Ss Consuntivi

Classificone 2016

 

Torno alla musica come in licenza, quasi di straforo, per postare e offrire un commento sommario alla consueta classifica dei miei dischi preferiti dell’anno che sta andando in archivio, un modestissimo 2016. “Consueta” e “preferiti” poi tanto per dire, visto che 1) mi sono accorto di aver bellamente saltato l’appuntamento dodici mesi fa e 2) sarebbe più corretto parlare di dischi “meno sgraditi”, in un’annata che conferma e rilancia il trend a ribasso dell’ultimo decennio, piazzandosi idealmente in coda a qualsiasi graduatoria a tema. Ecco, sembra mi sia ridotto come quei vecchi catarrosi che si lamentano dei tempi moderni rimpiangendo a oltranza il passato, magari è effettivamente così. Una questione annosa, un luogo comune al quale non mi riesce di sottrarmi. Però dai, è innegabile che la qualità media sia un po’ andata a farsi benedire ormai.

Non fosse abbastanza, è stato un anno più che tremendo per la scomparsa di alcuni giganti della canzone, David Bowie, Leonard Cohen e Prince, con i primi due a vincere se non altro una disperata lotta contro il tempo per lasciare agli appassionati i rispettivi album-testamento un attimo prima che diventassero effettivamente postumi. Sull’altro piatto della bilancia, il Nobel per la letteratura attribuito a Bob Dylan, un riconoscimento che, piaccia o meno, rilancia le azioni di un universo culturale da sempre guardato con snobismo alla stregua di un volgare intrattenimento da due soldi. Certo Dylan è Dylan, e di artisti (meglio “personaggi” oggi) come lui non se ne vede l’ombra, all’orizzonte.

Inevitabile premiare ancora Bowie e Cohen, per l’urgenza cui già si è fatto cenno e per l’estremo magnetismo che sia “Blackstar” che “You Want It Darker” esprimono, anche nell’inevitabile sfumare nell’ombra che i titoli stessi evocano. In cima ho voluto premiare (nostalgicamente magari) una Emma Pollock che ha regalato un disco in linea con quelli che scriveva quando era alla guida dei Delgados. Se il tenore generale è calato così vistosamente mentre il suo si è mantenuto ad alti livelli, era impossibile non celebrarla con tutti gli onori del caso. Discorso analogo merita King Creosote, che in ambito folk-cantautoriale si conferma una solida certezza. Poi nel mucchio ecco qualche perla garage revival (Cool Ghouls per il jangle-pop, The Conquerors per il power-pop), stelle del pop al femminile più (l’australiana Olympia) o meno esordienti (la sempre efficacissima Angel Olsen) e stelle del pop al maschile più (il gioiellino Roar) o meno esordienti (Lawrence Arabia, che all’inseguimento del mito Harry Nilsson migliora di anno in anno).

Mi sono limitato a cinquanta posizioni (altre cinquanta le trovate qui, ma a quel punto arriviamo a comprendere anche i 6,5 o giù di lì, e non è che ne valga la pena). Per completezza può valere la pena citare anche la top ten delle delusioni, premesso che non vi rientrano i due peggiori dischi ascoltati quest’anno (Bloc Party e Kaiser Chiefs) – visto che entrambe le band le ho sempre trovate abbastanza rivoltanti – e l’ennesima sciacallata necrofila ai danni di Jeff Buckley. Senza particolare ordine di disprezzo, menziono i Crocodiles ormai synth-oriented, Joan As A Police Woman, Tortoise, Warpaint, Animal Collective, Beth Orton, Josephine Foster, l’insulso album di cover di Mark Kozelek che si è scordato la chitarra, Mull Historical Society e Soft Hills. Come dite? Sono già dieci? E io che volevo tirare in ballo ancora quella che dovrebbe essere, se Dio vorrà, davvero l’ultima fatica intestata ai Guided By Voices, “Please Be Honest”! Pensavo che con un Pollard così malmesso fosse la volta buona per ignorarlo, e invece no: ha abbassato la media di uscite da cinque a due, ma l’unico disco solista di quest’anno, “Of Course, You Are”, è ancora buono. Mannaggia a lui e a me che insisto ad andargli dietro.

 

 1. Emma Pollock ‘In Search of Harperfield’

  2. David Bowie  ‘Blackstar’

  3. King Creosote  ‘Astronaut Meets Appleman’

 4. Cool Ghouls  ‘Animal Races’

 5. Leonard Cohen  ‘You Want It Darker’

 6. Angel Olsen  ‘My Woman’

 7. Olympia  ‘Self Talk’

 8. Lawrence Arabia  ‘Absolute Truth’

 9. Roar  ‘Impossible Animals’

 10. The Conquerors ‘Wyld Time’

 

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 11. Thomas Cohen  ‘Bloom Forever’

 12. Os Noctàmbulos  ‘Stranger’

 13. Car Seat Headrest  ‘Teens Of Denial’

 14. Grant-Lee Phillips  ‘The Narrows’

 15. Hope Sandoval and the Warm Inventions  ‘Until The Hunter’

 16. Doug Tuttle  ‘It Calls On Me’

  17. Woods  ‘City Sun Eater in the River of Light’

  18. Thee Oh Sees  ‘A Weird Exits’

  19. Cate Le Bon  ‘Crab Day’

  20. The Claypool Lennon Delirium  ‘Monolith Of Phobos’

 21. Mountains And Rainbows  ‘Particles’

  22. Scott & Charlene’s Wedding  ‘Mid Thirties Single Scene’

 23. Mothers  ‘When You Walk a Long Distance You Are Tired’

  24. The Yearning  ‘Evening Souvenirs’

  25. Vinicio Capossela  ‘Canzoni della Cupa’

 26. Cory Hanson  ‘The Unborn Capitalist From Limbo’

 27. Death Valley Girls  ‘Glow In The Dark’

  28. California Snow Story  ‘Some Other Places’

  29. Levitation Room  ‘Ethos’

  30. Sam Coomes  ‘Bugger Me’

 31. Black Mountain  ‘IV’

 32. Wussy  ‘Forever Sound’

 33. The Divine Comedy  ‘Foreverland’

 34. Nick Cave & The Bad Seeds  ‘Skeleton Tree’

 35. Karl Blau  ‘Introducing Karl Blau’

 36. Laish  ‘Pendulum Swing’

 37. Sam Means  ‘Ten Songs’

 38. Okkervil River  ‘Away’

 39. Kevin Morby  ‘Singing Saw’

 40. Riley Walker ‘Golden Sings That Have Been Sung’

 41. The Burning Hell  ‘Public Library’

 42. Pavo Pavo  ‘Young Narrator in the Breakers’

 43. Audacity  ‘Hyper Vessels’

 44. Wytches  ‘All Your Happy Life’

 45. Marissa Nadler  ‘Strangers’

 46. Whitney  ‘Light Upon The Lake’

 47. Tacocat  ‘Lost Time’

 48. Basia Bulat  ‘Good Advice’

 49. Chris Bathgate  ‘Old Factory Ep’

 50. Brigid Mae Power  ‘Brigid Mae Power’

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Classificone 2014

 

E’ un ritardo mostruoso quello con cui arrivo stavolta al consuntivo di fine anno. Forse è perché ho voluto tenermi un certo margine sperando di recuperare album meritevoli, ma mi ha detto male (tra i ripescaggi tardivi solo uno sarebbe degno di entrare in classifica, ed è il disco di canzonette dei notoriamente più marci garage-bluesmen The Abigails). Forse, molto più semplicemente, è colpa della delusione alquanto concente a proposito di un’annata davvero scarsa, la più fiacca da quando mi concedo questo giochino conclusivo futile e ovviamente autoreferenziale fino al ridicolo. Che dire del 2014 appena andato in archivio? Beh, intanto che la vittoria la attribuisco ancora una volta a una giovane sorpresa femminile, quella Angel Olsen che avevo lasciato corista dal sapore country in lavori di Bonnie Prince Billy e riscopro, appena tre anni più tardi, artista completa e convincente. Un giudizio, quello su di lei, in aperto contrasto rispetto a quello con cui l’amico Lorenzo Righetto l’ha liquidata sbrigativamente su Ondarock. Il suddetto mi ha anche canzonato per la scelta, ma io resto convinto che la grossa cantonata l’abbia presa lui: certi commenti in rete mi confortano in tal senso. Piazza d’onore per un artista che “sorpresa” non è di certo, ma che non pochi fan hanno con poca lungimiranza abbandonato per strada. Jack White è uno dei pochi geni di questi anni, specie per quel che concerne la sua generazione. La sua via per l’attualizzazione di vecchi stilemi blues, soul e rock è tra le più credibili di questi anni anche se non siamo in molti a pensarla così (gli altri, temo, sono rimasti a cantare “Seven Nation Army” – oh pardon, “Po Popo Po Popo Pooo” – nelle loro curve mentali). Il terzo posto, beh, ha effettivamente del clamoroso: avrebbe forse meritato la prima piazza e moralmente se l’è aggiudicata. Parlo di quella cosa assurda che ha tirato fuori il tizio dei Minus 5, buttandola poi di fatto nel cesso senza promozione alcuna e senza una pubblicazione in formato CD. E’ comunque un quintuplo pieno di Americana coi fiocchi, un compendio che chiunque si professi estimatore dei Wilco non dovrebbe perdersi. E invece, anche qui sta il clamoroso, il disco in questione non se l’è cagato nessuno. Ma non parlo in esclusiva della sempre arretrata (e tamarrissima) Italia, bensì del mondo tutto. E non semplicemente in quanto a pubblico: sono gli “addetti ai lavori” che hanno dato buca. Nessuno ne ha scritto, da nessuna parte, tranne il sottoscritto che, vabbé, non fa testo. Certo, mandare a memoria tre ore e mezza di musica (superbe) era un bell’impegno, ma almeno provarci… Forse è meglio così, meglio il silenzio alle sentenze di chi ascolta un paio di volte, distrattamente, solo le prime 2/3 tracce (perché lo sapete che funziona così, no? Questa è la critica musicale oggi). A seguire King Creosote, che ha tirato fuori un album folk-pop stupendo, quindi i Reigning Sound, che hanno fatto lo stesso in ambito garage-revival al velluto, e Ariel Pink con un folle minestrone pop, frastornante. In un anno con parecchi lavori più che discreti, ma difficilmente davvero buoni, mi hanno lasciato migliori sensazioni le voci femminili: oltre alla Olsen e a St. Vincent (eponimo pregevole per lei) meritano una menzione Annika Norlin aka Hello Saferide (la sua “Berlin” è la mia canzone del 2014), la cantante (finalmente tale) dei Magik Markers, Elisa Ambrogio, due Julia dalla periferia dell’impero (l’aussie Stone, in coppia col fratello Angus, e la sorprendente polacca Marcell), l’incredibile voce dei rocker-psichedelici scandinavi Blues Pills, l’ex rockabilly Imelda May e diverse altre tra le quali, non l’avrei mai detto, una credibilissima Lana Del Rey. Il mio genere di riferimento, il garage, è andato piuttosto male, salvato giusto da vecchie volpi come Ian Svenonius o Billy Childish. Poca roba. Ma se alcuni “vecchi” han fatto il loro con la necessaria passione (dagli Shellac di Steve Albini a Anthony Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, da Thurston Moore  – bravo, non ci speravo mica – a Kozelek e Lanegan, Morrissey e Damon Albarn), c’è chi decisamente ha fallito. Parlo dei Blonde Redhead, che dopo “Penny Sparkle” erano all’ultimo appello ma non sono riusciti a evitare il mio trentatre giri di legno. Che strazio, pietra sopra.

E ora sotto con il 2015: già due album molto belli, il nuovo Decemberists e il ritorno dopo un decennio delle Sleater-Kinney. Il campione è troppo ridotto per essere attendibile ma mi piace pensare che sia in corso un’inversione di tendenza. Vedremo.

