Month: ottobre 2012

Josephine Foster @ Cripta 747   08/07/2011       _ Il nostro (altro) concerto

      

Altrove l’ho definito il concerto più “infotografabile” cui mi è capitato di assistere, e non ritratto. Peggio, in questo senso, di quella volta che un buttafuori mi sferrò un cazzotto sul grugno per aver immortalato i Klaxons (capirai!) senza accredito, peggio dei live nelle grandi arene con ferocissimi gorilla alla transenna, peggio degli show estivi all’aperto sotto il perenne scacco della grandine. Intanto una cosa mi preme chiarirla. Nel biasimo generale io faccio foto ai concerti sempre e comunque, ignorando chi sostiene che in questo modo non posso seguire con vera partecipazione gli eventi. La verità è che mi diverto un mondo e riesco a sposare due delle mie passioni in una sola esaltante attività, per quanto limitata dalla mia natura di eterno dilettante e dall’eventualità che qualcosa vada particolarmente storto, in un senso o nell’altro. I concerti brutti capitano, per l’appassionato di musica non ci si può fare nulla. Poi ne capitano altri – non così di rado – in cui l’artista è all’altezza ma non il pubblico, o il contesto nel suo insieme. E non mancano quelli in cui è il fotografo amatore a storcere il naso: luci troppo soffuse o troppo calde o troppo schizofreniche per resa visiva, così insopportabili da costringerlo a fare le acrobazie tra tempi sufficientemente bassi, diaframmi accettabili e rumore non così mortalmente alto, iso permettendo. Bene, tutta questa lunga e noiosa premessa per dire che a volte, anche rimanere fermo al palo con la mia reflex non è proprio un male. Mark Kozelek è uno di quelli che non ammettono macchine e macchinette per riprese video o fotografiche durante le sue esibizioni. Allettante a guardarla dal punto di vista di un suo fan ma tutt’altro che inaccettabile anche per chi abbia il vizietto della fotografia. Certi spettacoli riescono a plasmare una tale aura di sacralità che anche una mosca che svolazzi senza invito riuscirebbe inopportuna. I suoi live quasi mistici per voce e chitarra classica rendono alla perfezione un principio cui cerco di attenermi fermamente ogni volta che un cantante, anche meno intenso del leader dei Sun Kill Moon, canta senza accompagnamenti ritmici o senza scorte elettriche. Detesto io per primo un click che fa a sberle con una voce nel silenzio claustrale, diversamente da certi invasati con zaini, arsenale tecnico e strafottenza paurosi. Un concerto di Josephine Foster rientra alla perfezione in questa stessa categoria, per cui nella cronaca qui riportata non ho particolari recriminazioni da fare. Stare bravo al mio posto e godermi quella sua voce pazzesca, con le parche esilissime trame della sua chitarra, era quasi un comandamento biblico che ho rispettato senza fiatare. Facendo di necessità virtù, diciamo, visto che ad una simile adeguata condotta sono stato spinto non dalla cantautrice del Colorado per espressa richiesta, ma dalle terrificanti condizioni luministiche in cui lo spettacolo si è svolto: una penombra quasi totale, con un unico neon a mezzo servizio posto per terra, e con su una mantella nera della stessa Foster, ché l’atmosfera è tutto. Questo, è importante dirlo subito, è stato in realtà l’inconveniente più trascurabile di una serata in cui quasi tutto è andato per il verso sbagliato, e riferisco queste parole non al semplice cacciatore di ritratti fotografici ma proprio all’appassionato di musica in libera uscita. Perché è così che mi sono presentato alla Cripta 747 di Torino la sera dello show in questione: da appassionato generico, fresco reduce di un concerto rock-blues (i Black Crowes a Vigevano, la sera prima) e ben disposto ad affidarsi a sonorità ben diverse pur essendo da tempo a digiuno di folk appalachiano e non avendo sentito una sola nota delle canzoni della suddetta Josephine Foster, piacevole incognita che avrei detto esclusiva nella serata, sbagliandomi di grosso. Trovare questa famigerata “Cripta” è già stata una discreta impresa. Immaginavamo un locale a tutti gli effetti ancorché piccolo, schiacciato tra i tabarin fighetti del Quadrilatero Romano e l’inavvicinabile kasbah notturna di Porta Palazzo, e invece ci attendeva uno scantinato infame. Chiuso, per