Days Come and Go

In una delle scorribande serali con il mio amico Steno li incontrai. Era il primo anno di università, un secolo fa praticamente, e quelle erano benedette fughe dall’ovvio. Steno aveva una vecchissima cinquecento ed un lettore di cassette. Aveva anche delle cassettine fatte da lui, copertina compresa, copiate da qualche disco strano dei più strani tra i suoi amici. Una sera infilò questa bella cassetta nel lettore e filammo via, nella notte, tra corso Casale e zona Vanchiglia. Su un lato c’erano gli Asian Dub Foundation, roba che puntualmente mi faceva ascoltare e che cominciavo ad avere a noia. Sull’altro lato però c’era roba mai sentita, canzoni pop tranquille e con una fracca di parole dentro, con qualche ingenuo passaggio di elettronica povera. Il disco si chiamava ‘Tigermilk’, ‘The State I Am In’ mi piacque all’istante. Chiesi chi erano, solita scontata battuta sul cartone animato e poi via, pensieri già a qualcosa di nuovo. Qualche sera dopo eravamo nella casa in Crocetta di un paio di suoi amici, gente ricca sfondata ed annoiata, borghesi della peggior specie. Sfogliavo distrattamente una rivista di musica con la speranza che ci levassimo presto da quella solfa quando Steno mi interruppe mostrandomi la recensione di un disco nuovo, con una bella copertina verde. Erano loro, quelli della cassetta. Il giorno dopo comprai quello stesso disco, che mi piacque ma non quanto quello assaporato sui viali del lungopo sulla cinquecento. Decisi di ritrovarlo e così mi procurai in brevissimo tempo tutto il resto: il mini con la copertina gialla, quello con la copertina viola e quello con la copertina bianca, il disco con la copertina rossa e finalmente quello con la copertina grigia (o azzurra, mai capito). Erano quelli i giorni in cui mi innamorai di Belle & Sebastian e proclamai ufficialmente aperta la caccia ai migliori emuli di quel gruppo: qualunque cosa suonasse molto simile a quella band non poteva che piacermi ma…esisteva qualcosa di veramente simile? Col tempo provai di tutto (perfino roba tipo ‘It’s Jo and Danny’), spesso uscendone deluso, altre volte con qualche nome prezioso in più in agenda. Leggendo in un articolo di Bordone sul Mucchio l’ennesimo accostamento con l’indiepop da cameretta di Murdoch e Jackson, comprai i primi dischi di altre due band scozzesi tutto sommato personalissime che mi sono comunque rimaste nel cuore: in una cantava una Campbell che non era Isobel, nell’altra un tizio di nome Gordon spacciato non a torto come il nuovo Morrissey. Di musica perfettamente accostabile a quella dei Belle & Sebastian, però, nessuna traccia. Mai trovata una band equivalente, e infatti questa ricerca inutile è un gioco che non mi interessa più. Se mi ci dedicassi ancora, sarei forse stupito nel rilevare che anche il gruppo che ancora pubblica dischi con quella ragione sociale è solo una pallidissima copia della band formidabile di quei primi album. Se mi ci dedicassi ancora potrei entusiasmarmi per qualche minuto, lasciando scorrere i primi brani di questo esordio degli svedesi Mockingbird, Wish Me Luck. L’entusiasmo si spegnerebbe dopo qualche frangente e non reggerebbe di certo un numero consistente di altri ascolti. C’è l’imitazione, appunto, mentre il talento (che si scorge a tratti, bisogna dirlo) è ancora abbastanza acerbo. Nel complesso il disco è carino, sincero, ben suonato. Ma non sorprende davvero, non può farlo. Resta l’ennesima testimonianza di come i giovani musicisti svedesi ci sappiano fare (per la cronaca questo batte il nuovo di Pelle Carlberg sullo stesso terreno, anche se esce sconfitto in quanto ad ironia dal tenerissimo "Pelle & Sebastian" scandinavo). Viene da dire che la stoffa c’è e che i ragazzi sapranno come crescere e migliorarsi. E’ anche vero, però, che se ci hanno messo cinque anni per registrare le loro prime nove canzoni potremmo dover aspettare moltissimo tempo per raccogliere i frutti di questa semina.

