Hold Time

 

Non saprei dire con esattezza se ‘Hold Time’ si possa veramente definire una delusione, una delle prime e delle poche di questo scorcio iniziale di 2009, ma è certo che è al di sotto delle mie aspettative. Un po’ come ‘Atlantic Ocean’ di Richard Swift, è esempio di un pop non proprio ben a fuoco che imbastardisce il songwriting di ottimi autori folk, limitandone le suggestioni in maniera direttamente proporzionale al numero di soluzioni sonore impiegate. M. Ward non mi è mai stato troppo simpatico. Spocchioso come l’amico Oberst, da subito portato in palmo di mano da alcuni grandi personaggi della scena folk-rock statunitense, tendente a prendersi troppo sul serio. Bravo però, su quello non ci piove. Temevo che l’esperienza con l’incantevole Zooey Deschanel nel progetto She & Him potesse pesare negativamente sulle produzioni in proprio di Ward e il primo atto dopo quel passaggio sostanzialmente sembra darmi ragione. Non che ‘Hold Time’ sia una vaccata, assolutamente no. E’ un disco molto colorato, molto vario, molto audace. Troppo. Rispetto a gioielli come ‘Transfiguration of Vincent’ e ‘Post-War’ (ma anche a ‘Transistor Radio’) soffre per l’eccessivo accumulo di idee mal direzionate. Si trattasse dell’opera prima di qualche giovane sconosciuto ci sarebbe senz’altro da spendersi in buone lodi leggendone in prospettiva le intuizioni positive. Ma si tratta del sesto LP di un cantautore che aveva azzeccato un bel filotto di album notevoli, quindi, a conti fatti, ha tutti i segni di un’involuzione. Tantissimi spunti interessanti se valutati singolarmente, ma presentati nei brani come assortimento sontuoso e non troppo felice. Classico di chi pecca per eccesso di buone intenzioni, forse anche per incapacità di sintetizzare tutti i propri lampi.

Ward ha insistito anche nelle interviste su questa ricerca sperimentale di un suono che mescolasse l’alto e il basso, il colto e il popolare, il sinfonico e l’acustico: niente di male nel proporsi in veste kitsch di tanto in tanto (perché di questo in definitiva stiamo parlando, recuperatevi la disamina di Eco in ‘Apocalittici e Integrati’ e vedrete che ‘Hold Time’ potrebbe essere una versione aggiornata dei pastiche pittorici citati dal semiologo) ma per risultare credibili bisogna essere molto bravi nel maneggiare stilemi e formule anche contradditori. M. Ward non ci riesce. In un certo senso fa peggio dei Wilco in un analogo tentativo di dieci anni fa, quel ‘Summerteeth’ che almeno conteneva un sacco di buoni pezzi. Qui prevalgono i bozzetti, le trovate carine e niente più, giusto qualche aroma di canzone. Si soccombe per il troppo, si rischia di uscire un poco frastornati e senza un vero sapore nelle orecchie. Si salvano ‘Stars of Leo’, che fa tanto Lennon e ‘Fisher of Men’, il country che non t’aspetti. Convincono la giantsandiana ‘Outro’ e la Mwardiana ‘Blake’s Wiew’, riprove entrambe che spesso la strada vecchia è quella preferibile. Veramente da applausi solo la cover di ‘Oh Lonesome Me’, ma in questo caso gli onori sono da condividere con una superba Lucinda Williams.

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