giunta. L’abbiamo fatto aprire noi stessi quando telefonando ormai disperati ai titolari, siamo stati raggiunti davanti ad un grosso portone senza citofoni e senza numeri civici da una terna di tizi vagamente alternativi, di ritorno da una cena in luogo imprecisato. Scoprendo che il posto era collocato sotto terra, in un trittico buio di infernotti comunicanti, una dose minima di perplessità è affiorata quasi automaticamente. Nessun biglietto di ingresso in cambio di cinque miseri euro, nessun guardaroba, nessuna uscita di sicurezza, nessun posto per sedersi, nessuna base in legno accostabile ad un palco e, soprattutto, nessun altro avventore a parte noi e due ragazzi appositamente giunti da Milano. Li per lì ho immaginato che quelli della Cripta fossero vampiri e avessero trovato cinque poveracci con cui sfamarsi. Poi le cose sono cambiate con l’arrivo, alla spicciolata, di un numero sempre più alto di giovani dall’aspetto, francamente, assai poco raccomandabile. Al di là di questo, dubbi via via più incalzanti in merito allo svolgimento della serata, accentuati da un clima sempre più cocente da scherzo poco divertente, con birre affogate in una bacinella di ghiaccio e vendute senza scontrini nella più esterna delle tre cantine, calca berciante e difficoltà crescenti a tollerare con la sporcizia del luogo quella dei propri occasionali vicini, presumibilmente i peggiori squatter di Torino a convegno gratuito (eh sì, pagavano solo i veri “forestieri”, noi stronzi) in una cloaca per la musica. Del concerto in sé non rimane neanche molto da dire, eccetto che vi erano due gruppi (due artiste in realtà) spalla, dalla Finlandia, e che la Foster è stata strepitosa per pazienza quanto per incanti regalati. Le classiche perle ai porci, considerata la teppaglia umana (e canina) che, stravaccata accanto a noi sul pavimento, non ha smesso un istante di ciarlare, fumare di tutto, rovesciare bottiglioni di vino e farsi, molto poco elegantemente, i propri porci comodi. Uno spettacolo indecoroso ed uno scempio immeritato già per le non esaltanti Hilma Glad (folksinger oversize con ambizioni stranianti “alla islandese”, per quanto nella variante “vorrei, ma non posso”) e Kuupuu (il cui essere graziosa non ha riscattato un set ammorbante a base di cinguettii ed elettronica delle più indigeste), figuriamoci per una performer e vocalist di assoluto talento come l’americana. Che ha fatto il possibile, occorre dirlo, forse anche per dare senso a quelle interviste in cui dichiarava di amare l’esibirsi in location insolite quando non proprio estreme (si riferiva a chiese, grotte e monumenti vari, in realtà). Ignorando per quanto le riuscisse l’ignobile bazar davanti a lei, Josephine ha stregato senza problemi i pochi che erano lì per lei. Non saprei minimamente ricostruire la scaletta del suo live da un’ora e via, anche generoso considerando cotanto parterre de roi, perché come detto mi ero presentato da profano assoluto. Sono però certo, avendo approfondito nel frattempo la conoscenza della sua intera discografia (dai primi dischi per Locust al recentissimo ‘Blood Rushing’), che abbia ripreso diversi dei bozzetti con le liriche di Emily Dickinson di ‘Graphic As a Star’ oltre ad alcune delle Canciones Populares raccolte in origine da Garcia Lorca e reinterpretate assieme al marito Victor Herrero nelle due raccolte iberiche sin qui licenziate. Non il meglio del suo repertorio (che per me rimane quanto pubblicato nel 2005/06, ‘Hazel Eyes, I Will Lead You’ e ‘A Wolf In Sheep’s Clothing’), eppure abbastanza per intrigare con la sua toccante semplicità, con la perfezione di un cantato da pelle d’oca e con la purezza dei suoi ricami scarni in acustico. Uno spettacolo martoriato da agenti esterni e nondimeno delizioso, a riprova che i grandi artisti sono tali anche nelle peggiori condizioni. Con buona pace anche mia e della mia smania di immortalarli, oltreché di quelli che li invitano forse solo per il gusto perverso di oltraggiarli. Il buon proposito, in conclusione, è di ritrovare la Foster nelle circostanze più idonee, con una macchina fotografica a disposizione ma da usarsi solo in quei pochi frangenti in cui la musicalità si faccia più chiassosa, armoniosamente parlando. Amen.

