L’uomo che andava al cinema _Letture

       

Ed ecco un libro di cui non ricordo praticamente nulla. Dire che non è trascorso che un anno o poco più, eppure dovessi citare a spanne qualche pagina memorabile, un’impressione forte, un’atmosfera, credo finirei per fare scena muta. Mi rendo conto non suoni proprio come la miglior reclame per questo testo, vincitore del prestigioso National Book Award nel 1961 (immeritatamente, mi viene da dire, visto che tra i finalisti quell’anno concorreva un certo “Revolutionary Road”). Sia come sia, scopro dalla recensione buttata giù a caldo (di cui afferro ben poco, porca miseria) che il libro non è male, ha un protagonista in anticipo sui tempi e a suo modo indimenticabile (io non faccio testo, evidentemente), delle valide ambientazioni e poco altro. Insomma, magari lo consiglierei pure, se me lo ricordassi. Nel dubbio, no: preferitegli senza la minima esitazione un qualunque Richard Yates, ché andate sul sicuro.

Ama raccontarsi come un individuo del tutto ordinario, Jack “Binx” Bolling, agente di cambio trentenne, inquilino e cittadino modello cui piace comportarsi esattamente come ci si aspetta da lui. Ma è la sua immaginazione incontenibile a tradirne l’eccezionalità. I suoi pensieri si accavallano infatti in un flusso torrenziale e incoerente che cataloga l’esistente attraverso schemi in realtà ordinatissimi, per quanto febbrili, come la più scoppiettante delle sceneggiature. Così i ricordi del padre morto da tempo gli valgono come costante termine di paragone attraverso cui misurare ogni ipotesi di legittimazione nella stirpe dei Bolling; così le visite alla madre e ai fratellastri servono come indispensabile emancipazione dalla realtà formale della famiglia paterna, una salutare valvola di sfogo che sa di concretezza seppur dolorosa (emblematico il rapporto toccante con il fratellastro malato); così la scenografica Gentilly, il sobborgo residenziale di New Orleans in cui vive nella tranquillità del suo isolamento e delle sue manie, lavora egregiamente come teatro funzionale per misuratissime paranoie; e così le partner occasionali nel suo passato – niente più che segretarie stagionali, in realtà – appaiono intercambiabili in tutto e per tutto come elementi di tappezzeria identificabili esclusivamente in base al nome di battesimo. Le sue vere passioni sono la televisione e, ancor più, il cinema, sorta di paradiso in cui Binx ama rifugiarsi indipendentemente dalla qualità della pellicola proiettata. Gli attori sul silver screen diventano il metro di riferimento essenziale della sua singolare ma disciplinata esistenza, le figure archetipiche tramite cui identificare e classificare ogni essere umano incrociato sul proprio cammino: stelle che cadono, scompaiono e riappaiono, scandendo lo scorrere dei suoi giorni in linee di attimi e rivelazioni sempre ritornanti.

Ha però il terrore del vuoto, Binx, dell’horror vacui esistenziale, del poter “diventare nessuno in nessun luogo”, ed è forse per questo che indossa con abnegazione la propria “buffa forma di serietà, che non è affatto serietà bensì disperazione mascherata da serietà”. La sua vera ossessione, disinvolta ma ben dissimulata, è quella che lui chiama semplicemente “Ricerca”. Non una generica aspirazione alla bellezza, perché l’ideale romantico da esteta gli è stato estirpato assieme all’innocenza al fronte, in Corea, dove il saldo delle cicatrici incise nell’anima è andato ben al di là del numero di ferite subite. Non è il bello ciò che insegue e vorrebbe perseguire, la corsa al bello è – senza troppi giri di parole – “una puttanata”. Questo appare tanto più vero considerando che sono di natura economica le sue maggiori soddisfazioni e che il suo cuore resta diviso a lungo – in bilico per l’intera durata del romanzo, praticamente – tra una segretaria sensuale e non troppo inibita ma neppure chissà quanto incantevole (Sharon), e una cugina minata nelle fondamenta della sua psiche da una fragilità emotiva e una depressione per molti versi sconfinate (Kate). La “Ricerca” è piuttosto uno studio, imperfetto e fallace nella sua dimensione irriducibilmente umana, sulle possibilità di una vita semplice che fugga gli angusti limiti della routine per aprirsi alla meraviglia e provare a regalare ancora, di tanto in tanto, qualche barlume di ardita felicità.

In questa sua prospettiva, onesta nella serena accettazione delle proprie sconfitte, risiede la modernità di un personaggio davvero complesso e sfaccettato come Binx Bolling, umanista rassegnato e idealista senza più ideali cui aggrapparsi, ma encomiabile nella sua certosina negazione di ogni traccia tangibile di residuo pessimismo. Il suo bluff è del tutto invisibile agli occhi degli altri, che lo stimano per la brava persona che è o non ne colgono l’elevata statura morale scambiandola per egoismo e freddezza, come nel sermone finale dell’adorata zia Emily, altro personaggio “forte” del testo. Il lettore ha però il vantaggio di potergli leggere dentro grazie agli spunti offerti dalle sue ininterrotte riflessioni in prima persona, e lo esercita anche senza volere, cogliendo tutta la sofferenza e la fatica della scomoda posizione del protagonista-narratore, vittima e insieme salvatore, seppur in sordina.

Sbaglia davvero di grosso chi ha letto in questo “The Moviegoer” un nuovo ritratto eccentrico e sopra le righe, perfetto spaccato di un’epoca di transizione, alla maniera di Ignatius Reilly (paragone presumibilmente dettato più dal mecenatismo postumo messo in campo da Percy nei riguardi dell’opera di John Kennedy Toole, che non da un’effettiva somiglianza antropologica tra i due primattori). Binx si erge effettivamente al rango di figura chiave per la letteratura statunitense dei primi anni sessanta. Si presenta ancora oggi, più di cinquant’anni dopo, come un (anti)eroe attualissimo in evidente anticipo sui tempi, ma più che altro nel senso di “santo” attribuitogli da Peter Handke (cito dalla quarta di copertina). E’ un campione della disillusione, come ben dimostra la stupefacente lezione di disincanto delle ultime pagine. E’ un Harry “Coniglio” Angstrom che ha da tempo smesso di correre e ha scelto, finalmente, abbracciando con serenità il proprio destino. Non tutto funziona comunque come Percy avrebbe forse sperato. Attorno a un protagonista così indimenticabile, si muove una realtà fumosa e sfuggente, una nebbia che rende talvolta inafferrabili e prolisse anche le sue dissertazioni, annoiando spesso e volentieri, perdendosi nell’irresistibile piacere perverso di digressioni incapaci di condurre in alcun posto. Più apprezzabili in questo caso le pur fugaci rappresentazioni dei luoghi – meglio, dello spirito dei luoghi – come fondali inquietanti che restano comunque scolpiti nella memoria: una New Orleans triste e non certo folle teatro (o cartolina), a differenza che in “Una Banda di Idioti”; e poi una Louisiana torbida ma genuina, umida e autentica; e una Chicago oltremodo minacciosa e perturbante. In questo lavoro da fine paesaggista metropolitano risiede la vera grandezza di un romanzo discontinuo ma tutt’altro che disprezzabile, il cui protagonista – è bene dirlo – in duecento e passa pagine non entra in una sala cinematografica che un paio di volte.

7.2/10

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