuato, la malinconia di grana grossa e un lennonismo imperante riescono come per magia a non scadere nel fiacco sentimentalismo che per tanti sarebbe stata una sicura falla. L’obliquità è una delle migliori carte nel songwriting di Milne, e questo esordio la porta all’attenzione dell’ascoltatore in tante occasioni. ‘Hold Us Together With Sutures’ è sicuramente una delle migliori, nonché l’episodio più sfuggente di tutto il disco: il canto si fa più ruvido, lamentoso, stropicciato (quasi un miagolio), mentre le deviazioni arrivano dai curiosi inserti notturni che enfatizzano il potenziale melodico emozionando in un finale elettrico sempre più esasperato e crepuscolare. Stupiscono nell’album gli accostamenti anomali sul piano sonoro, disposti quasi con indifferente coraggio dall’autore, fondendo soffusi ricami acustici, sottili campionamenti ed occasionali aromi psichedelici. E’ la follia gentile di Lawrence Arabia, sempre misuratissimo nel suggerire alternative bislacche alle soluzioni di comodo o agli effettacci eclatanti che per molti basterebbero a compensare i vuoti pneumatici di una creatività lacunosa. Nel finale questa tendenza produce alcuni dei suoi frutti più gustosi, tra melodie traballanti che si conficcano in testa al primo giro di giostra, radiose ed irresistibili schiarite sixties (‘I Hope The Pope Makes You a Saint’) e buone impennate di asprigna emotività (‘The Thinnest Air’). Non occorre dilungarsi in esempi lampanti per rivelare la felice inclinazione pop di Milne, un accenno di quella dote veramente notevole che il neozelandese saprà poi sviluppare con maggiore autorevolezza nella seconda prova e nell’uscita di gruppo con i Reduction Agents: sono sufficienti le ombre beatlesiane (l’eco di ‘Revolution’ è dietro l’angolo) di ‘Business Planning’, evidentemente qualcosa più di un’acerba dichiarazione di intenti. Un po’ come tutto quest’esordio, peraltro.

0 comment