Month: marzo 2010

I’m never gonna live again

Premessa obbligatoria: questo blog non ambiva ad essere una collezione di coccodrilli. Non è nato con l’intento di articolarsi in una mesta sequenza di pagine di necrologi, anche se potrebbe dare quest’impressione. Quando ho iniziato pensavo di scrivere qualche menata non troppo formale su album recenti, credevo sarei stato capace di resistere alla tentazione di parlare del passato, ma la realtà concreta molto spesso costringe a fare i conti con storie che si immaginavano dimenticate e questo porta quasi inevitabilmente ad immalinconirsi. Purtroppo è proprio così che si sta sviluppando suo malgrado il mio diario minimo, stramaledizione! Come recitava quel film? “Chi è che orchestra tutto questo? E’ il diavolo, probabilmente…”. Mi viene da sorridere perché alla fine sono io che ci casco. Per un motivo o per l’altro non sto più scrivendo di questi fantomatici dischi dell’ultima ora, di quelle gustosissime promesse del sotto-sottobosco alternativo che con ogni probabilità resteranno puntualmente inespresse. Però non sarei in pace con me stesso se non spendessi due parole per ricordare un grande musicista che se ne va per sempre. E’ un periodo particolarmente sfortunato questo, visto che – senza che ce lo si aspetti – in tanti se ne stanno andando come in punta di piedi. Oddìo, fosse per i cari colleghi d’ufficio miei coetanei, tutte queste morti improvvise ed insopportabili non sarebbero altro che semplici curiosità raccontate da “quello che ascolta tutta quella roba che conosce solo lui”, tanto per restare a frasi realmente udite dalle mie povere orecchie. Non ho scribacchiato un omaggio per Jay Reatard e Lux Interior, ma non escludo di ricordarli almeno in breve nei prossimi mesi. Con Chesnutt e Linkous ho sentito la necessità di fissare nero su bianco un’emozione a caldo. Speravo di non dovermi confrontare nuovamente con resoconti di questo tipo ma il cuore stanco di Alex Chilton evidentemente non era d’accordo. Non ha neanche voluto saperne di scoppiare su un palco come quello di un Mark Sandman, offrendomi il più comodo degli assist per una narrazione tra le più enfatiche e visionarie che si siano mai viste. E’ una tristezza che un autore e cantante immenso quale è stato lui si spenga nella più totale e fredda indifferenza. Ma è un film già visto, prendersela non ha proprio senso perché è nella natura delle cose, una regola del gioco, via. Non conosco i Box Tops, sua prima band, ed ignoravo perfino che i Big Star fossero attualmente in giro per il mondo e suonassero ancora dal vivo. Per me quell’esperienza era chiusa con quel filotto di capolavori immortali che sono stati ‘#1 Record’, ‘Radio City’ e ‘Third’, così diversi tra loro eppure così straordinariamente vivi. Musica di 35 anni fa praticamente, musica che ebbe pochissima fortuna quando fu pubblicata ma che meritava di venire fuori comunque. Un incrocio tra le più disparate esperienze – dai Kinks ai Byrds agli Zeppelin – che ascoltato oggi racconta con incredibile veridicità quelli che sono stati gli anni ’70 per la musica americana, mantenendo tuttavia una prospettiva altra, non ufficiale e dunque non banalmente stereotipata.

 