 

 1. Angel Olsen ‘Burn Your Fire For No Witness’

 2. Jack White  ‘Lazaretto’

 3. Minus 5  ‘Scott The Hoople in The Dungeon of Horror’

 4. King Creosote  ‘From Scotland With Love

 5. Reigning Sound  ‘Shattered

 6. Ariel Pink  ‘Pom Pom’

 7. Alvvays  ‘Alvvays’

 8. Shellac  ‘Dude, Incredible’

 9. Spoon  ‘They Want My Soul’

 10. Sloan ‘Commonwealth’

 

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 11. St. Vincent  ‘St. Vincent’

 12. Hello Saferide  ‘The Fox, The Hunter and Hello Saferide’

 13. The Brian Jonestown Massacre  ‘Revelation’

 14. Thurston Moore  ‘The Best Day’

 15. Elisa Ambrogio  ‘The Immoralist’

 16. Cool Ghouls  ‘A Swirling Fire Burning Through the Rye’

 17. Half Man Half Biscuit  ‘Urge For Offal’

 18. The Growlers  ‘Chinese Fountain’

 19. Timber Timbre  ‘Hot Dreams’

 20. Sun Kil Moon  ‘Benji’

 21. Angus & Julia Stone  ‘Angus & Julia Stone’

 22. Tiny Ruins  ‘Brightly Painted One’

 23. Julia Marcell  ‘Sentiments’

 24. James Yorkston  ‘The Cellardyke Recording and Wassailing Society’

 25. Anders Parker  ‘There’s a Blue Bird in My Heart’

 26. Dean Wareham  ‘Dean Wareham’

 27. Damon Albarn  ‘Everyday Robots’

 28. Blues Pills  ‘Blues Pills’

 29. Circulatory System  ‘Mosaics Within Mosaics’

 30. Cinerama  ‘Seven Wonders of The World’

 31. Ultimate Painting  ‘Ultimate Painting’

 32. A Sunny Day in Glasgow  ‘Sea When Absent’

 33. Mark Lanegan Band  ‘Phantom Radio’

 34. The New Pornographers  ‘Brill Bruisers’

 35. Imelda May  ‘Tribal’

 36. Lana Del Rey  ‘Ultraviolence’

 37. Swans  ‘To Be Kind’

 38. Lake Street Dive  ‘Bad Self Portraits’

 39. Wild Billy Childish & CTMF  ‘Acorn Man’

 40. Cosines  ‘Oscillations’

 41. Sharon Van Etten  ‘Are We There’

 42. The Horrors  ‘Luminous’

 43. Mirah  ‘Changing Light’

 44. Anna Aaron  ‘Neuro’

 45. Lenguas Largas  ‘Come On In’

 46. Slow Club  ‘Complete Surrender’

 47. Pink Mountaintops  ‘Get Back’

 48. Liam Finn  ‘The Nihilist’

 49. Benjamin Booker  ‘Benjamin Booker’

 50. Wovenhand  ‘Refractory Obdurate’

 51. The Pearlfishers ‘Open Up Your Colouring Book’

 52. Gruff Rhys  ‘American Interior’

 53. Circus Devils  ‘Escape’

 54. Robyn Hitchcock  ‘The Man Upstairs’

 55. Chain & The Gang  ‘Minimum Rock’n’roll’

 56. The Soft Hills  ‘Departure’

 57. Stanley Brinks and The Wave Pictures  ‘Gin’

 58. Will Stratton  ‘Gray Lodge Wisdom’

 59. Allo Darlin’  ‘We Come From the Same Place’

 60. Morrissey  ‘World Peace Is None of Your Business’

 61. King Khan & The Gris Gris  ‘Murder Burgers’

 62. Woods  ‘With Light and With Love’

 63. Nicole Atkins ‘Slow Phaser’

 64. Warpaint  ‘Warpaint’

 65. Sallie Ford  ‘Slap Back’

 66. Marissa Nadler  ‘July’

 67. Paul Cary  ‘Coyote’

 68. Real Estate  ‘Atlas’

 69. Andrew Jackson Jihad  ‘Christmas Island’

 70. Estrogen Highs  ‘Hear Me on the Number Station’

 71. The Ghost of a Saber Tooth Tiger  ‘Midnight Sun’

 72. Quilt  ‘Held in Splendor’

 73. Papercuts  ‘Life Among The Savages’

 74. The Vaselines  ‘V For Vaselines’

 75. Conor Oberst  ‘Upside Down Mountain’

 76. Jim Noir  ‘Finnish Line’

 77. The Skygreen Leopards  ‘Family Crimes’

 78. Ryan Adams  ‘Ryan Adams’

 79. Micah P. Hinson  ‘Micah P. Hinson and the Nothing’

 80. Parquet Courts  ‘Sunbathing Animal’

 81. New Bums  ‘Voices in a Rented Room’

 82. C.W. Stoneking  ‘Gon’ Boogaloo’

 83. Meatbodies  ‘Meatbodies’

 84. Vashti Bunyan  ‘Heartleap’

 85. The Raveonettes  ‘Pe’ahi’

 86. Intergalactic Lovers  ‘Little Heavy Burdens’

 87. Balduin  ‘All In A Dream’

 88. Doug Tuttle  ‘Doug Tuttle’

 89. Radiator Hospital  ‘Torch Song’

 90. Priests  ‘Bodies and Control and Money and Power’

 91. Fear Of Men  ‘Loom’

 92. The Soundcarriers  ‘Entropicalia’

 93. Comet Gain  ‘Paperback Ghosts’

 94. Greg Ashley  ‘Another Generation of Slaves’

 95. Luke Haines  ‘New York in The ’70s’

 96. King Tuff  ‘Black Moon Spell’

 97. Ty Segall  ‘Manipulator’

 98. Wussy  ‘Attica!’

 99. Chuck Prophet  ‘Night Surfer’

 100. Les Big Byrd  ‘They Worshipped Cats’

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Classificone 2013

Ci arrivo con qualche giorno di ritardo, e forse è sintomo di come l’annata appena mandata in archivio non sia stata esattamente eccezionale. E’ la tendenza degli ultimi anni e mai come ora mancano indirizzi stilistici davvero pregnanti e incisivi, oltre ai dischi straordinari, si intende. Due considerazioni mi hanno colpito nelle classifiche di fine anno pubblicate un po’ ovunque, ma non so bene se possano essere messe in una qualche forma di relazione. In primo luogo non ricordo di aver letto due classifiche uguali o quanto meno simili, specie per le posizioni importanti. Questo, sia ben chiaro, non è affatto un male, anzi. Ma sarebbe uno sbaglio attribuirlo al fatto che negli ultimi dodici mesi siano usciti album straordinari a pacchi. E’ più plausibile, semmai, affidarci alla constatazione che sono stati pubblicati tanti lavori più o meno validi, ma senza un solo autentico capolavoro. E qui mi aggancio alla seconda riflessione: come termometro faccio spesso riferimento al sito di rating Rateyourmusic.com, dove gli utenti iscritti possono dare un voto a ogni disco presente nello sterminato database e in base alla media dei giudizi ricevuti (e al loro numero) vengono poi stilate le relative chart. Bene, con il punteggio ottenuto dai primissimi dischi votati già solo cinque o dieci anni fa difficilmente si sarebbe entrati nei primi cinquanta. Figuriamoci cercare un raffronto con le annate epiche tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta: non c’è partita. Questo vorrà dire qualcosa? Significa che oggi nei negozi arriva solo merda fumante? Ovviamente no. Forse solo che il fatto di non avere più molto da inventare (o da reinventare) influisce in maniera determinante sulle nostre convinzioni di fruitori “critici” e ogni parallelo con il passato tende a rivelarsi invariabilmente squilibrato. Dal canto mio può valere quanto già scritto nelle edizioni precedenti di questo mio post rituale. Nulla di stratosferico, alcune cose dannatamente buone, molte cose buone ma senza mai gridare al miracolo. Curioso poi come per la terza volta negli ultimi quattro anni abbia offerto lo scettro a un’opera alquanto distante dai miei più canonici ascolti: è toccato alla musica concreta, all’intimismo minimalista (a avanguardista) di Julia Holter e della sua terza fatica, “Loud City Song”, un disco tra gli ultimi ascoltati quest’anno e che letteralmente mi ha spiazzato. Piazza d’onore per una delle sorprese più positive della stagione, i Burning Hell, che in passato avevo avuto modo di apprezzare ma mai a questi livelli. Terzo gradino del podio per Janelle Monae che, per quanto mi riguarda, con “The Electric Lady” ha saputo confermare tutte le notevoli impressioni del precedente “The ArchAndroid”. Con i vecchi leoni inglesi Bowie e McCartney autori di ottime prove di ritorno, e ulteriori conferme dai Thee Oh Sees – che hanno appeso gli strumenti al chiodo sul più bello, dato lo stato di grazia di queste ultime annate – da Bill Callahan, dalla Bevis Frond di Nick Saloman e dai Besnard Lakes, ho messo nelle fondamenta della classifica un po’ di materiale ad altissima resistenza. Molto bene Mark Kozelek quest’anno: sensazionale il disco realizzato a quattro mani con Jimmy LaValle, redhousepainteriano quello condiviso con i Desertshore. Un tantino insipida invece la sua raccolta di cover “Like Rats”, ma pur sempre migliore di quella di Scott Matthew, una delle delusioni dell’anno, assieme alle nuove cose di Flaming Lips, Midlake, Nick Cave, Low, No Age, Woodpigeon, Obits, John Grant, Mark Lanegan e Ty Segall, dischi incapaci di andare al di là di una striminzita sufficienza. Tra le più gradite sorprese, lavori che hanno fatto decisamente meglio dei loro più diretti predecessori, segnalo invece Of Montreal e Camera Obscura (entrambi recuperati a grandi livelli, secondo me), Vampire Weekend, Veils, Electric Soft Parade e – del tutto inaspettatamente – Cocorosie. In controtendenza rispetto all’opinione generale ho trovato discreti i nuovi Devendra Banhart e Phoenix, e non così ripugnante il (generalmente irricevibile) quinto sigillo degli Strokes. La nuova onda femminile di Savages e Haim mi ha lasciato perlopiù indifferente, e non ho ceduto alle algide lusinghe della tanto osannata Agnes Obel, fuffa scandinava senz’anima. Restando in zona ho invece ceduto senza riserve al pop festoso della danese Oh Land, altro fortunato recupero dell’ultima ora. Annata non male per le voci femminili: tra le altre che ho molto gradito non posso che menzionare le Those Darlins, Alela diane, Josephine Foster e Jenny Hval (tutte conferme), oltre ai convincenti ritorni di Mazzy Star e Pastels. Il garage, stando alla classifica, non è più il mio genere di riferimento ma, oltre alla band di John Dwyer in odor di congedo, piazza comunque (tra i primi cento) certezze e promesse come Oblivians, Carnivores, Fidlar, Mikal Cronin (imbastardito dal pop barocco), Nobunny, Dead Ghosts, King Khan & The Shrines, Crazy & The Brains, Adam Widener, Slow Warm Death, Audacity, The Ooga Boogas, Hanni El Khatib, A Giant Dog, Dirtbombs, Warm Soda, Jeffrey Novak, e Shannon & The Clams (da loro mi aspettavo di più), oltre ai ragazzini greci Bazooka: annata non indimenticabile ma nemmeno da buttar via. Un’ultima considerazione per il vecchio incontinente Robert Pollard. Sembrava l’anno buono per tenerlo fuori dalle menzioni: anonimi i nuovi Guided By Voices, decisamente pessimi i due nuovi album usciti sotto il moniker Circus Devils, eppure un dischetto godibile l’ha tirato fuori anche stavolta (uno dei tre usciti a suo nome). Non so come si mette con tempi e priorità, ora che ho lasciato dopo cinque anni Monthlymusic (ma non in maniera irreversibile): magari uno sputo di recensione ci scappa anche per lui…

 

1. Julia Holter ‘Loud City Song’

2. The Burning Hell  ‘People

3. Janelle Monáe  ‘The Electric Lady

4. David Bowie  ‘The Next Day

5. Mark Kozelek & Jimmy Lavalle  ‘Perils From The Sea

6. Thee Oh Sees  ‘Floatin Coffin’

7. The Bevis Frond  ‘White Numbers’

8. Oh Land  ‘Wish Bone’

9. Bill Callahan  ‘Dream River’

10. The Besnard Lakes ‘Until in Excess, Imperceptible UFO

 

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11. Camera Obscura  ‘Desire Lines’

12. of Montreal  ‘Lousy With Sylvianbriar’

13. Those Darlins  ‘Blur The Line’

14. Oblivians  ‘Desperation

15. The Electric Soft Parade  ‘Idiots’

16. Paul McCartney  ‘New’

17. Tripwires  ‘Spacehopper’

18. Alela Diane  ‘About Farewell’

19. Josephine Foster  ‘I’m A Dreamer’

20. Jenny Hval  ‘Innocence Is Kinky’

21. Carnivores  ‘Second Impulse’

22. Bubblegum Lemonade  ‘Some Like It Pop

23. Fidlar  ‘Fidlar’

24. Mazzy Star  ‘Seasons Of Your Day’

25. The Pastels  ‘Slow Summits’

26. Iron & Wine  ‘Ghost On Ghost’

27. Mikal Cronin  ‘MCII’

28. Jacco Gardner  ‘Cabinets Of Curiosites’

29. Califone  ‘Stitches’

30. Plantman  ‘Whispering Trees’

 31. Yo La Tengo  ‘Fade’

32. The Veils  ‘Time Stays, We Go’

33. Vampire Weekend  ‘Modern Vampires Of The City’

34. Nobunny  ‘Secret Songs: Reflections From the Ear Mirror’

35. Deerhunter  ‘Monomania’

36. Amor De Dias  ‘The House At Sea’

37. Robert Pollard  ‘Honey Locust Honky Tonk’

38. Portugal. The Man  ‘Evil Friends’

39. Elf Power  ‘Sunlight on the Moon’

40. Anaïs Mitchell & Jefferson Hamer  ‘Child Ballads’

41. Dead Ghosts  ‘Can’t Get No’

42. King Khan & His Shrines  ‘Idle No More’

43. Mark Kozelek & Desertshore  ‘Mark Kozelek & Desertshore’

44. Crazy & The Brains  ‘Let Me Go’

45. Tullycraft  ‘Lost In Light Rotation’

46. Cate Le Bon  ‘Mug Museum’

47. My Bloody Valentine  ‘MBV’

48. British Sea Power  ‘Machineries Of Joy’

49. Big Scary  ‘Not Art’

50. Quasi  ‘Mole City’

51. Frog Eyes ‘Carey’s Cold Spring’

52. Neko Case  ‘The Worse Things Get, the Harder I Fight, the Harder I Fight, the More I Love You’

53. Basia Bulat  ‘Tall Tall Shadow’

54. Adam Widener  ‘Vesuvio Nights’

55. Laish  ‘Obituaries’

56. Phosphorescent  ‘Muchacho’

57. Slow Warm Death  ‘Slow Warm Death’

58. La Femme  ‘Psycho Tropical Berlin’

59. Goldfrapp  ‘Tales of Us’

60. The Indelicates  ‘Diseases of England’

61. Audacity  ‘Butter Knife’

62. Ooga Boogas  ‘Ooga Boogas’

63. Shawn Smith ‘Kid Bakersfield’

64. I Am Kloot  ‘Let It All In’

65. Hanni El Khatib  ‘Head in The Dirt’

66. The Ballet  ‘I Blame Society’

67. A Giant Dog  ‘Bone’

68. Massimo Volume  ‘Aspettando i Barbari’

69. San Fermin  ‘San Fermin’

70. Cocorosie  ‘Tales of a GrassWidow’

71. Unknown Mortal Orchestra  ‘II’

72. Nancy Elizabeth  ‘Dancing’

73. Lee Ranaldo & The Dust  ‘Last Night on Earth’

74. Alasdair Roberts  ‘A Wonder Working Stone’

75. Future Bible Heroes  ‘Partygoing’

76. Mum  ‘Smilewound’

77. Phoenix  ‘Bankrupt’

78. Bazooka  ‘Bazooka’

79. The Dirtbombs  ‘Ooey Gooey Chewy Ka-Blooey!’

80. Cass McCombs  ‘Big Wheel and Others’

81. Daughter  ‘If You Leave’

82. Club 8  ‘Above The City’

83. Scout Niblett  ‘It’s Up to Emma’

84. Warm Soda  ‘Someone For You’

85. Thomas Dybdahl  ‘What’s Left Is Forever’

86. Frontier Ruckus  ‘Eternity of Dimming’

87. Devendra Banhart  ‘Mala’

88. Jeffrey Novak  ‘Lemon Kid’

89. Sky Larkin  ‘Motto’

90. Akron/Family  ‘Sub Verses’

91. Rilo Kiley  ‘Rkives’

92. Melt-Banana  ‘Fetch’

93. Shannon & The Clams  ‘Dreams in the Rat House’

94. Girls Names  ‘The New Life’

95. TOY  ‘Join the Dots’

96. Sebadoh  ‘Defend Yourself’

97. Jackson Scott  ‘Melbourne’

98. Sweet Baboo  ‘Ships’

99. Bonnie Prince Billy  ‘Bonnie Prince Billy’

100. The Secret History  ‘Americans Singing in the Dark’

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Monthlymusic.it is 50!        