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Cold Spring Harbor  _Letture

      

Riecco Yates. L’avevo lasciato nel baratro di amarezza e follia di John Wilder in ‘Disturbo della quiete pubblica’ e lo ritrovo nei sogni infranti della desolata provincia americana di ‘Cold Spring Harbor’, suo ultimo lavoro. Avevo dubitato che quel libro, da me definito all’epoca “eccezionale” senza esitazioni, fosse davvero la sua opera peggiore, come in tanti sostengono: beh, dopo aver aggiunto una spunta all’elenco dei suoi romanzi, posso affermare se non altro che questo secondo titolo è, possibilmente, addirittura “un po’ più eccezionale” di quello. E’ scritto con una fermezza raggelante, con onestà, è una fetta di vita vera. Non soltanto perché si tratta dell’opera più autobiografica dello scrittore di Yonkers, ma proprio perché i personaggi in scena sono terribilmente autentici come i loro drammi senza clamore, come il silenzio delle loro passioni e della loro frustrazione. E’ impressionante Richard Yates, erano anni che non mi imbattevo in un romanziere capace di farmi divorare un libro in due giorni. Di sicuro questo non capitava in casi in cui la materia narrata avesse una connotazione tanto realistica e deprimente, visto che in genere è la fuga dalla realtà a porsi come proposta allettante, non il contrario. Secondo cinque stelle Anobii su due, quindi, per l’autore di ‘Revolutionary Road’. Media impeccabile che immagino sarà confermata anche dopo la lettura del suo romanzo più noto, trovato qualche settimana fa intonso in un mercatino dell’usato ad un euro e cinquanta, edizione Garzanti del ’66 ancora con il primo titolo italiano, ‘I non conformisti’. Finisco i racconti di Carver, leggo un po’ di Buzzati e poi via, mi ci dedico.