Di più, la band di Chilton ha saputo essere moderna come poche altre in quegli stessi anni, seminando umori, riff ed impasti all’epoca probabilmente apparsi stravaganti ma che col tempo avrebbero svelato tutta la loro straordinaria attualità. Una virtù dei grandi quella di venire fuori sulla lunga distanza: Nick Drake e la sua ‘Fruit Tree’ hanno fatto di questo concetto una specie di archetipo. Le canzoni di Chilton e dei big Star sono diventate presto oggetto di culto, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Il fatto che abbiano influenzato una marea di grandi gruppi negli anni ottanta e novanta (dai Replacements, ai Wilco, dai R.E.M. ai Jesus & Mary Chain) va letta come naturale e sacrosanta conseguenza del loro più profondo valore, come una sorta di riconoscimento e risarcimento postumo. E’ stata una fortuna per quelli come me, così distanti nel tempo da loro, di arrivarci comunque, per vie indirette. Era destino. Non poteva che funzionare così, come una sorta di appuntamento in cui, grazie al passaparola o agli amici giusti, comunque ci si sarebbe incontrati. Nel mio caso devo tutto alla devozione e all’amore (una vera e propria fede) manifestati dai Teenage Fanclub nei loro confronti. Arrivarono ad intitolare un disco (il mio preferito, guarda un po’) come una delle immortali canzoni di quel lontanissimo e folgorante esordio: ‘Thirteen’. Non ci fossi arrivato per questa strada probabilmente mi ci avrebbero portato gli Yo La Tengo, che avevano fatto carte false per suonare assieme ad uno dei loro massimi idoli. Comunque ci sarei arrivato, questo conta. Ora che la parola fine trova il suo posto nella vicenda umana di Chilton, ad appena cinquantanove anni di età, suona abbastanza sinistro il testo del ritornello di ‘Feel’, primo brano in scaletta su ‘#1 Record’ e quindi prima canzone riascoltata da me questa mattina in una mini-maratona prossima al religioso: “I feel like I’m dying / I’m never gonna live again / You just ain’t been trying / It’s getting very near the end”. E’ pur vero che per lui le porte di un’esistenza ben più duratura di quella terrena si erano già spalancate parecchio tempo fa. Ora che le sue canzoni – ‘September Gurls’, ‘O My Soul’, ‘Jesus Christ’, ‘Thank You friends’, ‘Watch The Sunrise’, ‘Back of a Car’, ‘Take Care’, ‘The Ballad of El Goodo’ , solo citando a casaccio alcune delle più belle – hanno iniziato a sopravvivergli, resta la certezza che tanta miracolosa scrittura pop sia una benedizione che non è andata sprecata e che anzi servirà ancora per gli autori di domani. Una mirabolante abilità nel plasmare easy-listening in grado di solleticare anche il palato dei cultori del rock (ascolti ‘Radio City’ chi ne è poco convinto), ma anche l’infinita dolcezza di chi componeva senza pensare al business, anzi, senza nemmeno sapere se avrebbe pubblicato o meno un album, trovandosi magari a dover attendere quattro lunghissimi anni per vedere finalmente il compimento di una delle proprie fatiche.

E’ vero, purtroppo Alex Chilton non c’é più. La perfezione melodica dei suoi dischi tuttavia resta, incancellabile, a disposizione di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di tutti quelli che faranno la sua conoscenza negli anni a venire.

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Jesus Hits Like The Atom Bomb

 