 

Mi concedo il lusso di una breve parentesi autocelebrativa. Mentre su Ondarock sto prendendo il giro e le cose sembrano funzionare bene, Monthlymusic.it festeggia in silenzio i suoi primi cinquanta mesi di vita. Trattandosi di una webzine il cui il calendario è tutto giocato sull’alternarsi dei mesi ed essendo partita nella più assoluta sordina ormai quattro anni fa, senza pretese e con una sua incoscienza bella, questo suo piccolo traguardo mi sembra degno di una pur minima sottolineatura. Ne approfitto allora per tracciare un consuntivo in merito a una collaborazione che, per quanto mi riguarda, è cresciuta e non poco d’importanza con l’andar del tempo. Forse è sufficiente la lunghezza dei pezzi a chiarirlo più di tanti aggettivi. In principio l’organizzatore del progetto aveva imposto tra i vincoli insindacabili alla partecipazione un limite numerico alle battute di ogni recensione. Non ricordo con precisione di quante parole si trattasse ma mi basta tornare alle prime cose che ho scritto per il sito per ritrovarmi schiacciato dalla necessità dei tagli, peggio di un qualsiasi ministro dell’economia di questi tempi. La sintesi, devo dire, è una virtù. Non ho problemi a riconoscerlo, è qualcosa che ammiro in un testo. Ma se si parla di dischi trovo non meno gratificante che tutti gli spunti interessanti siano messi opportunamente in rilievo e vengano a galla. Questo spiega perché, pur esercitandomi con costanza nella nobile arte della stringatezza (e Twitter nella sua semplicità “basica” è una piacevole palestra), ho insistito affinché la tenaglia del “conteggio parole” venisse almeno in parte smorzata. A leggere le mie ultime critiche sulla webzine si potrebbe pensare che la vecchia regola sia poi stata abbandonata del tutto, ma non è così. Per mia natura soffro di incontinenza da idee e riflessioni, tendo a tracimare, a buttare nel calderone tutto ciò che ritengo valido o interessante. Nonostante ciò, anche questi articoletti sono frutto di una sostanziale disciplina. Ricchi, ma a modo loro morigerati. Qualcuno che si è trovato uno dei miei link tra le scatole ha poi liquidato il lavoro con l’acronimo TMI, costringendomi ad una repentina verifica in rete e alla scoperta che, evidentemente, l’accuratezza di quanto si racconta non è più annoverata tra le voci positive nella “stampa” di oggi. La frenesia e la fruizione iperparcellizzata non mi preoccupano. Se quello che leggo è apprezzabile, la sua lunghezza passa in secondo piano. Se invece è solo di slogan e teaser che vado in cerca, la rete ne è piena e un posto, più o meno, varrà l’altro. Senza rancori, senza eccessiva fidelizzazione, e non è neppure detto che questo sia un male. Tornando allo specifico dei miei pezzi su Monthlymusic, mi preme ribadire che di quest’allegra brigata io resto (felicemente) la pecora nera. Gli altri autori accendono l’immaginazione e la fanno vagare libera, tra slanci poetici e legittime ambizioni. Io preferisco ancora parlare in concreto dei dischi scelti di volta in volta, e per farlo ho trovato comunque una piacevole soluzione di compromesso: descrivere con la necessaria dovizia di particolari un album e il suo autore ma farlo nella maniera meno convenzionale o ingessata possibile. Raccontando storie servendomi della raccolta di canzoni a mo’ di pretesto. Romanzando, forse anche oltre il lecito. Affabulando, quando mi riesce di aprire il baule dei trucchi. Per i miei articoli “professionali” c’è il rigore, il volto ultra-autorevole della webzine no. 1, Ondarock. Per gli altri, quelli in eterna licenza, quelli volutamente ludici e svagati, MM rimane invece un diversivo gustoso e in fondo necessario: nonostante i loro eccessi, i bizantinismi e le tante (forse troppe) coloriture, sono particolarmente legato a queste cinquanta recensioni “anomale”. Anche se spesso non omaggiano proprio dei capolavori. I soggetti di volta in volta trascinati in scena sono più significativi per come appaiono che non per come siano in realtà, ecco perché mi tocca ragionare sempre secondo la logica dell’appeal letterario che un determinato artista o band può evocare piuttosto che in base all’effettivo valore della sua opera. Anche in questo senso, nella scuderia MM faccio eccezione. Poi certo, quando uno è messo con le spalle al muro da un disco deve per forza adattarsi. Anche io quindi ho ceduto alle sirene della pura narrazione, in un paio di occasioni. Una volta perché l’album in questione – ‘Embryonic’ dei Flaming Lips – non era praticamente raccontabile in forma canonica e richiedeva comunque il sostegno della fantasia e dello stream of consciousness. La seconda, più che altro, per stanchezza da parte mia: un lavoro deludente dei Belle & Sebastian il cui titolo, ‘Write About Love’, mi ha spinto a costruire una sorta di dialogo o polifonia immaginaria servendomi di una miriade di frammenti sull’amore contenuti nei loro testi,  lungo tutta la carriera. Con risultati certo più originali che soddisfacenti (e sono ancora autoindulgente). Bene o male, comunque, cinquanta mesi sono passati (volati?) e essere qui a tirare le somme fa anche piacere. Non senza compiacimento, resto nella schiera dei critici musicali dilettanti e abbraccio l’etichetta con lo stesso entusiasmo del primo giorno. I pezzi su MM saranno con ogni probabilità i meno letti tra le ormai centinaia che ho scritto e gettato nei mulinelli della rete a partire dal 2006. Forse però sono anche quelli che mi somigliano di più: strabordanti, contemplativi e sempre, immancabilmente, imperfetti.

 




 

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Classificone 2012

Stavo per dimenticarmene. Niente classifica, nulla di grave in effetti, ma l’influenza che da sempre mi coglie quando riesco a mettere insieme almeno dieci giorni di ferie mi ha quasi imposto di tracciare il solito consuntivo di fine anno e allora, beh, eccoci qua. Ogni volta mi ritrovo faccia a faccia con la considerazione che, no, non è stata proprio un’annata esaltante. Non credo serva neppure a molto ripetersi, che nella musica non si inventi più nulla di epocale (a parte forse in generi che mi risultano indigesti) direi che è un dato di fatto. Prendendo allora come spunto per un confronto solo gli ultimi anni (ché spingersi molto più in là nel tempo offre il fianco a paragoni impietosi ed ingenerosi), tocca riconoscere che il 2012 non ha nemmeno sfoderato quel paio di dischetti da 9 che in passato non erano mancati. A compensare questo ulteriore scivolamento verso il basso, ho trovato tuttavia una qualità media più che accettabile. Nessun vero picco, ma una trentina buona di album che non varrebbero meno di un 8 (e le altre settanta posizioni non scendono comunque al di sotto del 7). Non male quindi.

Infine una considerazione sulle posizioni “calde” di quest’anno. Alla fine ho scelto l’esordio dei londinesi TOY. Genere dark-coldwave (à la Horrors, per intenderci). Non sarebbe il mio pane e non sarebbero i miei suoni, ma il condizionale è d’obbligo. Già l’anno scorso avevo portato in classifica un disco simile, l’esordio degli S.C.U.M., ma ammetto che questa volta l’infatuazione è stata forte. Una raccolta di canzoni con i fiocchi, spleen giusto, bella carica. Li ho anche visti dal vivo: bravi, ma meno che in studio (chitarre notevoli, voce deludente). Per la piazza d’onore premio il garage pop di King Tuff, un album eponimo di cui ho appena scritto il pezzo conclusivo dell’anno per Monthlymusic. Sul gradino basso del podio l’album del ritorno di una Fiona Apple in bello spolvero, anche se evidentemente mai tormentata come negli ultimi tempi (arrestata in Texas per qualche grammo di hashish quest’estate, ha recentemente annullato il suo tour nordamericano per stare accanto alla sua cagna malata). A scendere, un Lee Ranaldo eccellente, capace di non far rimpiangere i Sonic Youth (non è dato sapere se esistano ancora), il congedo di un’ottima compagine garage rock, i Bare Wires (il cui leader Matthew Melton sta per rilanciarsi con il nuovo progetto Warm Soda), il sorprendente esordio di una ragazzina inglese di grande talento (Beth Jeans Houghton), il convincente ritorno dei losangelini Earlimart e di un Mark Lanegan che ha saputo fondere davvero meravigliosamente rock ed elettronica.

 

1. TOY ‘TOY’

2. King Tuff  ‘King Tuff

3. Fiona Apple  ‘The Idler Wheel…

4. Lee Ranaldo  ‘Between the Times and the Tides

5. Bare Wires  ‘Idle Dreams

6. Beth Jeans Houghton  ‘Yours Truly, Cellophane Nose’

7. Earlimart  ‘System Preferences’

8. Mark Lanegan Band  ‘Blues Funeral’

9. Cheater Slicks  ‘Reality Is a Grape’

10. The North Sea Scrolls ‘The North Sea Scrolls

 

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11. Ty Segall Band  ‘Slaughterhouse’

12. Spiritualized  ‘Sweet Heart, Sweet Light’

13. Hugo Race & The Fatalistes  ‘We Never Had Control’

14. Euros Childs  ‘Summer Special

15. Leonard Cohen  ‘Old Ideas’

16. The School  ‘Reading Too Much Into Things Like Everything’

17. James Yorkston  ‘I Was a Cat From a Book’

18. Spain  ‘The Soul of Spain’

19. Ty Segall & White Fence  ‘Hair’

20. Pepe Deluxé  ‘Queen of the Wave’

21. The Barbaras  ‘2006-2008’

22. The Abigails  ‘Songs of Love and Despair

23. Susanne Sundfør  ‘The Silicone Veil’

24. Death By Unga Bunga  ‘The Kids Are Up to No Good’

25. Andrew Bird  ‘Break It Yourself’

26. First Aid Kit  ‘The Lion’s Roar’

27. Burning Hearts  ‘Extinctions’

28. Trespassers William  ‘New Songs & Outtakes’

29. Patrick Watson  ‘Adventures in Your Own Backyard’

30. Gold Motel  ‘Gold Motel’

 31. Of Montreal  ‘Paralytic Stalks’

32. Nightingales  ‘No Love Lost’

33. The Mountain Goats  ‘Trascendental Youth’

34. Bob Dylan  ‘Tempest’

35. Jack White  ‘Blunderbuss’

36. Hannah Cohen  ‘Child Bride’

37. Beach House  ‘Bloom’

38. Aidan Knight  ‘Small Reveal’

39. Dr. Dog  ‘Be the Void’

40. Josephine Foster  ‘Blood Rushing’

41. Mrs. Magician  ‘Strange Heaven’

42. Parquet Courts  ‘Light Up Gold’

43. Gentleman Jesse  ‘Leaving atlanta’

44. Tame Impala  ‘Lonerism’

45. Matthew E. White  ‘Big Inner’

46. Gravenhurst  ‘The Ghost in Daylight’

47. Thee Oh Sees  ‘Putrifiers II’

48. Anais Mitchell  ‘Young Man in America’

49. Tindersticks  ‘The Something Rain’

50. Lawrence Arabia  ‘The Sparrow’

51. Simon Joyner ‘Ghosts’

52. Redd Kross  ‘Researching the Blues’

53. Wild Billy Childish & The Spartan Dreggs  ‘Coastal command’

54. Marissa Nadler  ‘The sister’

55. Rover  ‘Rover’

56. Elephant Micah  ‘Louder Than Thou’

57. Allah Las  ‘Allah Las’

58. Sea+Air  ‘My Heart’s Sick Chord’

59. Chain & The Gang  ‘In Cool Blood’

60. Grant Lee Phillips  ‘Walking in the Green Corn’

61. Beth Orton  ‘Sugaring Season’

62. Rufus Wainwright  ‘Out of the Game’

63. Giant Giant Sand ‘Tucson’

64. The Raveonettes  ‘Observator’

65. Regina Spektor  ‘What We Saw From the Cheap Seats’

66. Patti Smith  ‘Banga’

67. Brendan Benson  ‘What Kind of World’

68. The Ufo Club  ‘The Ufo Club’

69. Brad  ‘United We Stand’

70. Jens Lekman  ‘I Know What Love Isn’t’

71. Go-Kart Mozart  ‘On the Hot Dog Streets’

72. Langhorne Slim  ‘The Way We Move’

73. Lambchop  ‘Mr.M’

74. Swans  ‘The Seer’

75. Guided By Voices  ‘Bears For Lunch’

76. Sun Kil Moon  ‘Among The Leaves’

77. Nude Beach  ‘II’

78. Dinosaur Jr  ‘I Bet on Sky’

79. Jessica Pratt  ‘Jessica Pratt’

80. Right Away, Great Captain!  ‘The Church of the Good Thief’

81. Lightships  ‘Electric Cables’

82. Hanne Hukkelberg  ‘Featherbrain’

83. Woven Hand  ‘The Laughing Stalk’

84. Bat For Lashes  ‘The Haunted Man’

85. Subsonics  ‘In the Black Spot’

86. Cat Power  ‘Sun’

87. Grizzly Bear  ‘Shields’

88. Todd Snider  ‘Agnostic Hymns & Stoner Fables’

89. The Tough Shits  ‘The Tough Shits’

90. Audacity  ‘Mellow Cruisers’

91. Barna Howard  ‘Barna Howard’

92. Jherek Bischoff  ‘Composed’

93. Dirty Projectors  ‘Swing Lo Magellan’

94. Dodgy  ‘Stand Upright in a Cool Place’

95. The Shins  ‘Port of Morrow’

96. Heartless Bastards  ‘Arrow’

97. Eamon McGrath  ‘Young Canadians’

98. Anna von Hausswolff  ‘Ceremony’

99. Baroness  ‘Yellow & Green’

100. The Primitives  ‘Echoes & Rhymes’

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Due parole sul garage nel 2012

