La Vita Agra _Letture

       

Un’opera epocale, magnetica, anche difficile da raccontare senza incorrere in banalizzazioni. “La Vita Agra” è uno di quei gioielli della letteratura italiana del dopoguerra che meritano di essere letti almeno una volta nella vita. Io ci sono arrivato parecchio tardi, due anni e mezzo fa, dopo aver lungamente allevato nella mia scatola cranica il tarlo offertomi da un entusiasta Massimo Coppola in tempi assai più remoti. Non perdetevelo, è un romanzo incredibile!

Sognava di sganasciare la dirigenza politico-economica-social-divertentistica italiana l’Io narrante imbevuto di autobiografismo del Bianciardi de “La Vita Agra”: un intellettuale bastardo e svincolato da ogni logica corporativa, privo di affidabili inquadramenti nel sistema, salito dalla provincia toscana con il solo scopo di inserirsi e pianificare un indimenticabile atto eversivo nella cittadella del potere meneghino, con i suoi “torracchioni di vetro e alluminio”, eletta a simbolo di quello spregiudicato affarismo che causò la morte di quarantatré minatori nella sua Maremma. Sognava di mettere a nudo i miti ipocriti del favoloso miracolo italiano, le sue entusiaste e acritiche iperboli, la sua etica fasulla, il suo ottimismo becero, perbenista e fuori luogo, le sue speculazioni assassine operate in nome dell’unico grande idolo, quel Progresso che ogni particolarità livella, che appiattisce la ricchezza culturale e idiomatica di un paese intero come un miserabile, sorridente schiacciasassi. Sognava tutto questo il mite bibliofilo Luciano, lasciando la moglie Mara e il figlioletto, armato solo delle sue buone intenzioni e di una sfrigolante indignazione, nella logica deviata del più classico dei bombaroli anni sessanta (un po’ il padre dell’impiegato cantato da Fabrizio De Andrè una decina di anni dopo).

 

Sognava. Eppure qualcosa, tra la fame e il freddo patiti nella sua esperienza di anomalo bohemien al numero otto di via della Braida (accanto a fotografi, pittori e sportivi di nessun successo) e le prime avvisaglie di una tranquilla ordinarietà esistenziale e lavorativa nella marginalità sterminata ma organizzata della metropoli, qualcosa si diceva non deve essere andata esattamente per il verso giusto. La consorte è nei suoi pensieri unicamente per la quota mensile da inviarle, per il sostentamento suo e del bambino, ma il posto di coniuge è assolto in pianta stabile da un’altra donna, Anna, che con lui condivide non solo una stanza ma anche i medesimi orizzonti intellettuali e la stessa prospettiva di aperta sfiducia nei confronti dell’attualità, compresa la rassegnata impotenza operativa che via via ne spegne ogni velleità. L’odio verso quel mondo di anime stinte e scintillanti “bottegoni”, grigi contabili, segretariette “secche e inteccherite” che sono gli alfieri stessi di quello stile di vita così alienante e spersonalizzato, non tramonta con l’andare del tempo e, se possibile, si fa sempre più livido e bilioso, surclassato tuttavia dal bisogno di arrangiarsi che tende a sfocare, per forza di cose, qualsivoglia aspirazione e si traduce in mero spirito di autoconservazione e sopravvivenza nelle fauci del sistema, privati anche degli ultimi barlumi di volontà e come narcotizzati da quelle stesse giubilanti fandonie che ci si prometteva di sbugiardare.

 

E’ un romanzo amarissimo e incredibilmente moderno “La Vita Agra”, storia “di una nevrosi” e “cartella clinica di un’ostrica malata che non riesce nemmeno a fabbricare la perla”. Una parabola di disincanto assoluto, di assuefazione alla spersonalizzante logica del più forte in un quadro sociale, politico ed economico dove ci si addormenta leoni e ci si risveglia agnelli, disposti a mendicare quel briciolo di benessere anche a costo di tradire se stessi, senza volerlo davvero. Così è Luciano, idealista autoconfinatosi in un avello che è ben lontano dalla grazia, nelle periferie brulicanti della grande città tetra e astiosa, stritolato dagli stessi meccanismi che intendeva scardinare col grisù, dalla logica impiegatizia del fare più grana possibile e spendere meno dané si riesca, per far quadrare tutti i conti alla fine del mese dopo aver opportunamente silenziato coscienza e dignità. Partito come grafico infiltrato nel cuore nero e marcio di quel mondo d’affari, viene relegato in orbite decentrate e messo nelle condizioni di nuocere unicamente al proprio orgoglio, spogliato della fierezza critica del non integrato e reso mansueto da un’indennità alquanto modesta, un impiego da forzato delle traduzioni, senza più il diritto a rivendicare alcunché eccetto che nelle magre parentesi concesse a un sonno senza più sogni. “La Vita Agra” non sorprende però solo per la ribollente attualità e l’ombroso scetticismo delle sue righe. E’ la materia letteraria stessa a pungere, e sbalordire e non lasciare indifferenti.

 

E’ la prospettiva metanarrativa di un autore che si fa impietoso giudice di se stesso e sabota scientemente, preventivamente, gli steccati che separino il suo ruolo dalla sua platea di lettori per promuovere un’istanza del tutto nuova, quella cosiddetta “narrativa integrale”, un processo condiviso da ambo le parti e nel quale i rapporti di forza siano annullati in nome della ragione, dell’intelletto, dello spirito critico. “Datemi il tempo, datemi i mezzi e io toccherò tutta la tastiera – bianche e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbedienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”. Una missione, questa affidata a un passaggio programmatico di rara schiettezza, poi superbamente assolta nel corso del romanzo, che sarà anche stato “neocapitalista, neoromantico o neocattolico, a scelta” ma ha affondato il suo coltello (più rugginoso che affilato) nel burro caldo delle contraddizioni di una nazione intera, lanciata come inebetita tra le luci abbaglianti del boom economico, senza risparmiare nessuno (men che meno certa intellighenzia borghese, i partiti di sinistra o le organizzazioni sindacali). A fare centro e intrigare, soprattutto, quell’“impasto linguistico” tutto contaminazioni (dialettismi, arcaismi, innesti stranieri e pure invenzioni viaggiano a braccetto come una ghenga bizzarra), dichiarato senza esitazioni nel proprio implicito manifesto: quest’opera si lascia ricordare perché arricchita da una tale densità significante, un tale lussureggiante meticciato lessicale, una vitalità linguistica che pulsa, sbalorditiva, oltre alla sua infilata di deviazioni, digressioni, diramazioni del discorso mai veramente gratuite o fuori fuoco. Così davvero ci si perde a ogni curva, per ritrovarsi poi come ubriachi di spunti, immagini e parole, meravigliati da quanta pungente opulenza la nostra lingua possa mettere assieme nel chiuso di una semplice pagina.
Gli estremi, detto senza incertezze, sono quelli del capolavoro epocale.

9.5/10

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