A Cold Spring Harbor, cittadina residenziale di Long Island e rispettabile buco nel bel mezzo del nulla, il matrimonio di Evan e Rachel segna l’ incrociarsi dei destini di due famiglie. Da una parte gli Shepard: uno sposo privo di grandi passioni e che nemmeno un precedente matrimonio (con paternità) aveva saputo far maturare, suo padre Charles, militare andato in pensione prima del tempo per accudire la moglie, e proprio quest’ultima, Grace, sprofondata da anni in un baratro di alcolismo, depressione e disagio mentale. Dall’altra i Drake: il padre Curtis, in perenne latitanza, la madre Gloria, egocentrica querula, squilibrata e con troppi vizi in curriculum (fumo, superalcolici, nomadismo compulsivo), il figlio Phil, da tutti trattato alla stregua di un bambino ma desideroso di emanciparsi il prima possibile, ed appunto la novella sposa, una ragazza assennata quanto conformista e succube dell’ingombrante genitrice.
Il settimo ed ultimo romanzo di Richard Yates è poco più che uno spaccato. L’azione è ridotta all’essenziale, non succede nulla di particolarmente eclatante ed anche la chiusura lascia inalterate le vicende dei protagonisti. Messo in questi termini potrebbe sembrare un semplice ritratto corale privo di particolare interesse, ma la realtà è che si tratta dell’ennesimo capolavoro di un autore ancora incredibilmente poco conosciuto, almeno dalle nostre parti. Poca azione, si diceva: non certo un problema per uno scrittore realmente straordinario nel rendere le psicologie ed i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – più che la pirotecnia di una fabula forzatamente avvincente. A Yates interessavano gli esseri umani al netto degli artifici letterari, la famiglia come teatro di piccole quotidiane miserie, ed in tal senso ha ragione chi ha parlato di ‘Cold Spring Harbor’ come di una polveriera di sentimenti inesplosi. A dominare la lettura e renderla un’esperienza così impetuosa è la tensione invisibile ma latente di cui le oltre duecento pagine sono impregnate.
Lo sguardo di Yates è rivolto come una macchina da presa del nostro Neorealismo ad una ristretta galleria di anime periferiche, condannate per loro natura ad una desolante e quasi commovente immobilità. Tutti i personaggi (tranne forse Mary, la prima moglie di Evan) soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. Con la precisione di un entomologo l’autore di ‘Revolutionary Road’ si sofferma sull’insulsa normalità dei Drake e degli Shepard ma anche delle figurine secondarie, sulla dipendenza irriducibile dalle proprie e dalle altrui debolezze, sul bagaglio di aspirazioni e buoni propositi puntualmente disattesi e destinati a languire in una secca di rancore strisciante e sostanziale impotenza.
Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si confermano ancora una volta limpidissimi, mirabili, non comuni. E’ questo minuzioso lavoro multiprospettico, con la sua verità non adulterata, a lasciare realmente ammirati. Il modo in cui va svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli ed insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni ’30 e ’40. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.
‘Cold Spring Harbor’ racconta la fine delle illusioni giovanili, l’incomunicabilità, il senso di vergogna e solitudine, la voglia frustrata di ascesa sociale e riscatto, con lo sfavillio del Sogno Americano ridotto mai come ora ad un miraggio beffardo, un fondale di cartone schiacciato dall’onda lunga della Grande Depressione ed ancora terribilmente lontano dai luminosi anni ’60. Il pessimismo di fondo è asciutto, mai gratuito, privo di aneliti moralistici e senza la minima scoria di cinismo. Yates non era uno scrittore sadico, tutt’altro. Sentiva il bisogno di mettere in scena e raccontare un po’ della propria infelicità, ed è forse per questo che il suo ultimo romanzo va letto in prospettiva come quello in assoluto più autobiografico. Nei panni di Phil, goffo ma vitale, non vi è altri che il Richard ragazzo: acerbo, insicuro senza una figura paterna, funestato da una madre straordinaria solo nel dispensare sensi di colpa, ma in fondo ancora in grado di scegliere con la propria testa e di smarcarsi almeno fisicamente dai demoni soffocanti di un mondo sciatto e privo di colore.
Accanto a lui, una rassegna di personaggi emblematici ed indimenticabili. La terrificante Gloria Drake in primis, fantasma della madre Dookie ed icona quasi sublime del patetico e del melodrammatico, maestra del sopra le righe in perenne affanno nella sua rincorsa impossibile ad una rispettabilità idealizzata fino alla nausea. La “donna che muore d’amore” per il consuocero Charles, uomo decoroso, paziente e armato di tanto buonsenso, ma con troppi fantasmi ingombranti nel passato e nel presente, e con più di una responsabilità nello sfacelo psichico di sua moglie Grace. Il figlio Evan incarna invece tracce del ribellismo della (imminente) gioventù bruciata ma in maniera mediocre, inconcludente, senza alcuna profondità romantica o tragica che sia, e come gli altri non riesce a suscitare simpatie nel suo veleggiare privo di rotta, né antipatie per l’adulterio o il disprezzo riservati all’impalpabile Rachel.
L’Alcool e la guerra sono presenze sottili ma costanti, quasi coprotagonisti. Il primo è la linfa che accompagna e scandisce le giornate vuote di tutte le miserabili pallide esistenze della cittadina di provincia. Bevono le due madri, una per evadere più agevolmente la realtà, l’altra per farsi coraggio e rendersi ancora più insopportabile nel suo profluvio di parole fuori luogo. Bevono gli Shepard, per dimenticare le gabbie in cui il loro arbitrio li ha reclusi. Beve Curtis Drake, che nemmeno si degna di accompagnare al treno dell’addio il figlio più giovane, e beve anche quest’ultimo – solo birra però – nelle prove generali di una vita adulta. La guerra non è da meno come pensiero ritornante. Lasciapassare per una vita finalmente diversa, patente di rispettabilità sociale o pozza dei propri più accesi rimpianti, è una realtà con la quale tutti i personaggi maschili si trovano in qualche modo a doversi misurare.
E poi c’è il finale, a suo modo memorabile. Volutamente irrisolto, lascia in sospeso ogni possibile sentenza, affidando alla vena del lettore il piacere di ritrovarvi una condanna amara e senza appelli oppure un barlume di speranza quasi fuori tempo massimo. L’eccezionalità di Yates risiede anche in questa magistrale ed umanissima ambiguità che pochi come lui hanno saputo dispensare con tanta sfacciata disinvoltura.