       

E finalmente ecco dicembre, tempo di consuntivi. Mentre mi ritrovo un po’ svogliatamente ad arrabattarmi tra recuperi e full immersion per compilare come da tradizione la più inutile delle classifiche, convinto già in partenza che a gennaio salterà fuori il disco 2012 del millennio (puntualmente mancato al momento giusto, è il bello di queste cose), non riesco a liberarmi da un’impressione che teneramente mi attanaglia. Ho cambiato gusti musicali, un’altra volta. Ho avuto, come tutti, le mie fasi. Ho seguito il grunge con ardore adolescenziale praticamente all’indomani della morte di Cobain. Poi ho abbracciato l’indie-rock statunitense in anni in cui l’etichetta ancora non si era deteriorata, ed è stato un altro bel segmento. Quindi ho sposato le camerette scozzesi quando i Belle & Sebastian avevano ancora qualcosa da dire, salvo fare poi un rapido cambio di porte à la Monsters & Co. per ritrovarmi in analoghe cornici ma dalle parti di Goteborg o Stoccolma. Non pago di questa schizofrenia regressiva, mi sono quasi letteralmente appeso alle infinite barbe dei cantori del nuovo folk a stelle e strisce perdendo alla fine la stretta e precipitando in un baratro nerissimo.

Al mio risveglio eccomi in una sudicia bettola accompagnato da note grezzissime, tutt’attorno a me. Chitarre scalcagnate in abbondanza, melodie scolpite in un archetipo rock’n’roll vecchio come la terra, facce da schiaffi a non finire ed una simpatia innata per il disimpegno da cazzoni, alieno all’hype più ipocrita e indossato come scarduffata ed improbabile divisa dell’onestà stessa nel fare musica, commovente nella sua purezza fin quasi alle lacrime. Sto parlando del garage, ovviamente: mai come quest’anno lo celebrerò con posizioni significative nella lista delle mie preferenze musicali, e non certo perché siano uscite cose migliori rispetto agli anni passati. Le prime avvisaglie di questa mia metamorfosi le avevo avute due anni e mezzo fa, quando tratteggiai una sintetica ma appassionata difesa del genere in un pezzo dedicato a Mark Sultan, non senza un certo stupore. Quelli che sembravano solo sintomi innocenti di un parziale ripensamento estetico approdano oggi al compimento di una conversione che era quasi inevitabile, in fondo. Per la prima volta nella mia vita ho anche una giacca di pelle nera. Ereditata, non comprata, nientemeno che dalla moglie norvegese di un cugino. Prendiamolo come un segno, mi son detto.

Con la musica alternativa sospinta a folate dalle mode della rete ci ho provato ancora una volta, ma credo sia l’ultima. Ho tentato di mandar giù una quantità indicibile di immondizia spacciata per arte. Puntualmente votata all’elettronica, furba nelle etichette, falsa nel proporsi come next big thing di rito, odiosa nelle celebrazioni idiote pescate qua e là. L’ho ascoltata ed era merda. Grimes, Yeasayer, Purity Ring, giusto per tirare in ballo qualche nome. Aggiungo con un colpo di teatro i Sigur Ros (e affini), giusto per togliermi lo sfizio di un tardivo outing: pippe intollerabili, indigeste, (pseudo)concettuali, gelide, mortifere. Mai come adesso mi rendo conto che la vita, musicalmente parlando, è altrove. Nel beat sgraziato e magari pestone, nel riff malfermo che si libra col cuore, nel riciclo indefesso di chi non inventa nulla ma si ostina a citare ed omaggiare con la passione incrollabile dei bambini. Dal revival alla psichedelia farlocca, dalle ovvie derive blues al surf, dalle macchiette canzonettare alle varianti punk, dai pidocchiosi cliché lo-fi alle bizzarre commistioni con il post-hardcore. Di tutto un po’, davvero, con il solo comune denominatore di dischi orgogliosamente suonati da e per perdenti.

Il 2012 non regalerà nulla a firma Fleshtones, o King Khan & BBQ Show (che comunque stanno per tornare), o Shannon & The Clams, tanto per menzionare i padrini di questa attitudine oltre ad un paio delle primizie più sfiziose ascoltate negli ultimi anni. Chi bazzica gli avelli garage ha avuto però anche quest’anno di che deliziarsi. Nelle posizioni alte, mentre la mia graduatoria è ancora un pastrocchio confuso, piazzerò sicuramente una manciata di album che di innovativo hanno meno di zero ma restano passatempi irresistibili. L’addio dei Bare Wires, ‘Idle Dreams’, veloce e succulento; l’eponimo ‘King Tuff’, da un personaggio maiuscolo che scrive collane di hook pop a dir poco infettivi; il ritorno degli scoppiatissimi Cheater Slicks (‘Reality is a Grape’) in una bomba H da eterni dropout del rock. E poi Ty Segall, che anche se è una volpe non troppo sincera sforna ancora operine godibilissime in rapida sequenza (‘Hair’ e ‘Slaugterhouse’ sugli scudi), il recupero di un’oscura chicca power-pop (‘2006-2008’ dei The Barbaras) e poi… beh, diversi altri. Non mi brucio la sorpresa visto che tanto manca così poco. Resta indelebile questa constatazione: se non siete degli snob del cazzo e amate ancora muovere il culo a suon di rock, questo è proprio il genere che può fare per voi. E sarà paradossale ma il futuro è delle band che guardano al passato.

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R.E.M. – Una classifica

<<D’ora in poi dovremo fare a meno degli R.E.M. E al di là dell’eleganza della loro uscita di scena e del riconoscimento di quanto, tutto sommato, quest’uscita di scena potesse essere considerata addirittura opportuna, un po’ di magone, a molti di noi, rimarrà per un bel po’. Ed è già chiaro cosa non potremo evitare di fare. Staremo dietro a Buck e alle sue mille collaborazioni, ovviamente, seguiremo Mills tra i suoi tributi ai Big Star e i suoi progetti solisti, e cercheremo di capire se quel cinquantenne eccentrico e barbuto che Michael Stipe è diventato avrà la voglia di sottrarre un po’ del suo tempo alle sue fotografie e alle sue sculture e alla sua invidiabile vita da intellettuale newyorkese per farci sentire ancora quella voce che un qualche dio benevolo un giorno ha deciso chissà perché di mettergli in gola, perché la adoperasse nel modo sbalorditivo in cui è riuscito ad adoperarla in questi trent’anni passati a incidere i nostri nervi e le nostre carni cantando alcune delle canzoni più grandiose che ci sia mai capitato di ascoltare>>.

E’ passato ormai quasi un anno. Il magone citato su Ondarock da Giovanni Dozzini in questa bella recensione di ‘Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage’ , l’antologia definitiva del gruppo di Athens, rimane e rimarrà chissà per quanto. La consapevolezza che di una bella storia si sia trattato è però consolazione sufficiente. Un concetto che già avevo espresso a caldo e che ora mi sento di ribadire, nell’intro a questa personalissima (e senz’altro discutibile) classifica degli album del gruppo che spero possa essere solo la prima scritta per questo blog.

 

17. Collapse Into Now  (2011 – 4,5)

Dopo averli visti dal vivo per la quinta ed ultima volta, settembre 2008, capii che i R.E.M. erano finiti. Una percezione dettata dalla stanchezza, che mi parve evidente nonostante l’impegno realmente ammirevole, e che forse era un po’ anche mia. Avrebbe dovuto finire con quel grande tour la loro avventura, sarebbe stato perfetto. Il problema di ‘Collapse Into Now’, in fondo, sta tutto in questo ritardo non più giustificabile. Nessuno avrebbe preteso la reinvenzione della ruota a questo punto, nessuno gli avrebbe chiesto un’urgenza di cui si erano perse le tracce ormai da parecchio tempo. Una chiusura più decorosa sarebbe stata sufficiente, in pratica un addio in silenzio, ma per troppo amore verso i fan hanno commesso un ultimo passo falso, uno dei pochi peraltro. Pur con tutta la buona volontà, mi tocca ammettere che ad oggi non riesco a riconoscere ‘Collapse Into Now’ come un loro album. L’ho ascoltato pochissimo e dubito, soprattutto, che lo ascolterò ancora in futuro, non posso farci niente. Il songwriting è appannato come non mai, la produzione magniloquente ma dozzinale, il sound inutilmente muscolare e Stipe spesso poco convinto e poco convincente. La band fa quello che può con il mestiere, in un ambito di riferimento (sbrigativo pop-rock mainstream da stadio) francamente avvilente per chi ha amato fino allo stremo le ballate introspettive ed il jangle-pop degli anni d’oro. Encomiabile il vecchio Buck, l’unico a tenere su la baracca per quanto possibile, anche se l’inflazione di pezzi veloci e rombanti non riesce a silenziare un vuoto di idee generalizzato e disarmante, ben reso dalla (oggettivamente bruttissima) copertina. Il fatto che ‘Überlin’ sia l’episodio migliore, dice praticamente tutto.

 

16. Around The Sun  (2004 – 5+)

Per anni ho considerato il bistrattatissimo ‘Around The Sun’ il peggior disco della band di Athens. E per anni, in effetti, si è meritato questo non invidiabile riconoscimento. La sua frigida impalpabilità, resa ancora una volta alla perfezione dall’immagine di copertina, mi è sempre sembrata difficile da contestare. Come spesso capita, tuttavia, una parziale ma significativa riabilitazione si è fatta largo con l’andar degli anni, rivelando che non tutto in questo album era da buttare. Certo gli arrangiamenti che sposano suoni acustici un po’ fasulli ed elettronica sullo sciatto andante restano abbastanza indigesti. Certi episodi (‘The Outsiders’, il singolo ‘Aftermath’, la tirata politica ‘Final Straw’) sono francamente da dimenticare ed il carisma in generale latita alquanto. Eppure ‘Leaving New York’, nella sua semplicità, mi è sempre piaciuta un sacco, ‘Electron Blue’ è talmente zoppicante da farsi apprezzare (con un po’ di vergogna, ok) ed il lato B ha diversi passaggi non malvagi che alzano il livello generale non troppo sotto la sufficienza. Non si trattasse dei R.E.M., la si sarebbe raggiunta senza troppi problemi, ma un minimo di penalità va comunque riconosciuto considerando chi ha scritto queste canzoni sempre un po’ pasticciate. All’epoca sparare a zero sul disco e sul gruppo fu quasi specialità olimpica: evidentemente conferiva crediti preziosi in ottica snob. La verità, come spesso capita, non si veste di bianco, né di nero, ed il tenue grigiore di ‘Around The Sun’ sembra ancora qui apposta per confermarlo.

 

15. Accelerate  (2008 – 6-)

‘Accelerate’ è stato l’ultimo colpo di coda della carriera. Sull’effettiva portata di tale scossa si potrebbe discutere a lungo, anche se non credo ne valga la pena. Dopo il nadir rappresentato dall’impalpabile ‘Around The Sun’, un album veloce ed energico non avrebbe potuto sortire altri effetti che una salutare shakerata, e così andò in fin dei conti. Come con il predecessore la critica era parsa spietata ben oltre il lecito, gli entusiasmi verso un disco tonico ma non sensazionale come questo mi sono però sempre sembrati abbastanza esagerati. C’è un sound frizzante, scaltro restyling capace di far aderire la compattezza rumorosa delle loro cose più rock con le sonorità à la Byrds che resero indimenticabili le canzoni di ‘Reckoning’. E non a caso, visto che proprio l’album del 1984 venne massicciamente riproposto nel monumentale tour del 2008. Operazione intelligente, si diceva, ma dopo qualche anno è difficile ricordare ‘Accelerate’ per altri meriti, al di là dell’importante sforzo promozionale in ambito live (che valse più come panoramica retrospettiva prima dell’arrivederci, a dire il vero). Abbordabile il filotto in avvio con i pezzi più pimpanti (‘Living Well Is the Best Revenge’ e ‘Man-Sized Wreath’ le migliori), prescindibile il resto, specie le fiacche ballate elettroacustiche tipo ‘Houston’.