Recentemente ho provato ad abbozzare, proprio sulle pagine di questo blog, una sorta di classifica senza graduatorie dei dischi da me ritenuti più significativi relativamente al decennio appena mandato in archivio. Operazione inutile per la sua parzialità, ma qui mi preme sottolineare un aspetto secondario emerso mentre mi annotavo i titoli. Sono andato inizialmente a memoria, per quelli che avrebbero dovuto essere gli album più memorabili, quindi ho preso carta e penna e mi sono trasferito in camera davanti agli armadi con i CD, interrompendomi ogniqualvolta la mia attenzione veniva intercettata da uno di quei dischi che no, proprio non si poteva lasciar fuori. La cosa divertente in tutto questo processo è stata la reiterata manfrina del "Che cacchio! Questo è OK ma va nei '90". Una frasetta che avrò ripetuto un numero imbarazzante di volte nel giro di un quarto d'ora. E' vero, diversi dei miei dischi preferiti per gli 'anni zero' non li posseggo fisicamente ma solo in quella magic box che è l'ipod. Questo è anche alquanto triste come dettaglio, ma meriterebbe un discorso a parte talmente ampio ed articolato che mi viene mal di testa solo a pensarci. La verità, a parte questo, è molto più semplicemente che una bella fetta dei dischi che più ho amato risalgono proprio al decennio passato. Quello passato un decennio fa, per intenderci. Tante band esplose in modo fragoroso in quel periodo sono scomparse, tipo i Pavement, altre hanno continuato a sfornare dischi senza mai fermarsi ma incorniciando proprio negli anni '90 il meglio della loro produzione, il fuoco diciamo. E poi ci sono quei gruppi venuti fuori quasi dal nulla, ma capaci di regalare piccole gemme isolate, perle che i più non hanno riconosciuto come tali anche perché non ne hanno con ogni probabilità avuto l'occasione. E' il caso dei Tripping Daisy e del loro 'Jesus Hits Like The atom Bomb', uno di quegli album comprati svogliatamente e con aspettative prossime allo zero (al di là di un paio di singoli divertenti messi in conto ed in fondo pretesi) in cambio di un paio di biglietti da cinquemila lire, eppure diventati presto classici irrinunciabili per il sottoscritto. Con questo capolavoro sepolto andò praticamente così: ero al primo anno di università, trovai il CD già di seconda mano (per quanto 'Atom Bomb' fosse uscito in quella stessa stagione), rifiutato da qualche scriteriato acquirente che probabilmente si aspettava del post-rock cristiano e scaraventato nel calderone degli usati a meno di metà prezzo dall'occhio preciso di un negoziante che doveva avere ben presente quanto poco vendesse nella sua bottega questa bizzarra combriccola texana. Il secondo LP del gruppo di DeLaughter – 'I'm an Elastic Firecracker' – l'avevo preso nello stesso posto qualche mese prima: ne avranno avute almeno tre copie. Anche il modesto esordio ('Bill') l'avevo acquistato lì. Nulla di stratosferico, anzi. Vedendo che avevano il disco nuovo, già disponibile, esitai non poco, dato che i Tripping Daisy non mi avevano certo entusiasmato. Mi salvò la tendenza a spendere sempre e comunque, oltre al ricordo di un paio di episodi punk-pop tutt'altro che malvagi nel loro best seller, quello con il folle italiano Cavellini in copertina, intento ad autostoricizzarsi. Nel pezzo che ho scritto per Monthlymusic – l'unico finora da me dedicato ad un'opera del passato – credo di aver messo sufficientemente in luce gli aspetti fondamentali di un lavoro che era destinato a restare unico nel suo genere, soprattutto valutando la parabola creativa curiosa del suo brillante (e misconosciuto, tutto sommato) autore. L'istantanea perfetta di una band sfortunata immortalata nel suo miglior momento, un attimo appena prima della morte e resurrezione in qualcosa di profondamente diverso, più ruffiano, caricaturale, pronto per il mercato. I Polyphonic Spree, nati dalle ceneri dei Tripping Daisy con la dipartita del loro talentuoso primo chitarrista, sono stati e sono un geniale esperimento stilistico ma, prima ancora, un furbissimo esercizio di posizionamento strategico in seno alla musica alternativa statunitense. Un colpo di teatro, se volete, le cui premesse erano già presenti in questo disco fantastico, per giunta con una polpa rock (in equilibrio miracoloso con il power-pop) che la nuova band ha in parte recuperato solo dopo tre lavori ('The Fragile Army', personalmente il mio preferito nella seconda vita di Tim DeLaughter). Nella recensione c'é tutto, compreso un accenno a quelle sensazioni malinconiche che affiorano sottili sotto la crosta psichedelica e al di là del rombo a pieni giri dei motori di un gruppo davvero eclatante. Adrenalina, spensieratezza, amore e morte. Tutto questo all'occorrenza, ogni ingrediente al suo posto, perfettamente incastonato accanto agli altri: incombente come un'emozione forte, delicato come certi ricordi graditi, destinato a durare nel tempo come tutto ciò che non lascia indifferenti.

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It’s a sad and beautiful world

     