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Beth Jeans Houghton @ Spazio 211   19/04/2012  _ Il nostro (altro) concerto

      

Chissà se a fine anno Beth Jeans Houghton sarà archiviata nello schedario delle meteore, in quello delle sorprese, o potrà ambire a qualche riconoscimento più significativo. Chissà, soprattutto, quanti tra un paio di mesi potranno ammettere di averla sentita nominare o di aver ascoltato quantomeno uno dei singoli del suo fenomenale disco d’esordio, ‘Yours Truly, Cellophane Nose’. La più plausibile delle risposte è che il numero sarà comunque esiguo, nonostante l’orrenda etichetta di certa stampa che ha sfruttato una lontanissima somiglianza estetica (unicamente limitata al volto) definendo la ventiduenne di Newcastle la “Lady Gaga del folk”. Difficile che faccia clamore l’aver aperto numerosi concerti degli acclamatissimi (e del tutto trascurabili) Mumford & Sons, o il legame sentimentale paparazzato per un annetto buono con l’ormai pensionabile cantante dei Red Hot Chilli Peppers, Anthony Kiedis (chi non si somiglia si piglia, quindi?), in realtà, a quanto pare, esperienza pure conclusa.

Se per la qualità dell’album resto convinto che non potrò che ricordarmi di lei al momento di stilare le immancabili classifiche, il concerto di questa primavera allo Spazio 211 ha sgombrato il campo da eventuali dubbi sulle qualità e sulla natura del personaggio. A livello produttivo, si sa, è possibile nascondere una bella sfilza di magagne presentando artisti mediocri sotto una luce di sicuro impatto, ed il reclutamento di una vecchia volpe come Ben Hillier (che in passato ha lavorato con Blur, Elbow, Suede, Depeche Mode, Horrors e Patrick Wolf, solo per citare i grossi calibri) poteva fungere senz’altro allo scopo, almeno stando agli incoraggianti risultati formali. Per la prova del nove serviva però l’appello del live e quelli di Spazio per una volta non si sono fatti sfuggire l’opportunità di invitare una nuova sensazione ad esibirsi sul loro palco, evento ormai raro vista la concorrenza spietata in fatto di nomi nuovi da parte dell’Astoria. Orecchie attente, quindi, e aspettative tenute sotto controllo per evitare scottature, precauzione non necessaria in realtà. Le nostre difese sono state abbassate presto, diciamo dopo la coppia di pezzi rompighiaccio e l’abbandono nei confronti della ragazzina inglese si è rivelato incondizionato.

Il più grosso timore della vigilia era legato alla sua voce, quel soprano vertiginoso capace di dare punti e credito alle più ardite soluzioni in fase di arrangiamento, dai barocchismi del Canterbury Sound agli azzardi fiabeschi che con altre interpreti non avremmo che potuto definire pacchiani, dalle svisate in salsa western alle architetture melodiche più sostanziali. La conferma è stata piena dal primo momento, un autentico sollievo in forma di cristallo. Il cantato di Beth Jeans Houghton è davvero impressionante. Angelico ma robusto, versatile per intensità e repertorio, toccante quando serve, senza dimenticarsi di graffiare e trascinare. Se dal punto di vista della compattezza nel suono o dell’agilità di scrittura la ventenne di Newcastle pare ancora leggermente indietro rispetto a talenti assoluti (in un terreno simile) quali My Brightest Diamond e St. Vincent, forse a livello vocale riesce nella non facile impresa di recuperare lo svantaggio. Già solo per questo il suo concerto meritava di non essere perso. Sul piatto va aggiunto poi il contributo significativo della sua band, gli Hooves of Destiny, perfetti nell’approntarle impeccabili cornici sonore e decisamente affiatati.