 

14. Dead Letter Office  (1987 – 6)

Negli anni ’80 e ’90 le raccolte di rarità, scarti, outtakes ed amenità assortite erano molto più diffuse di adesso, dove bastano un paio di inediti di dubbio valore a giustificare l’ennesima uscita spillasoldi infarcita di classici hit ormai logore. Con alcuni (inevitabili) anni di anticipo sugli ‘Incesticide’, sui ‘Westing (By Musket and Sextant)’ ed i ‘Pisces Iscariot’, anche i R.E.M. pubblicarono la loro piccola collezione di cianfrusaglie, buona allora come oggi più per i fanatici incalliti che per gli estimatori occasionali. Lo svuotamento del forziere dei B-sides chiarì come la distanza tra brani titolari e rincalzi fosse per il gruppo di Athens abbastanza marcata: un buon numero di divertissement non proprio indimenticabili, episodi strumentali curiosi o poco più e poche vere chicche. Tra queste meritano di essere ricordate le tre cover dei Velvet Underground, ispirate anche nella pochezza della loro produzione, una ‘Burning Hell’ lercia e feroce come solo i Cramps sapevano essere, e la deliziosa stramberia di ‘Voice of Harold’, in pratica Stipe che canta improvvisando le note di copertina di uno scadente album di spirituals sulla base di ‘Seven Chinese Bros’. I R.E.M. scapigliati del periodo I.R.S. erano anche e soprattutto questo: una band di amici capace di far legna e divertirsi con pochissimo.

 

13. Reveal  (2001 – 6)

Ormai ridefinito senza esitazioni come trio, il gruppo statunitense ha provato una decisa ripartenza con ‘Reveal’, album ai tempi pesantemente sottovalutato (massacrato, in pratica) ma comunque incapace di lasciare agli ascoltatori una proposta nel complesso effettivamente valida. La linea guida doveva essere quella di un atto di amore incondizionato ai Beach Boys ed al loro sound, di cui un bozzetto “preparatorio” si era già assaggiato (a piccole dosi, dato il potenziale glicemico) con ‘At My Most Beautiful’ nel precedente ‘Up’. Pilotati in quest’impresa dal vero fan dei fratelli Wilson (il bassista Mike Mills), i R.E.M. hanno indubbiamente realizzato il loro disco più pop, senza particolari incertezze ed anzi con un’ambizione abbastanza insolita per loro. Le cose non sono andate però come loro per primi avrebbero sperato, ed il risultato inquadra un lavoro magniloquente ma incapace di scongiurare un senso diffuso di artificio, un’aria viziata quasi inevitabile maneggiando oggi sonorità così irrimediabilmente retrò. Il vero campanello di allarme in ‘Reveal’ si avverte a livello di songwriting, con una meccanicità stanca negli automatismi ad indebolire un nucleo di idee di loro già fin troppo elementari. Terribilmente scontati alcuni episodi scelti come singoli (‘I’ll Take The Rain’, ‘She Just Want To Be’) a scapito di altri in tutta onestà ben più interessanti. Rimane una sinistra inquietudine dietro l’estasi gioiosa di queste canzoni, un po’ come quel senso di morte che si cela in ogni estate che si rispetti, come cantava qualcuno. E’ l’aspetto più pregevole (anche se forse non così voluto) di un disco incredibilmente dolceamaro e assai meno infame di come si è descritto. ‘I’ve Been High’ e ‘Beat a Drum’ sono molto belle, ‘Imitation of Life’ e ‘Beachball’ più che discrete.

 

12. Up  (1998 – 6/7)

Quanto sia stato difficile ripartire per Stipe, Buck e Mills dopo l’abbandono di Bill Berry possiamo senz’altro immaginarlo, ma la corretta misura ci sfuggirà sempre. In un gruppo realmente compatto e democratico quale i R.E.M. sono sempre stati, la perdita di un batterista non poteva rappresentare a livello umano nulla di meno della defezione di un cantante. E’ per questo che ‘Up’ è stato davvero il disco più difficile e sofferto di tutta la loro carriera. Da un lato la convinzione di avere ancora qualcosa di importante da dire, dall’altro la consapevolezza di doversi confrontare nel proprio quotidiano di artisti con la fine di un’alchimia a dir poco magica, uno standard vincente andato irrimediabilmente perso. Gli spifferi di questa frattura sono ancora ben visibili ma rappresentano le giuste attenuanti in un’opera comunque non priva di fascino, ambiguità e colpi di classe. Descritti non a torto all’epoca come un “cane a tre zampe” (ci fu anche chi tirò in ballo la cover dell’eponimo Alice in Chains), i R.E.M. “superstiti” optarono coraggiosamente per la non sostituzione di Berry e quindi per una svolta sonora verso lidi elettronici (comunque mai troppo invasivi) che per i puristi e gli irriducibili non poteva che rappresentare il punto di non ritorno. La realtà non ha dato loro fino in fondo né torto né ragione, anche se è indubbio che, almeno nei suoi passaggi meno riusciti, ‘Up’ abbia sancito l’inizio di un declino fisiologico. ‘Lotus’, ‘Suspicion’ e ‘Falls To Climb’ i momenti più preziosi di un album controverso ma commovente.

 

11. Murmur  (1983 – 7.5)

Ebbene sì, lo piazzo decisamente alto in graduatoria il disco che chi non ha mai granché seguito i R.E.M. si è sempre bovinamente impegnato a bollare come il vero album di culto, il capolavoro segreto ed imperdibile che, in fin dei conti, ‘Murmur’ non è mai stato. C’era la novità – è vero – di un suono attento a recuperare la lezione delle chitarre jangle che Crosby e McGuinn resero così indimenticabili nella seconda metà degli anni ‘60. Nel 1983 il movimento Paisley Underground bruciava i suoi primi fuochi e, per quanto anomali al suo interno, gli esordienti R.E.M. venivano a rappresentare una possibilità di raccordo tra il circuito delle college band ed un rock di sicuro impatto commerciale. ‘Rolling Stones’ ebbe il merito di fiutare l’interesse crescente per l’alternative rock, ambito in cui questi ragazzi promettevano di diventare campioni di razza, e promosse l’album senza timori come il migliore dell’anno, davanti ai ben più fortunati ‘Thriller’, ‘War’ o ‘Synchronicity’. Un azzardo che per il gruppo di Athens rappresentò una spinta di non poco conto (pur non esonerandolo dal peso di una gavetta lunga almeno un lustro) ma che, al di là della lungimiranza storica, mi è sempre parso un tantino sproporzionato rispetto agli effettivi pregi di questo primo LP. Intendiamoci, ‘Murmur’ è senza dubbio l’opera di una band non comune e già incredibilmente matura. E’ scuro, schivo, enigmatico, ricco di dettagli sepolti e di doti nascoste, delle suggestioni ambigue che il cantato carsico e sfuggente di Michael regalò in abbondanza in tutti i primi lavori, qui più che altrove. Però non è un capolavoro, non prova nemmeno ad esserlo. Mitch Easter raccontò di un gruppo in cui ogni componente chiedeva di essere registrato “sempre un po’ più basso”, soprattutto Stipe, e questa timidezza di fondo si impone ancora oggi come il tratto distintivo del disco. Caratterialmente mi ci sono specchiato sin dal primo ascolto, ormai quasi venti anni fa, ma non ho potuto negare che la band della Georgia avrebbe fatto presto le stesse cose in maniera migliore. ‘Radio Free Europe’/‘Sitting Still’, primo singolo nella storia dei R.E.M., rimane il riferimento essenziale, anche se personalmente ho sempre preferito alcuni degli episodi in assoluto più strani: ‘Laughing’, ‘Pilgrimage’, ‘9-9’, la leggerissima ‘We Walk’. Ah, e ovviamente ‘Perfect Circle’, che di ‘Murmur’ era ed è la canzone migliore.

 

10. Out of Time  (1991 – 7/8)

‘Out of Time’ è un disco del quale non è facile parlare con serena imparzialità. I primi R.E.M. che ho ascoltato, come tanti qui in Italia. Dovrebbero essere anche quelli che non si scordano mai, e in un certo senso è così. Febbraio ’91, le radio sputano ‘Losing My Religion’ con una frequenza allucinante, ma non è solo per questo che non può passare inosservata. E’ un mondo a parte, una scintilla che diventa piacevole ossessione. Al mare comprerò la cassetta e avrò il resto del quadro, completo. All’epoca però ‘Out of Time’ è solo quella canzone, ed io la lascio bruciare un altro po’, inconsapevole dello scempio che le procuro e beato nella consapevolezza che è proprio questo che voglio fare nella mia vita: ascoltare canzoni su canzoni come respirandole. E consumarle, se serve. Oggi che un po’ di strada da allora mi sa che ne ho fatta, quel pezzo mi appare inservibile. Un simulacro vuoto, qualcosa che non riesco più ad ascoltare: se lo incrocio su qualche televisione musicale, cambio canale a velocità supersonica come si trattasse dei programmi fecali della De Filippi o di un notiziario letto dalla Petruni. Per il resto, fortunatamente, ‘Out of Time’ è sopravvissuto al suo cavallo di battaglia, ed ogni tanto me lo concedo con un certo piacere. E’ stato l’album del compromesso (ma a modo loro), va bene, mostrava più di una concessione al populismo facile (‘Shiny Happy People’ è terribile. Terribile), eppure è stato un passaggio necessario che mi sento di rivendicare, anche nei suoi (non pochi) riempitivi, anche nella melassa millsiana di ‘Near wild Heaven’ e negli inserti rap di KRS-One in ‘Radio Song’ (che ho sempre adorato, oh sì) . Canzoni come ‘Country Feedback’, ‘Half a World Away’ e soprattutto ‘Low’ rimangono una più che valida contropartita in termini di purezza, davvero tra le cose più belle mai pubblicate. Niente male davvero per una band che, a detta di alcuni, aveva scelto di svendersi definitivamente al music business.

 

9. New Adventures in Hi-Fi  (1996 – 8 )

Di ‘New Adventures in Hi-Fi’ ricorderò sempre la recensione ignobile pubblicata da ‘Musica!’ di Repubblica, che all’epoca leggevo con bella avidità convinto che quella della critica musicale fosse davvero una nobile missione. Bastò quel pezzo, non scherzo, ad aprirmi gli occhi una volta per tutte su chi parla di canzoni per professione, in cambio di lauti (comunque sia) compensi. Ricordo che il coglione quasi tralasciò di parlare del disco, preferendo sparare odiose bordate alla band perché aveva da poco sottoscritto un nuovo contratto miliardario con la Warner. Li accostò all’immagine di un pugile fiacco e ormai arrivato, interessato esclusivamente a far soldi. Eppure basta ascoltarlo ‘New Adventures’ per rendersi conto che è un album bellissimo e assai ispirato, carico di tensioni e di contraddizioni vitali, di contrasti e di America, in tutte le sue possibili declinazioni. Un disco sobrio ed insieme sovraccarico, pungente e magmatico, uno struggente diario di viaggio di quell’ultimo tour con Bill Berry (le canzoni nacquero in giro per il mondo nel ’95, ‘Departure’ per dire la scrissero in Spagna tre giorni prima di presentarcela a Torino, e fummo i primi a sentirla dal vivo). L’unicità della sua genesi transitoria, il fatto stesso di esser stato registrato un po’ per volta ed in più tappe, con un maggior approccio da “presa diretta”, lo rende ancora oggi un disco attuale e vibrante, forse quello che in tutto il loro catalogo è invecchiato meno (e meglio). Dentro, come è giusto che sia, c’è di tutto: adrenalinico rock simil-glam “avanzato” da ‘Monster’ (‘The Wake-Up Bomb’), ballate elettroacustiche introspettive (‘New Test Leper’), minimalismo geniale (‘How The West Was Won and Where It Got Us’), romanticismo con sintetizzatori (‘Leave’) e quel duetto grandioso con Patti Smith in ‘E-bow The Letter’. Poi, beh, la terna conclusiva (‘So Fast, So Numb’ / ‘Low Desert’ / ‘Electrolite’) che a dir poco mi ha sempre fatto impazzire, con buona pace di quell’idiota di Repubblica.

 

8. Green  (1988 – 8 )

‘Up’ e ‘Green’ sono i due album “di passaggio” per eccellenza nella discografia di Stipe e soci. Se il primo ha fatto da spartiacque tra i massimi risultati artistici e commerciali e gli anni del declino, il secondo verrà invece ricordato come l’anello di congiunzione tra la band indipendente della I.R.S. e quella mainstream lanciata verso i Grammy e le arene planetarie. La fotografia perfetta di un gruppo pronto a spiccare il volo verso la ribalta che conta, eppure ancora condizionato da una mentalità, da un’indole e da un suono alternativi, poco inclini al compromesso e all’omologazione. E’ questa la chiave corretta per interpretare un altro lavoro denso di contraddizioni stimolanti. Intitolato al colore tipico di ciò che è naturale, genuino, ed orientato non per nulla su posizioni apertamente progressiste, ecologiste, come mai prima e dopo di allora nel percorso dei quattro di Athens. Il verde però è anche il colore dei dollari, del denaro, ed era quasi inevitabile che i R.E.M. puntassero ad insistere sugli stessi tasti polemici già battuti nel precedente ‘Document’, come a voler mitigare le critiche di chi li stava accusando di svendersi all’establishment culturale. In questo senso, almeno considerando il suo blocco centrale, ‘Green’ è un altro sensazionale album politico, a tratti anche più feroce di quanto scritto negli anni dorati della loro piccola etichetta. ‘Orange Crush’ è il simbolo, così esplicita, caustica, mentre altrove si parla in maniera più figurata di persuasione, prevaricazione, aborto, con lucidità visionaria ammirevole. Ad alleggerire i toni pensano le trovate pop, prime formidabili strizzate d’occhio ai network radiotelevisivi nazionali, per quanto sempre obliquamente concepite come da tradizione del gruppo. Se seguendo questa logica le ‘World Leader Pretend’ e le ‘Turn You Inside-Out’ si trovano perfettamente controbilanciate dalle ‘Stand’ e dalle ‘Pop song 89’, a rendere particolarmente appetibile l’offerta possono essere allora i presunti brani minori, quelli che esulano dallo schema. ‘You Are the Everything’, per dire, è ancora oggi una delle più belle canzoni che i R.E.M. abbiano mai scritto, e non assomiglia a nient’altro.