E’ un mondo triste e meraviglioso quello che ci ha regalato Mark Linkous e ce lo ha portato via così presto. Un mondo che lo ha accolto in silenzio e che in silenzio lo saluta, nell’indifferenza sovrana e sconfortante dei tantissimi che gli Sparklehorse non li sentiranno mai nemmeno nominare. Gli Sparklehorse che erano lui, e lui soltanto. Un colpo al cuore, come Elliott Smith, a scrivere la parola fine nella parabola di un artista vero. Le prove generali Linkous le aveva fatte diversi anni fa con il valium: rischiò grosso, ma se la cavò con un arresto cardiaco, svariate operazioni e sei mesi di sedia a rotelle. Aveva esordito da pochissimo e il suo nome si era fatto strada rapidamente tra i colleghi affermati, quelli attentissimi alle novità e con la coccarda mecenatesca appuntata in bella mostra sulla giubba. I Radiohead di ‘OK Computer’ lo vollero fortemente per il tour della consacrazione, altri lo avrebbero richiesto in seguito. L’album con cui si presentò non poteva passare inosservato, dopo tutto. ‘Vivadixiesubmarinetransmissionplot’ – così, tutto d’un fiato – oggi sembra lontano secoli, eppure è così incredibilmente attuale. Ascolti i nomi nuovi di zecca del variegato sottobosco nordamericano e ce lo ritrovi senza un motivo legittimo, imitato con scaltra perizia ma senza un briciolo di sentimento. Impressione non esaltante a quasi quindici anni di distanza, ma preziosa nel confermare che quel disco, quel sound e quel songwriting hanno lasciato un segno indelebile. Piaccia o meno, quel primo LP – pubblicato come piccola foglia di fico da una major del calibro della EMI – è diventato in breve tempo un classico con tutti i crismi, uno di quei lavori che pochi notano e che pure fotografano con straordinaria lucidità le coordinate di una certa scena musicale in un dato momento. Canzoni come ‘Homecoming Queen’, ‘Heart of Darkness’ o ‘Hammering The Cramps’ si sono rivelate formidabili nel consegnare ad un pubblico che li cercava un cantore nuovo ed uno stile nuovo. L’anima tormentata e complessa di Linkous si offriva subito nella sua duplice natura e per alcuni, tra cui il sottoscritto, si trattò di un’autentica folgorazione. La dolce malinconia dei brani elettracustici  si spartiva quei pochi ma fenomenali minuti con le lacerazioni elettriche più viscerali, allineando con stupefacente coerenza emotiva le tessere di un mosaico policromo, l’intima confessione di un vero sognatore. A rendere tutto più memorabile avrebbero pensato poche ma geniali scelte adottate come amalgama in un flusso sonoro ininterrotto ma ricco di irregolarità: il condimento del balocco formale, gli sbuffi, le interferenze, le distorsioni, la bassa tecnologia, le vocine sussurrate o filtrate, in poche parole lo ‘Sparklehorse style’. Intercettato dalla mia curiosità onnivora di quasi diciottenne, il primo Sparklehorse mi è entrato subito nel cuore e non ne è mai più uscito. Lo ascolto con parsimonia ma con piacere intatto e riesce a rapirmi oggi come le primissime volte: ha contribuito in maniera significativa a modellare il mio gusto, ad apprezzare la musica sincera e di (apparentemente) basso profilo, orientandomi prima di tanti altri dischi fondamentali verso l’universo degli indipendenti. E’ un capolavoro, pezzi come ‘Someday I Will Treat You Good’, ‘Weird sisters’ e ‘Saturday’ sono una benedizione e non mi stancheranno mai, anche se nel ’97 stancarono lui e lo schiantarono in un buco nero pauroso. Ripresosi come per miracolo dallo sventurato crollo che chiuse quel primo momento di effimero successo, Linkous ha continuato a scrivere canzoni magnifiche. In ‘Good Morning Spider’ ha saputo raccontare la propria debolezza con spietata e disarmante poesia, accentuando i contrasti espressivi abbozzati con la prima prova e lasciando stupiti per l’abilità nell’andare a bersaglio con apparente distacco, puntualmente, tra la delicatezza di una ‘Painbirds’, la verve abrasiva di una ‘Pig’ e la schiettezza micidiale di una ‘Sick of Goodbyes’.

 