La nota più lieta della serata, anche la più inattesa se vogliamo, è stata comunque lei. La persona prima ancora che la cantante. Che si trattasse di un peperino non ci voleva una laurea per capirlo già con largo anticipo, ma che la fanciulla fosse così umile, alla mano, divertente e contagiosa, andava sicuramente al di là di ogni più rosea previsione. Una brezza di hype, per quanto sottile, l’ha sospinta assieme alla promozione comunque importante della sue etichetta, la Mute. La visibilità non le è mancata, e così i paragoni fuorvianti e mai leggeri. Eppure quella capacità di restare sobria, disponibile, affabile, è stata una sorpresa vera e gradita. Poi beh, naturalmente c’è stato il concerto con le sue trovate riuscite (tipo la cover a cappella di uno dei più celebri pezzi di Madonna), le sue canzoni – tutte all’altezza degli originali e qualcuna (‘Humble Digs’ stravolta in una veste country credibilissima) addirittura migliore – e la sua ironia accattivante. Chi ha ascoltato il disco sa sicuramente che ‘Dodecahedron’, ‘Atlas’ e ‘The Barely Skinny Tree’ sono le migliori promesse della giovanissima cantautrice inglese. Aggiungendo alla terna l’incantevole ‘Nightswimmer’ scelta per il congedo, mi sento di certificare che di promesse mantenute si tratta. Per quello che verrà da qui in avanti toccherà aspettare un po’, anche se, detto tra noi, punterei sull’avvenire luminoso di Beth almeno un discreto cumulo di fiches luccicanti. Il pedigree pop di qualità non le manca e presto potrebbero accorgersene in tanti, con buona pace di Anthony Kiedis e di chi non ha altri riferimenti che Lady Gaga nella sua agenda di critico musicale.

SETLIST: ‘Atlas’, ‘Dodecahedron’, ‘Franklin Benedict’, ‘Liliputt’, ‘Your Holes’, ‘The Barely Skinny Tree’, ‘Humble Digs’, ‘Honeycomb’, ‘Shampoo’, ‘I will return, I promise’, ‘Sweet Tooth Bird’; ENCORE: ‘Like a Prayer’, ‘Prick aka Sean’, ‘Nightswimmer’.

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Castlemania

       

Niente, proprio non ce la fanno a fermarsi. Non si ha il tempo di stabilizzarsi negli ascolti, di metabolizzare una nuova uscita ancor più frastornante della precedente che, ecco, sono pronti ad uno dei loro assalti da terroristi sonori. Un po’ come quel monellaccio di Ty Segall, che è nella loro cerchia di accoliti non per caso e che quest’anno sembra intenzionato a sbaragliare ogni avversario nella competizione avendo fatto uscire ben tre album (tutti con ragioni sociali diverse) in appena cinque mesi e mezzo.Non che sia un male, intendiamoci, almeno finché la qualità si mantiene stabilmente sopra la media. Che è poi il miracoloso standard a cui ci ha abituato Ty ed ancor più di lui proprio i formidabili Thee Oh Sees di questi ultimi tempi. Il 2011 ci ha portato in dote questo sciroccatissimo album, ‘Castlemania’, che qui mi accingo a recuperare dopo una lunga stagionatura (la relativa recensione era uscita addirittura su indie-rock.it, altri tempi), una succulenta raccolta di B-sides e demo assolutamente all’altezza (‘Singles Collection Volume 1 and 2’) ed un’eccelsa perla di fine anno, il potentissimo ‘Carrion Crawler / The Dream’, infilato senza grossi problemi dal sottoscritto nelle posizioni di pregio della classifica dello scorso anno. Non contenti i satanassi californiani hanno replicato un mesetto fa, licenziando un’altra raccolta di tutto riguardo intitolata ‘Putrifiers II’. Nel loro caso stupisce davvero come ad ogni nuova uscita il loro suono riesca ad essere più arrembante ma anche più accessibile, con un perfezionamento a livello produttivo che li ha portati molto lontano rispetto allo scalcagnato garage in bassa fedeltà degli esordi. Per ‘Castlemania’, comunque, questo discorso è valido solo fino ad un certo punto visto che, esclusi alcuni dettagli marginali, si tratta di fatto di un disco solista del vulcanico frontman John Dwyer, un caso a parte nella loro ormai quasi sterminata discografia. E’ un lavoro sfarfallante, scombiccherato ed impregnato degli umori briosi e malsani del capoclasse. In genere la critica lo ha accolto con un po’ di scetticismo ma personalmente lo ritengo una delle cose più bizzarre ed originali uscite negli ultimi anni nella scena alternativa statunitense: acre, rancido, sporchissimo e volutamente poco attraente, eppure emblematico nel raccontare una personalità musicale insolita e per farsi un’idea in merito agli estremi di creatività ed intransigenza che il gruppo di San Francisco può raggiungere. Da ascoltare senza pregiudizi e con una buona dose di clemenza, dato che non somiglia a nient’altro in circolazione. Ah, il doppio vinile è una meraviglia.

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