 

7. Automatic For the People  (1992 – 8+)

Va bene, mi rendo conto io per primo che il voto rifilato qui sopra ad ‘Automatic For the People’ suona come un’offesa bella e buona. Non lo contesto, lo so. So che ‘Automatic’ è con ogni probabilità il capolavoro assoluto del gruppo, quello più accurato nei suoni, negli orpelli (e ti credo, con gli arrangiamenti di John Paul Jones), quello con le canzoni che più si sono intrecciate al vissuto intimo di molti di voi, e mi ci metto anch’io, per carità. Già mi sembra di sentire le recriminazioni per l’oltraggio al disco che ha dentro ‘Nightswimming’ e tanto altro, un insulto alla fatica che fu spesa per produrre tutta questa meraviglia. OK, serve un chiarimento. ‘Automatic For the People’ è uno dei pochi album che conosca che rasentano la perfezione. Se mi fermassi a questo, alla sincerità dei suoi testi, alla delicatezza con cui parla della morte, dovrei tributargli un 10 o poco meno, e chiuderla lì. Invece non posso, perché ho un grosso problema con quest’opera ed è lo stesso già descritto a proposito di ‘Losing My Religion’, valido anche per ‘Grace’ di Jeff Buckley e per qualcos’altro che ora mi sfugge. Musica così bella da averla consumata senza il sollievo di un difetto, di una sproporzione, di qualcosa fuori posto cui affezionarmi. Un destino triste, perché ‘Automatic’ è forse il loro disco che più visceralmente ho amato, ascoltato, raccomandato, sbandierato. Sulla sua onda nel ’93 comprai un calendario della band e sono andato avanti quasi dieci anni con questo rito, come una teenager idiota. Poi ho smesso di punto in bianco, forse nello stesso momento in cui non mi è più riuscito di ascoltare ‘Man on the Moon’ ed ‘Everybody Hurts’, sempre sul chi vive con ‘The Sidewinder Sleeps Tonite’, tuttora fra quelle che “stan sospese”. Con altri titoli mi è andata meglio: ‘Ignoreland’, ad esempio, mi è sempre piaciuta da matti, perché è un’invettiva politica micidiale ma anche insolita, pura adrenalina. ‘Try Not To Breath’ e ‘Sweetness Follows’ restano gemme, ‘Find The River’ e ‘Nightswimming’ mi sciolgono ancora il cuore mentre ‘Drive’, addirittura in controtendenza, l’apprezzo molto più oggi di quando avevo tredici anni. Eppure ci sono quelle ombre che resteranno sempre e non mi aiuteranno a pesare il disco con la necessaria lucidità: un capolavoro, ma non fa (più) per me.

 

6. Reckoning  (1984 – 8.5)

La “resa dei conti” menzionata nel titolo del loro secondo LP dai giovani R.E.M. doveva per forza di cose tradursi in qualcosa di assai meno altisonante rispetto all’implicita evocazione. Stessa coppia di produttori (Easter e Dixon), stesso studio di registrazione a Charlotte, stessa metodologia di lavoro e tempistiche (un paio di settimane), seguendo la logica del “battere il ferro finché è caldo”. In tal senso non è sbagliato riconoscere in ‘Reckoning’ un gemello oltre che l’ovvia prosecuzione di ‘Murmur’, mentre sulla qualità delle canzoni in ballo non si può che andare a gusti. Personalmente ho sempre preferito questo secondo lavoro. Meno coeso probabilmente, ma più vario a livello stilistico, più maturo nel songwriting (anche senza tradire quella vena oscura che ha reso così affascinanti tutte le loro prime cose) e con dentro alcuni pezzi a dir poco formidabili. ‘So. Central Rain’, ‘Camera’ e ‘(Don’t Go Back To) Rockville’ non usciranno mai dalla mia personale top 20 della band georgiana. Il tempo non le ha scalfite e si confermano ancora dei fuochi sacri, persino il country banalotto della terza, sempre irresistibile. A corredo un altro pugno di brani indimenticabili (praticamente tutti) con alcuni dei migliori testi dell’intera discografia, ed accompagnati in video da una serie di clip amatoriali di grande suggestione. La band scapigliata di ‘Reckoning’ aveva tutto per piacere, specie quell’incoscienza artistica e quella mancanza di direzioni certe che ancora oggi rendono così interessanti queste canzoni: la corposa riscoperta del disco nell’anno dell’ultimo tour la dice lunga sull’importanza anche formativa che questo titolo ha rivestito nella carriera del gruppo. La copertina poi è un gioiello. Basterebbe da sola a far vincere il confronto con il ben più celebrato esordio.

 

5. Fables of the Reconstruction  (1985 – 8.5)

Ecco servita un’altra apparente provocazione. ‘Fables’ così in alto per molti può sembrare una bestemmia, me ne rendo conto. La critica non è mai stata troppo tenera, specie ai tempi. Il gruppo poi ha odiato intensamente il disco per tutti i fantasmi che negli anni deve aver rievocato: le registrazioni a Londra, un inverno infame, un produttore troppo meticoloso e distante, i litigi continui e l’eventualità sfiorata dello scioglimento. Un accumulo di tensioni che nell’album si sentono eccome e che lo hanno reso così unico nel loro catalogo, un’autentica gemma. Il merito senza dubbio è stato in buona parte di Joe Boyd, l’uomo che aveva plasmato il suono di Nick Drake e dei Fairport Convention e che in quel 1985 si prese cura di conferire un’impronta folk più barocca sia ai R.E.M. che ai loro amici 10000 Maniacs. Esperienza generalmente considerata un fallimento, vista la piega tetra e squilibrata presa da molti dei brani in questione (l’apripista ‘Feeling Gravitys Pull’ è emblematica), eppure con un surplus davvero non indifferente in fatto di fascinazione ed allegorie, a tutti i livelli. Curiosa anche la genesi artistica: Stipe, all’epoca influenzato dai temi del folklore orale, del racconto e dei cosiddetti Uncle Remus, mirava a comporre una sorta di anomalo concept album sulla tradizione e sugli stereotipi narrativi del sud degli Stati Uniti. Impresa poi condita dalla propria personale vena poetica obliqua e surrealista, così da riuscire a plasmare lontano dagli States il disco forse più profondamente (e genuinamente) americano di tutto il repertorio R.E.M. Che si ama o si odia, evidentemente. Chi come me non si è fatto troppo condizionare dalla critica e ha scelto di non fermarsi al cliché chitarristico jangle-pop dei primi lavori ha trovato senza dubbio pane per i suoi denti. Qualcosa che non somiglia a nient’altro prodotto dai quattro di Athens né prima né dopo, e che pure ha dentro quella loro sempre inconfondibile fragranza. Scaletta magnifica (‘Driver 8’, ‘Maps and Legend’, ‘Life and How To Live It’, ‘Wendell Gee’, e via andando), titolo e progetto grafico stupefacenti. Io comunque ho sempre preferito le versioni alternative suggerite dal genio elusivo di Michael: la copertina interna (quella del teatro che riporto qui sopra e che non è quella ufficiale), ed il titolo ‘Reconstruction of the Fables’.

 

4. Lifes Rich Pageant  (1986 – 8.5)

Quel che il produttore Don Gehman ha saputo fare per i R.E.M. avendo a disposizione le session di registrazione del solo ‘Lifes Rich Pageant’ rimane qualcosa di inestimabile. Ha tirato fuori un’anima rock prima totalmente inespressa, ha infuso una consapevolezza nuova ai quattro, ha fracassato gli involucri della timidezza di Stipe e Mills e plasmato nel “Ministry of Music” Peter Buck un chitarrista completamente diverso: di fatto il grosso di un lavoro che, completato presto da Scott Litt, avrebbe reso pronta la band per il grande salto di qualità. ‘Lifes’ è un album granitico e squillante, gioioso, ma anche gentile ed intimista come da tradizione del gruppo. Il Deus ex machina di John Mellencamp si è rivelato abile nel gestire il gruppo alternando momenti vitali ed altri a briglia tirata. Ha dato più profondità ad un suono finalmente meno “indipendente”, come reso a dovere dalla tostissima coppia di opener (‘Begin the Begin’ e ‘These Days’), ma senza dimenticare gemme introspettive dal sapore acustico come l’enigmatica ‘Swan Swan H’ ed il manifesto ecologista ‘Fall on Me’, ideali per i fan più affezionati al modello. Tra i due estremi, alcune canzoni indimenticabili del repertorio, dalla politica (ma allegorica) ‘The Flowers of Guatemala’ alla visionaria ‘I Believe’ (che è Stipe in tutto il suo potenziale), passando per la ebbra ‘Just a Touch’ e l’altra perla di stampo ambientalista, ‘Cuyahoga’. Un disco rotondo e divertente ma con la giusta coscienza e l’impegno: perfetto per non scontentare nessuno, in pratica.

 

3. Chronic Town  (1982 – 8.5)

Immagino l’aria perplessa di chi non può credere che un semplice EP possa meritarsi tanta attenzione. Probabilmente sarebbe un’obiezione anche più che legittima, ma mi è impossibile convalidarla. ‘Chronic Town’ rimane un tassello fondamentale e nient’affatto prescindibile, come in tanti hanno invece scritto. E’ un piccolo lavoro che ha dentro il germe di una grande promessa, ancor più del singolo ‘Radio Free Europe / Sitting Still’ partorito dalle medesime session nel 1981. Solo cinque canzoni a tratti grezze, zoppicanti, oscure. Ma che canzoni. Come lettera di presentazione per il gruppo c’era davvero da fregarsi le mani, e poco poteva importare per quella patina di imperfezioni cui i fan avrebbero saputo abituarsi presto, riconoscendovi uno dei veri marchi di fabbrica della band. Come e più che in ‘Murmur’, la forza vitale e magnetica di un progetto espressivo squisitamente naïf, capace di spaziare dal country byrdsiano di ‘Wolves, Lower’ alla visionarietà barocca della spettrale ‘Carnival of Sorts (Boxcars)’, passando per le stranissime e  battagliere atmosfere di ‘Stumble’ e ‘1,000,000’, fino alla poesia onirica di ‘Gardening at Night’, forse – ma non so se sbilanciarmi a tal punto – la canzone che preferisco del gruppo. Tra le tracce allegate assieme all’EP nella ristampa per il mercato europeo (del 1992) di ‘Dead Letter Office’ era presente una versione elettroacustica più soffusa di questo brano, che non ha nulla da invidiare all’originale. Caricata sull’Ipod come sesto episodio a mo’ di reprise, ha orientato per un posto nel podio la mia scelta su ‘Chronic Town’. E così sia.

 

 2. Monster  (1994 – 9)

Il primo ascolto fu un disastro. Ricordo ancora le parole (“Madonna-che-merda”) a sessione conclusa, e sì che sono passati diciotto anni. Fu uno shock. Aspettavo una fotocopia di ‘Automatic For the People’ e trovai ben altro, compreso un inedito Stipe rapato a zero e particolarmente aggressivo. Naturale quello spiazzamento. Gli ascolti che seguirono – e seguirono, all’epoca ci si smenavano davvero dei soldi e non ci si arrendeva al primo “bah” – furono una rapida ed inarrestabile salita verso lidi musicali nuovi, affrontati con un paio di orecchie nuove. In meno di una settimana mi innamorai in modo devastante del disco, e lo avrebbero fatto anche i tanti che oggi gli abbassano le medie voto in rete, non si fossero limitati alla ricerca frustrata di nuovi pezzoni strappalacrime bocciando tutto il lotto eccetto un paio di brani. Ancora oggi sono grato ai R.E.M. per questo violento pugno in pancia, per questa svolta un po’ suicida che chiarì una volta per tutte come si trattasse davvero di un gruppo fuori dagli schemi, vivo, indipendente. Al di là dell’opinione consolidata per cui ‘Monster’ andrebbe considerato un passaggio minore della carriera e del periodo Warner (ipotesi presto appoggiata dagli stessi autori, che lo hanno quasi ripudiato), rimango fermamente convinto che si tratti di un’opera straordinaria. Forse il loro lavoro più romantico, per quanto in maniera distorta. Un altro album sulla morte, con dediche a River Phoenix e a Cobain. Un album sul sesso, esplicito oltre ogni aspettativa. Un album schiettamente rock, attento al suono, tagliente, vizioso, vorticoso: una manna per l’elettrica di Buck, accompagnato a dovere da quella di Thurston Moore in un paio di casi. Il passo verso i Sonic Youth e l’indie americano degli anni ’90 era tracciato. Non ricordo canzoni men che belle, mentre ‘Crush With Eyeliner’, ‘Let Me In’, ‘Circus Envy’ e l’incredibile ‘Tongue’ restano saldamente nel novero delle loro cose più formidabili di sempre.  La vitalità catturata in studio sarebbe poi tornata utile per il primo monumentale tour promozionale dai tempi di ‘Green’ (che per me fu la prima occasione per incrociarli dal vivo), incappato in una serie di sventure (operazioni per tre dei quattro, Bill Berry ad un passo dalla morte) da Guinness dei primati.