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Un disco divertente

 

Se siete alla ricerca di un disco easy che non suoni pizzoso, che guardi al passato senza che questo si traduca per forza in un attacco di orticaria sulla vostra pelle modaiola, un nome da proporvi ce l’ho: Gentleman Jesse and His Man. Chiunque abbia scritto di questo omonimo album d’esordio uscito qualche mese fa ha parlato con molta disinvoltura di power-pop, genere che, per quanto riguarda il sottoscritto, ci azzecca meno di zero. Al solito, uno lo scrive e cento altri lo confermano senza forse nemmeno preoccuparsi di verificare se quell’etichetta corrisponda a verità. Così i Gentleman Jesse and His Man fanno del buon power-pop a detta di tutti, a cominciare dal generoso recensore di Pitchfork, mentre la realtà non è esattamente questa. Stiamo parlando di un curioso quartetto di Atlanta, formazione derivativa nata da una costola della band garage The Carbonas, ottima concittadina dei Black Lips – genere che evidentemente da quelle parti al momento va per la maggiore – e autrice di almeno un disco di tutto rispetto (‘Carbonas’, anno 2006). Bene, quest’ultima informazione è interessante ma assolutamente ininfluente in una breve dissertazione sui Gentleman Jesse and His Man, ragion per cui potete disfarvene come se non l’aveste mai ricevuta. Tornando al discorso precedente, mi preme ribadire che non di power-pop si tratta – etichetta usata il più delle volte per sminuire un lavoro che non per riferirsi ad una determinata cifra espressiva – bensì di schietto pop rock. Venendo all’album in questione mi sembra doverosa una semplice premessa: non è proprio qualcosa di stratosferico, né un’opera rivoluzionaria, tutt’altro. Però non si può negare che ‘Gentleman Jesse and His Man’ sia una divertentissima raccolta di brani, piacevolmente revivalista e piuttosto intelligente nell’approccio scelto, in una proposta che fa della semplicità la sua arma migliore senza per questo risultare banale o scontata.

 

E’ un disco perfetto come sottofondo. Non lo dico per screditarne le qualità. Sostengo anzi che per certi album già questa sia un’ottima conquista, un risultato al quale non tutti possono ambire. Un disco perfetto come sottofondo piacevole e non cretino, perfetto per ascoltare musica non troppo impegnativa ma comunque sufficientemente stimolante. Non è poco. Soprattutto ‘Gentleman Jesse and His Man’ centra in pieno questo tipo di bersaglio e non delude dopo parecchi ascolti di concentrazione a scartamento ridotto (ma non troppo). Al centro di tutto c’è il basilare monolite rock, “voce – chitarra – basso – batteria”, concepito e strutturato con una saggezza in termini di equilibrio che ha del prodigioso. Non c’è spazio per altro, esplorazioni esotiche, appesantimenti di sorta, sciccherie sonore all’ultimo grido, complicazioni o semplificazioni elettroniche. Niente. Un po’ come una dieta rigenerante e depurativa, back to the basic e stop. Già questo vale un plauso. La purezza e l’osservanza della formula originaria è inattaccabile. Aggiungiamo l’ostinazione citazionista che coivolge anche il piano iconico, con quell’ironica copertina che strizza l’occhio al memorabile Costello di ‘This Year’s Model’. Anche l’apertura di ‘Highland Crawler’ guarda apertamente a quel periodo, con uno scoppiettante mix di Clash, Wire e mille altri che, al di là della scorza dei suoi elementari riffettini e di un senso di strasentito, non riesce a risultare né fastidioso né antipatico.