Ancora più evidente rispetto all’esordio, un talento pop cristallino nella scrittura – il miracoloso segno di Linkous – ma anche una tendenza, romantica e masochistica nel contempo, a svilire certe ottime intuizioni, a mantenere un atteggiamento modesto sino al paradosso come per non tradire se stesso. La sporcatura formale applicata a ‘Chaos of the Galaxy/Happy Man’, con incurante e quasi irritante menefreghismo, rappresenta Linkous e gli Sparklehorse meglio di tanti inutili giri di parole: avevi una canzone vincente ma non poteva essere davvero tua, quindi l’hai ammazzata con buona pace dei discografici e della EMI. ‘It’s a Wonderful Life’ è stato presentato tre anni più tardi come uno strepitoso esercizio di stile, con ospitate sontuose (P.J. Harvey, Tom Waits, John Parish) ed una cura eccellente sul suono (merito di Dave Fridmann), che ha però in parte disinnescato l’impatto scabro e diretto dei vecchi pezzi di Mark. Un disco che non ha saputo appassionarmi come i suoi predecessori, ma che ha pur sempre dentro perle come ‘Apple Bed’, ‘Piano Fire’ e ‘Gold Day’. Se il rischio di scivolare in una forma di lussuoso manierismo era scongiurato dall’intelligenza stessa e dalla sensibilità vera del cantautore, resta innegabile come proprio le migliori armi a sua disposizione gli si siano rivolte contro sotto la maschera impietosa e recidiva della depressione. Vittima di se stesso e della propria inguaribile infelicità, Linkous è rimasto fermo al palo per anni, incapace di tornare a comporre musica. Nel 2003 lo vidi per la prima volta, di spalla ai R.E.M. a Padova, palesemente fuori contesto: invernale nel caldo asfissiante di quel luglio padano, poco a suo agio con un pubblico assai poco sensibile e rispettoso, chiuso come in una corazza di autistico distacco, suonò come un automa pochi pezzi con una ferocia fredda, assolutamente inedita, mentre dalle prime file gli tiravano preservativi a mo’ di palloncini e lo sfottevano. Provai pena. Non lo sapevo ma quello era un Linkous che, nuovamente, rischiava l’affondamento. Grazie a Danger Mouse ne sarebbe venuto fuori ancora una volta, offrendo ai suoi fan un ultimo disco non abbastanza apprezzato ma che io trovai estremamente incoraggiante. ‘Dreamt for Light years in the Belly of a Mountain’ aveva dentro tutto ciò che ancora speravo di poter ricevere da lui: pezzi rock tirati, ballate oblique e narcotiche, ombre affascinanti in quantità industriale (che brividi ‘Knives of summertime’). Passò anche in città a presentarlo e lo show al 211, con Fennesz come spalla, fu la conferma di un promettente ritorno in campo: clima raccolto, totale partecipazione sua e di un pubblico ammirevole, bellissime suggestioni nei sussurri della sua voce, nelle immagini proiettate sullo sfondo, nel recupero di tanti pezzi favolosi dall’album d’esordio. La collaborazione rinnovata con il progetto ‘Dark Night of the Soul’, l’anno passato, sembrava inserirsi perfettamente in quest’ottica di lento ma luminoso ritorno alla vita, artisticamente (e non) intesa. Pareva prefigurare in tutto e per tutto un nuovo segmento positivo nella sua carriera, ma le cose sono andate diversamente. Nonostante le inquietudini del suo passato mi fossero ben note, il suicidio di Linkous è stato un fulmine a ciel sereno. Un po’ come quello di Chesnutt nel Natale scorso, ma senza quel disperato bisogno di moltiplicare gli sforzi ed accelerare i tempi per svuotare i cassetti della propria creatività degli ultimi, preziosissimi, rimasugli. Senza quell’impressione di necessario testamento, di lascito consapevole, di testimonianza. Anche per questo la morte di Mark e dei suoi Sparklehorse fa veramente male e non lascia consolazione, a differenza dei suoi brani, anche dei più dolenti. Non lascia uno straccio di spegazione, plausibile o meno, che alleggerisca il peso di una realtà incomprensibile per noi che siamo rimasti come bambini a bocca aperta. Stamattina, dopo aver letto la notizia che ha rotto nel peggiore dei modi un esilio dalla rete durato quasi due giorni, ho tirato fuori l’ipod e ho lavorato con la compagnia delle sue canzoni. Con Chesnutt non ne ero stato capace, e ancora aspetto di potermi rimettere ad ascoltarlo senza soffrirne. Ascoltare gli Sparklehorse oggi è stato sì triste, ma non doloroso. Mi ha trasmesso una certa carica positiva. Poi, arrivato a ‘Little Fat Baby’, ho avvertito una vera fitta: l’aveva dedicata a Vic, si era ispirato a ‘Myrtle’ per raccontare la “grazia sgraziata” del collega ed amico.

Non sono passati neanche dieci anni ma sembra trascorsa un’eternità.

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