 

1. Document  (1987 – 9.5)

Avrebbe dovuto chiamarsi ‘Last Train to Disneyland’ questo album. Un’intonazione caustica in più nel computo di un affresco di suo già sufficientemente impietoso sul reaganismo imperante. I R.E.M. ci arrivarono con una determinazione bruciante e con una pienezza di risorse non comune per degli outsider indipendenti. In fondo però il salto di qualità era alle porte, e ‘Document’ fotografa con fedeltà sia le prove generali per quella nuova avventura, sia il congedo irriverente dalla tranquillità incontaminata del circuito alternativo. Avrebbe dovuto chiamarsi ‘File Under Fire’, indicazione ironica per i negozi di dischi che venne poi effettivamente riportata sulla costa dell’LP (come pure avvenne per il ‘File Under Water’ di ‘Reckoning’), e non a caso. I riferimenti al fuoco non si contano, disseminati nelle liriche di Michael in praticamente ogni canzone. Sul piano musicale l’arrivo del produttore Scott Litt portò a compimento la svolta rock del lavoro precedente, agevolando un disco incendiario nel vero senso della parola. Frenetico, impulsivo, feroce e politico, politico soprattutto. Dall’etica del lavoro nella società degli yuppies di ‘Finest Worksong’, all’imperialismo yankee degli anni ’80 in America latina (‘Welcome To the Occupation’, ‘Disturbance at the Heron House’), dai rigurgiti del maccartismo (‘Exhuming McCarthy’) alla giostra impazzita e apocalittica di ‘It’s The End of the World As We Know It (and I Feel Fine)’, passando per i fantasmi di vecchie lotte sindacali (‘Fireplace’). A legare il tutto, una miscela elettrica senza freni ed un andazzo ritmico roboante (Bill Berry al meglio) tali da confezionare il disco forse più coerente ed armonioso dell’intera produzione. Dove anche un’apparente canzone d’amore non avrebbe potuto che suonare lancinante e brutale (‘The One I Love’ naturalmente, prima vera hit in carriera); dove ogni ipotesi di pop song edulcorata avrebbe finito per lasciare il campo alle ombre di un’epica disperata, antagonista, malata (‘Oddfellows Local 151’) ed i Wire sarebbero stati evocati con felice opportunismo. R.E.M. ancora abbastanza giovani da promettere in maniera credibile i lampi di una rivoluzione, ed adulti il giusto per potersi far apprezzare fino in fondo dopo tanti anni: l’attimo perfetto, evidentemente. Con dentro anche la gemma ‘King of Birds’, e scusate se è poco.

 

 

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Bye bye Indie-rock.it

       

Mi sembra più che doveroso spendere qualche parola per lo hiatus – termine modaiolo che in ambito musicale si riferisce ad una sospensione delle attività di una band – della webzine con la quale ho collaborato per quasi cinque anni. Personalmente è sempre un dispiacere quando un sito web che si consulta e frequenta con regolarità chiude i battenti. Tempo fa mi è capitato con un’ottima pagina che si occupava di musica indiepop a tutto campo (Indiepop.it, appunto) e che era gestita praticamente in solitaria da un certo Salvatore Patti, uno dei migliori critici di musica leggera che mi sia mai capitato di leggere. Più di recente è toccato ad un blog (Justanotherpopsong.blogspot.it) che guardava in esclusiva al pop ed al folk indipendente di matrice scandinava, al quale devo più di una preziosa imbeccata. In casi come questi è sempre stato come perdere piccoli punti di riferimento ritrovandosi spiazzati, anche se certo le voci interessanti nel mare magnum della rete non mancano ed è sempre possibile trovarne di nuove e più autorevoli. Certo, però, quando la voce che adotta il silenzio è una di quelle che non soltanto ci si era abituati a sentire, ma in parte si era scelto di fare propria come strumento attraverso cui parlare, il rammarico non può che farsi cocente. Adesso i maligni penseranno che avevo sentito puzza di cadavere quando nel dicembre scorso avevo scritto a Cristiano Gruppi, il webmaster, inviando l’ultimo pezzo e salutando. Ovviamente non è così, non avrei immaginato che il sito sarebbe arrivato al capolinea così presto: aveva tante nuove valide leve, tanto entusiasmo, una sempre più capillare copertura di eventi, notizie, dischi e concerti. Eppure…

Mi ha fatto una certa impressione ritrovare nel laconico comunicato di addio di Cristiano gli stessi sentimenti manifestatigli in quella mia mail di congedo. Passione sbiadita, tempo da riservare ai contenuti e agli aggiornamenti vissuto quasi come una condanna, voglia di dedicarsi ad altro. E’ inevitabile considerare allora come dietro passioni esili come lo scrivere di musica si nasconda quasi inevitabilmente un senso di sazietà e nausea che porta prima o poi a gettare la spugna. Non è un “mestiere” – qui sempre inteso come hobby- che possa durare veramente a lungo, ed è sbalorditivo come certe riviste che si occupano di musica alternativa riescano a tirare avanti magari trent’anni, affogate nella noia e di fatto sopravvissute a loro stesse ben oltre il lecito. Alcuni dei migliori collaboratori di Indie-rock.it avevano lasciato da tempo. Io l’ho fatto quando mi sono sentito davvero esausto, dopo quasi settanta recensioni, ottanta live report con gallerie fotografiche e tre interviste, una delle quali (quella a Vic Chesnutt) rimarrà di fatto il mio più bel ricordo dell’intera esperienza. La stanchezza nel ripetersi ad oltranza, nel proporre album per lo più ignorati, nel sentirsi un po’ come un pesce fuor d’acqua ma anche nel riscontrare come il forum di IR, una bella piazza virtuale di spiriti affini, si fosse rapidamente involuta sotto i colpi da concorrente sleale di Facebook mi hanno spossato.

La comunicazione degli apparati social, luminosissima grazie ai vantaggi innegabili di una interconnessione aggregante,tamburellante e seducente (termine adorato dai semiologi, quindi anche mio), si sta imponendo con la sua stuzzicante aura di deresponsabilizzazione e volatilità anche nel campo del giornalismo (più o meno serio), con esiti secondo me devastanti per le forme di informazione un minimo più accurate. Nello specifico della critica musicale le vecchie riviste cartacee scontano una crisi probabilmente irreversibile a vantaggio dei nuovi media, ma in questo ambito anche le grosse webzine sono in evidente difficoltà rispetto ai blog, che a loro volta diventano praticamente superflui se raffrontati a Facebook ed ancor più, in prospettiva futura, a Twitter. Così bastano degli slogan o poche parole ad effetto a caccia di approvazioni sbandierate per trasformarsi in luminari e raccontare dischi cui, con ogni probabilità, nemmeno si sono dedicati più di due ascolti. E’ molto triste secondo me, l’ennesimo piccolo segno di quel decadimento anche culturale che fa da contraltare ai progressi ed alla diffusione (di fatto più che positivi) delle nuove tecnologie.

Con tutte le attenuanti e le giustificazioni del caso appena menzionate come determinanti in scelte dolorose come la chiusura di un sito,  con i ringraziamenti ed i sinceri attestati di stima che non posso esimermi dal rivolgere a Cristiano per quanto costruito dal nulla in questi sette anni, rimane comunque una nota di rammarico e di biasimo costruttivo che ritengo giusto manifestare in questo accrocchio di impressioni sparse e senza pretese. Il limite forse più significativo (ed in fondo anche l’unico) di tutta l’avventura di IR credo sia stato quello di aver insistito nel voler concepire il progetto adottando la stessa ottica di quando era nato, quella  forse troppo strutturalmente (anche se bonariamente) personalistica di un blog, per quanto anomalo. La rivendicazione affettiva ed esclusiva di Cris verso una creatura nata da un suo lampo di genio ha finito col non armonizzarsi nel giro di qualche tempo con quello che IR stava diventando per le persone che ci si avvicinavano: una bella palestra di scrittura, un piccolo grande punto di riferimento (e di contatto) tra vittime beate della medesima passione, ed anche una particolare e bellissima comunità di amici (prima virtuali, poi reali), quasi una famiglia. Questa non vuole essere una critica fine a se stessa nei confronti di Cris cui, lo ripeto, va tutta la mia riconoscenza e quella dei tanti che negli anni hanno avuto l’opportunità di collaborare o anche solo confrontarsi, a qualunque grado. Però un sincero dispiacere non posso tacerlo. Aver saputo superare la visione un po’ miope di chi ha sempre rifiutato in buona parte (non sempre) le logiche costruttive del delegare, del condividere (non solo gli onori, per carità, proprio gli oneri) e del costruire assieme, non certo per manie di protagonismo ma come animato da un senso profondamente intimo di “missione”, avrebbe senza dubbio fatto sentire meno pesante a Cristiano questo suo secondo (non dimentichiamolo, e per giunta gratuito) lavoro rendendo meno dolorosa ed al contempo meno drastica la scelta più che legittima di staccare un po’.  Da indefesso sostenitore delle logiche del buon senso continuo a sperare che ci sia ancora il margine per un ripensamento positivo, che il buon Cris capisca che questa fantastica cosa che ha creato da solo è diventata davvero con gli anni anche un po’ nostra, e ci mancherà terribilmente. Forse il suo più grande successo è scritto proprio in questa semplice considerazione. Disperderlo dall’oggi al domani nel silenzio sarebbe un vero peccato.

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Classificone 2011

Seconda metà di dicembre, appuntamento irrinunciabile con la classifica dei dischi, corposa e presentata volutamente senza countdown proprio come l’anno passato. Anche il 2011, ormai come tradizione, si è rivelato tutt’altro che esaltante, con dischi sì buoni (in rari casi davvero molto buoni) ma dei quali difficilmente ci si ricorderà a lungo. Nessun capolavoro comunque, anche se alla nuova fatica di Tom Waits manca solo il fattore originalità per potersi fregiare del titolo (visto che di una summa del Waits più classico si tratta in fondo, con una raccolta di grandissime canzoni). Molto bene anche la collezione di brani che Stephin Merritt ha scritto in momenti diversi della propria carriera (non proprio materiale nuovo quindi) e pubblicato qualche mese fa con il titolo di ‘Obscurities’: assai più che nei pur validi ultimi dischi del collettivo Magnetic Fields qui le canzoni sono il frutto evidente di un genio vero, così come il regolare sabotaggio adottato a livello di arrangiamenti (dei più assurdi, nell’insieme molto stimolanti). Sul gradino più basso del podio il vero gioiello pop dell’anno, il nuovo album del cantante dei Superfurry Animals finalmente libero di dedicarsi ad un compendio melodico prossimo alla perfezione . Quindi la sorpresa del folk silvano (ed elegantemente alieno) della straordinaria finlandese Anna Jarvinen, stretto nella morsa dei due migliori album garage-revivalisti degli ultimi mesi, il convincente ritorno di Mark Sultan e l’incredibile virtuosismo canzonettaro di una promettente band di Oakland, Shannon & The Clams. Conferme molto importanti dai Low e dai Girls, lo scarno ma potentissimo intimismo di Josh T. Pearson e la migliore fotografia dell’eccellente momento dei Thee Oh Sees completano le prime dieci posizioni. A seguire un po’ di tutto – con una nutrita rappresentanza di voci e chitarre femminili – anche se i generi per il sottoscritto restano quelli (cantautorale, garage, indie-pop, folk): non aspettatevi nuove tendenze, sono allergico e lo sapete.

1. Tom Waits  ‘Bad As Me’

2. Stephin Merritt  ‘Obscurities

3. Gruff Rhys  ‘Hotel Shampoo

4. Mark Sultan  ‘Whatever I Want

5. Anna Järvinen  ‘Anna själv tredje

6. Shannon & The Clams  ‘Sleep Talk’

7. Low  ‘C’mon’

8. Girls  ‘Father, Son, Holy Ghost’

9. Josh T. Pearson  ‘Last of the Country Gentlemen’

10. Thee Oh Sees ‘Carrion Crawler / The Dream

 

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11. A.A. Bondy  ‘Believers’

