Ulan Bator @ Spazio211

15-4-2010

 

Uno di quei concerti di cui conservo poco tra i miei ricordi, a parte una galleria di istantanee frammentarie ed un senso di appagamento comunque molto gradito a caldo, assicurato più dall’onestà dei musicisti sul palco che non da un mio effettivo colpo di fulmine nei confronti di questa band e delle sue canzoni. Tante volte sono passati da queste parti gli Ulan Bator, così tante che, nonostante mi ricordi con precisione almeno un paio di loro sortite in città da me mancate miseramente, quello di Aprile allo Spazio non è stato il mio unico appuntamento con loro andato a segno. Ed ogni volta, con ogni sorta di formazione in scena, le sensazioni sono le medesime: l’impressione di una franchezza assoluta, quel porsi in contatto con il pubblico e suonare senza ricorrere a maschere che non è proprio atteggiamento diffuso tra gli artisti indie più blasonati come tra gli emergenti, specie quelli di casa nostra. Umiltà, amore per una professione che è sempre decisamente "sui generis", anche quando fama e riscontri commerciali limitati farebbero pensare ad un più che legittimo uso del termine. Mestieranti sì, ma con la passione viva di chi ha i piedi ben piantati a terra e sa godere di quel poco che può esprimere e condividere: così sono gli Ulan Bator, band francese innamorata dell’Italia e marginale per inclinazione. E’ sempre bello incrociarli quando sono di passaggio perché si sa perfettamente cosa aspettarsi da loro e si può star certi che non si rimarrà delusi. In oltre quindici anni di orgogliosa carriera in trincea, Amaury Cambuzat e soci hanno saputo conquistare una sempre più solida credibilità in ambito indipendente, riuscendo a promuovere in pochi ma significativi lavori una personale quanto credibile via europea al post-rock. Un po’ math, un po’ noise ed in ultimo aperta alle contaminazioni con il pop sofisticato o la canzone d’autore. Il loro riuscitissimo mix – senza la minima variazione sugli standard del passato e con una bella aura scapigliata che sembra favorirli man mano che invecchiano – è stato alla base di questo loro ultimo live in agenda, a garanzia di quella generale soddisfazione di cui si è detto all’inizio. Cambuzat è a suo modo un personaggio e incide non poco sulla resa spettacolare del gruppo, pur essendo in fin dei conti un autore ed un frontman sincero come pochi. Con quella giacca impeccabile a fare contrasto con un’intonazione generale altrimenti decadente, oltre all’immancabile sigaretta sempre accesa in bocca, il cantante ricordava non poco il leader dei dEUS e nel report l’ho appunto definito il "Barman dei poveri" (senza il minimo intento dispregiativo, mi sono limitato a tracciare le dovute proporzioni). Come per il collega belga non gli si può certo rimproverare che il carisma gli faccia difetto: al centro della scena c’é sempre stato lui, tra una posa più contemplativa e le scariche del mattatore esagitato, pronto a violentare la sua elettrica o a percuotere la malcapitata tastiera. Pure nella versione a tre presentatasi in Italia nel tour di quest’anno, gli Ulan Bator hanno fatto un discreto baccano, merito soprattutto della ottima sezione ritmica composta dal nostro connazionale Alessio Ciborio Gioffredi e da un bassista parigino, Stephane Pigneul, che ha svolto con grande efficacia l’ingrato compito di non far rimpiangere il titolare (ma c’é ancora?) e cofondatore Olivier Manchion. Oltre a qualche genuina concessione spettacolare (vedi i costanti balletti da una parte all’altra della sua fetta di palco), è stato proprio questo pittoresco scudiero francese ad assicurare agli Ulan Bator una compattezza sonora impressionante, con tagli sostanziali alle dilatazioni e ai rallentamenti che non di rado hanno appesantito i loro brani in studio come dal vivo. Pescando equamente dal passato remoto e da pubblicazioni più recenti, la band si è mantenuta in perfetto equilibrio tra l’intransigenza degli esordi, con il suono spigoloso e minaccioso, e la maggior accessibilità di passaggi come ‘Nouvel Air’ e ‘Rodeo Massacre’. Ottima, a voler scegliere una canzone dal mazzo, l’onirica e perturbante ‘Pensées Massacre’, anche se la maggior parte degli applausi è stata spesa in occasione delle feste elettriche dell’immancabile ‘Lumiere Blanche’ (loro manifesto) e di quella ‘Santa Lucia’ che, con l’ottimo ‘Ego: Echo’, è uscita per la Young God di Michael Gira nell’unico momento di vero respiro internazionale che il gruppo parigino abbia mai avuto. Tour a parte, si intende.

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