12. Acid House Kings  ‘Music Sounds Better With You’

13. Gillian Welch  ‘The Harrow & the Harvest’

14. Man Man  ‘Life Fantastic

15. My Brightest Diamond  ‘All Things Will Unwind’

16. Comet Gain  ‘Howl of the Lonely Crowd’

17. Juliana Hatfield  ‘There’s Always Another Girl’

18. East River Pipe  ‘We Live in Rented Rooms’

19. Boston Spaceships  ‘Let It Beard’

20. Meg Baird  ‘Seasons on Earth’

21. Mikal Cronin  ‘Mikal Cronin’

22. The Indelicates  ‘David Koresh Superstar

23. Scott Matthew  ‘Gallantry’s Favorite Son’

24. Ty Segall  ‘Goodbye Bread’

25. King Creosote  ‘Thrawn’

26. Bill Callahan  ‘Apocalypse’

27. Alela Diane  ‘Alela Diane & Wild Divine’

28. Those Darlins  ‘Screw Get Loose’

29. Nicole Atkins  ‘Mondo Amore’

30. The Mountain Goats  ‘All Eternal Deck’

 31. Royal Headache  ‘Royal Headache’

32. Ron Sexsmith  ‘Long Player Late Bloomer’

33. Marissa Nadler  ‘Marissa Nadler’

34. Jens Carelius  ‘The Architect’

35. Joan As Policewoman  ‘The Deep Field’

36. David Lowery  ‘The Palace Guards’

37. S.C.U.M.  ‘Again Into Eyes’

38. The Bevis Frond  ‘The Leaving of London’

39. Other Lives  ‘Tamer Animals ’

40. The Decemberists  ‘The King Is Dead’

41. Fleet Foxes  ‘Helplessness Blues’

42. Andrew Jackson Jihad  ‘Knife Man’

43. Hezekiah Jones  ‘Have You Seen Our New Fort?’

44. St.Vincent  ‘Strange Mercy’

45. The Jayhawks  ‘Mockingbird Time’

46. Emmy The Great  ‘Virtue’

47. J Mascis  ‘Several Shades of Why’

48. The Rural Alberta Advantage  ‘Departing’

49. The Raveonettes  ‘Raven in the Grave’

50. The Leisure Society  ‘Into the Murky Water’

51. Acid Baby Jesus  ‘Acid Baby Jesus ’

52. P.J.Harvey  ‘Let England Shake ’

53. OBN III’s  ‘The One and Only’

54. Thee Oh Sees  ‘Castlemania’

55. Atlas Sound  ‘Parallax’

56. Antònia Font  ‘Lamparetes’

57. Richard Buckner  ‘Our Blood’

58. Cass McCombs  ‘Wit’s End’

59. Bon Iver  ‘Bon Iver, Bon Iver’

60. Ween  ‘Caesar Demos’

61. Anna Calvi  ‘Anna Calvi’

62. The Twilight Singers  ‘Dynamite Steps’

63. Destroyer  ‘Kaputt’

64. Ilya Monosov  ‘Sailor Man’

65. Okkervil River  ‘I Am Very Far’

66. Birdy  ‘Birdy’

67. Tim Cohen  ‘Magic Trick’

68. We Are Augustines  ‘Rise Ye Sunken Ships’

69. Wilco  ‘The Whole Love’

70. Owen  ‘Ghost Town’

71. Fruit Bats  ‘Tripper’

72. Keren Ann  ‘101’

73. Jenny Hval  ‘Viscera’

74. Richmond Fontaine  ‘The High Country’

75. Stevie Jackson  ‘(I Can’t Get No) Stevie Jackson’

76. Chris Kiehne  ‘Pray For Daylight’

77. Seeker Lover Keeper  ‘Seeker Lover Keeper ’

78. Hot Head Show  ‘The Lemon LP’

79. King’s Daughters & Sons  ‘If Then Not When’

80. The Men  ‘Leave Home’

81. Piers Faccini  ‘My Wilderness’

82. Robert Pollard  ‘Space City Kicks ’

83. Stephen Malkmus  ‘Mirror Traffic’

84. Real Estate  ‘Days’

85. The Kills  ‘Blood Pressures’

86. Crystal Stilts  ‘In Love With Oblivion’

87. Loch Lomond  ‘Little Me Will Start a Storm’

88. The Dear Hunter  ‘The Color Spectrum’

89. Lenguas Largas  ‘Lenguas Largas’

90. Momus and John Henriksson  ‘Thunderclown’

91. The Ettes  ‘Wicked Will’

92. Explosions in the Sky  ‘Take Care, Take Care, Take Care’

93. Bonnie ‘Prince’ Billy  ‘Wolfroy Goes to Town ’

94. Apache Dropout  ‘Apache Dropout’

95. Girls Names  ‘Dead To Me’

96. Maritime  ‘Human Hearts’

97. The Ladybug Transistor  ‘Clutching Stems’

98. La Casa Azul  ‘La Polinesia Meridional’

99. Circus Devils  ‘Capsized!’

100. Akron/Family  ‘S/T II: The Cosmic Birth and Journey of Shinju TNT’

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Classificone 2010

Dicembre inoltrato, tempo di bilanci. Ho scritto poco di dischi nuovi quest'anno, ma tra ascolti e concerti mi sono superato, ragion per cui la graduatoria sarà più ricca del solito. Cento posizioni, e solo per gli album meritevoli. Tanti altri ce ne sarebbero ma ho deciso di tenerli fuori perché non mi hanno ispirato a sufficienza. Delusioni in qualche caso, dove era lecito aspettarsi di più. Lavori di per sé sufficienti, appena appena magari, ma senza le scintille che nome e fasti anche recenti imporrebbero. Penso al gelido 'Penny Sparkle' dei Blonde Redhead, osannato incredibilmente da certa critica e stroncato senza pietà da altri, ma anche ai nuovi Anthony, Walkmen e all'altalenante 'Golden Archipelago' degli Shearwater. Ci sono poi dischi da quali non aspettavo nulla di ché e che infatti chiudono nel calderone dei senza infamia e senza lode, come l'eponimo 'Interpol', il ritorno dei Wolf Parade o le insipide minestrine di Band of Horses, Vampire Weekend e New Pornographers. E poi ci sono opere brutte senza appelli, quelle che nemmeno si sforzano di suggerire una pallida scintilla. Il disco di Micah P. Hinson rientra tra i più significativi della categoria, sconsigliatissimo. In termini generali, che dire? Annata caratterizzata da grande abbondanza di cose discrete, senza veri picchi in un senso o nell'altro. Solo tre i dischi molto buoni, uno dei quali – a mio modesto parere – eccezionale. Janelle Monáe è stata la classica sorpresa del tutto inattesa, almeno per me che sono alieno a certi orizzonti musicali. Mai avrei immaginato che un disco tanto lontano dai miei gusti canonici potesse imporsi così in scioltezza, eppure tocca riconoscere che funziona magnificamente. Tono ruspante, vitalità autentica, capacità di parlare al cuore e divertire, ampio ventaglio umorale, produzione e voce pazzesche. Più di tutto il resto, comunque, la sua capacità di suonare assolutamente puntuale, in linea con i tempi, con le mode, con tutto. Ottimo l'album dei Besnard Lakes, tra respiri shoegaze e dilatazioni post nel segno della migliore scuola canadese recente: vibrante, impulsivo, sincero. Sempre a grandi livelli i Deerhunter di Bradford Cox, con il consueto lavoro di brillante e disincantata disperazione elettrica. E' stata anche un'annata nel segno delle voci femminili, visto che oltre alla Monáe e ad Olga Goreas (metà Besnard Lakes) si sono rivelati apprezzabili la monumentale fatica di una Newsom ormai a vele spiegate, una Brisa Roché che è bravissima anche con le ipersemplificazioni easy listening, la scintillante promessa Anais Mitchell con la sua disinvolta folk-opera, la solita eroina romantica Julia Indelicate e quell'altra poetessa per orecchie fini che risponde al nome di Sharron Kraus. Decisamente apprezzabili infine le conferme giunte da alcuni grandi per vie traverse. Kozelek, che eccede in virtuosismi acustici riavvicinandosi come mai prima d'ora alla magia senza tempo dei Red House Painters; i No Age, che tirano fuori dai loro ampli un vero gioiellino noise-pop, nonostante gli immancabili scontenti del partito "prima erano OK, ora fanno cagare"; David Eugene Edwards, che prosegue orgoglioso per la sua via raminga, aprendosi a esplorazioni inconsuete di matrice ora esotica ora ascetica; i Les Savy Fav, che piazzano inattesi, ancora una volta, quello che per il sottoscritto è il miglior disco rock tout court dell'anno (senza post e senza altri suffissi modernisti). Ed infine l'altra sorpresa da questo Jeremy Messersmith e dal suo delizioso indie-pop per cuori semplici. Nell'orgia delle posizioni seguenti le distanze si assottigliano fin quasi a scomparire. Gli ultimi della lista sono comunque da sufficienza piena. Dentro c'è proprio di tutto ma non troverete rap, black, soul, elettronica, minimalismo e cose così: ancora non sono pronto. Ah, non troverete italiani. Ne ho ascoltati pochissimi e sarei troppo parziale, quindi ho fatto che tenerli fuori dal giochino. Il ritorno dei Massimo Volume comunque è validissimo. Ultima nota. Per pigrizia ho copiato lo schema "a scendere" dell'anno scorso, mandando a farsi benedire le intenzioni per una ben più accattivante teasing strategy, procedendo nel senso inverso fino a scoprire il podio. Cosa possa esserci di teasing nella classifica di gradimento del sottoscritto, in fondo, non è dato saperlo. Posso giustificarmi dicendo che quella prospettiva la adottano tutti ed io ho voluto andare contro corrente. Ecco, dirò proprio così ché fa pure figo.

 1. Janelle Monáe
‘The ArchAndroid’
 2. The Besnard Lakes
The Besnard Lakes Are The Roaring Night
 3. Deerhunter
Halcyon Digest
 4. Joanna Newsom
‘Have One on Me
 5. Sun Kil Moon
‘Admiral Fell Promises
 6. No Age
‘Everything in Between’
7. Woven Hand
‘The Threshingfloor’
 8. Les Savy Fav
‘Root For Ruin’
 9. Jeremy Messersmith
‘The Reluctant Graveyard’
10. Brisa Roché
‘All Right Now’
 
**************************************************
 
 11. Woodpigeon
‘Die Stadt Muzikanten’
 12. School of Seven Bells
‘Disconnect From Desire’
 13. Breathe Owl Breathe
‘Magic Central’
 14. Swans
My Father Will Guide Me Up a Rope To The Sky'
 15. Midlake
‘The Courage of Others’
 16. Anais Mitchell
‘Hadestown’
 17. Edwyn Collins
‘Losing Sleep’
 18. Richard James
‘We Went Riding’
 19. The Indelicates
‘Songs For Swinging Lovers’
 20. Sharron Kraus
‘The Woody Nightshade’
 21. Boston Spaceship
‘Our Cubehouse Still Rocks’
 22. Howe Gelb & A Band of Gypsies
Alegrías
 23. Steve Wynn
‘Northern Aggression’
 24. Quasi
‘American Gong’
 25. Northern Portrait
‘Criminal Art Lovers’
 26. The Divine Comedy
'Bang Goes The Knighthood'
 27. Woods
‘At Echo Lake’
 28. Kelley Stoltz
‘To Dreamers’
 29. Titus Andronicus
‘The Monitor’
 30. The Black Keys
‘Brothers’
 31. Ted Leo & The Pharmacists
‘The Brutalists Bricks’
 32. National
‘High Violet’
 33. Clogs
'The Creatures in the Garden of Lady Walton'
 34. Beach House
‘Teen Dream’
 35. Typhoon
‘Hunger and Thirst’
 36. Darren Hayman
‘Essex Arms’
 37. White Pines
‘The Falls’
 38. Mark Sultan
‘$’
 39. Three Mile Pilot
The Inevitable Past Is The Future Forgotten
 40. Grinderman
‘Grinderman 2’
 41. Sufjan Stevens
‘The Age of ADZ’
 42. Girls
‘Broken Dreams Club EP’
 43. Arcade Fire
‘The Suburbs’
 44. Avi Buffalo
‘Avi Buffalo’
 45. Holly Golightly & Brokeoffs
‘Medicine County’
 46. The Vaselines
‘Sex With An X’
 47. Parenthetical Girls
‘Privilege pt. I&II EP’
 48. Broken Social Scene
‘Forgiveness Rock Record’
 49. The Magnetic Fields
‘Realism’
 50. Tame Impala
‘Innerspeaker’
 51. The Weepies
‘Be My Thrill’
 52. Soda Fountain Rag
‘Reel Around Me’
 53. John Grant
‘Queen of Denmark’
 54. The Paradise Motel
'Australian Ghost Hotel'
 55. Horse Feathers
'Thistled Spring'
 56. Builders & Butchers
‘Dead Reckoning'
 57. The Zephyrs
‘Fool of Regrets’
 58. Liars
‘Sisterworld’
 59. Boduf Songs
This Alone Above All Else in Spite of Everything
 60. Dirtmusic
‘BKO’
 61. Pop Dell'Arte
Contra Mundum
 62. Ariel Pink Haunted Graffiti
‘Before Today’
 63. Matt & Physics Club
I Shouldn’t Look As Good As I Do
 64. Blitzen Trapper
‘Destroyer of the Void’
 65. Sambassadeur
‘European
 66. Scout Niblett
‘The Calcination of Scout Niblett’
 67. Thee Oh Sees
‘Warm Slime’
 68. Doug Paisley
‘Costant Companion’
 69. Women
‘Public Strain
 70. Thomas Dybdahl
‘Waiting For That One Clear Moment’
 71. Villagers
‘Becoming A Jackal’
 72. Dragontears
‘Turn on Tune In Fuck Off!!’
 73. The Thermals
‘Personal Life
 74. Nina Nastasia
‘Outlaster'
 75. The Tallest Man on Earth
‘The Wild Hunt’
 76. Frankie Rose & The Outs
‘Frankie Rose & The Outs’
 77. The Russian Futurists
‘The Weight's on the Wheels’
 78. Silver Mt. Zion
‘Kollaps Tradixionales’
 79. Clinic
‘Bubblegum
 80. Crocodiles
‘Sleep Forever’
 81. Belle & Sebastian
‘Write About Love’
 82. Giant Sand
‘Off Ramp’
 83. The Corin Tucker Band
‘1000 Years’
 84. Siskiyou
‘Siskiyou’
 85. Teenage Fanclub
‘Shadows’
 86. Hugo Race
Fatalists'
 87. Admiral Radley
‘I Heart California’
 88. Elf Power
‘Elf Power’
 89. Giant Sand
‘Blurry Blue Mountain’
 90. Church of the Very Bright Lights
‘Gang Crimes’
 91. The Chemical Brothers
‘Further’
 92. Sleepy Sun
‘Fever’
 93. Ulan Bator
'Tohu-Bohu'
 94. Ben Folds
‘Lonely Avenue’
 95. Best Coast
‘Crazy For You’
 96. The Innocence Mission
‘My Room in the Trees’
 97. Darwin Deez
‘Darwin Deez’
 98. Leif Vollebekk
‘Inland’
 99. Brad
‘Best Friends?’
 100. Damien Jurado & Richard Swift
Other People’s Songs vol. 1

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