 

Scrivo di ‘Gentleman Jesse and His Man’ mettendo in automatico le mani avanti, sistemando in bella vista su questo ideale scaffale tutti i difetti che posso trovare, salvo poi farmi beffa di me stesso brandendo la puntuale condizione avversativa come una spada fiammeggiante. Di ‘The Rest of My Days’, per dire, potrei tagliar corto sostenendo che il pezzo è sì fresco e gradevolissimo ma per nulla originale, con le sue chitarrine veloci che si alternano in alcune tra le uscite più abusate nella storia del rock’n’roll. Però dovrei chiudere comunque con un “eppure…”. Eppure funziona…eppure sta proprio lì il bello…eppure e ancora eppure. Di ‘You Don’t Have To (If You Don’t Want To)’ dovrei scrivere che si tratta dell’ennesimo pezzo catchy dell’album, con refrain riconoscibili al primissimo ascolto e relativo assolo alla camomilla. Ma mi vedrei costretto a continuare con un “ma” o similia. Ma non si può non lasciarsi trasportare…ma è impossibile non muovere il dito come Homer Simpson…ma e ancora ma. Anche per ‘Put Your Hands Together’ farei fatica a non indirizzare direttamente al rock dei seventies, rilevando un taglio nel complesso abbastanza edulcorato. Ma mi scapperebbe senz’altro un “tuttavia”. Tuttavia ha un suo carattere…tuttavia si sente anche il presente…tuttavia e ancora tuttavia.

 

Questo solo per restare ad alcuni tra i brani forse meno brillanti dell’album. Quando questi ragazzi decidono di rifarsi agli anni ’60 il livello migliora ancora, se possibile. Ingannando con la stessa impressione di ordinarietà nell’”operazione recupero” che nasconde in realtà una genuina e naturale eccellenza. ‘Butterfingers’, ‘I Get So Excited’ e ‘You Got Me Where You Want Me’ sono solo alcuni esempi, pescati a caso nel mazzo, di come questo rockettino passatista possa fare centro secco con pochi ingredienti ben dosati, giocando le proprie carte senza grosse pretese ma anche senza particolari sovrastrutture intellettualistiche. La leggerezza assoluta, l’immediatezza e la simpatia restano i migliori pregi di questo bel dischetto, la cui chicca assoluta rimane comunque ‘All I Need Tonight (Is You)’, traccia numero tre, un brano che cita pesantemente (e divinamente) i primi Beatles e non se ne vergogna: in anni in cui solo i Fab Four post-1964 sembrano degni di interesse, questa resta una piacevole variante revivalista, assolutamente irresistibile. Un po’ come tutte le canzoni che albergano dentro ‘Gentleman Jesse and His Man’, una collezione di tredici estemporanei esercizi di stile pienamente riusciti.

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Tony Manero

L’uccello che caga nel proprio nido è un uccello del malaugurio’.

Raùl Peralta è un piccolo e miserabile uomo condannato alla mediocrità. Fosse solo questa la sua croce, non correrebbe alcuna rilevante differenza tra lui e il pulviscolo umano che attraversa le sue giornate nelle strade sporche e minacciose della Santiago del 1978, in pieno regime di Pinochet. Ma Raùl Peralta è qualcosa in più di un semplice reietto cileno di mezza età, indifferente agli altri e alla vita stessa. E’ un assassino, un pazzo scatenato. La sua condanna è ben più grave di un semplice destino anonimo, perché ne fa la vittima senza speranza di un’ossesione atroce. Consumato dalla patina luccicante di un frammento dell’‘American Dream’, Raùl trascorre le sue giornate squallide nell’illusione di essere il protagonista de ‘La Febbre del Sabato Sera’, la pellicola vista in continuazione nel desolato cinema del suo quartiere. Non John Travolta, ma Tony Manero, il personaggio. Sua ragione di vita diventa la vittoria in un contest televisivo dedicato proprio agli emuli di quel nuovo eroe americano. Una vittoria che vale ben più dell’elettrodomestico messo in palio dall’emittente, è il riconoscimento stesso di un senso e di un valore alla propria esistenza, per quanto distorto da una mente destinata ad andare alla deriva.

 

‘Tony Manero’ sta tutto nella cronaca neorealista di pochi giorni nella vita di questo grottesco individuo, ballerino fallito ma adorato dalla sua cerchia di anime sventurate, pedinato in modo incalzante dall’occhio curioso ed impietoso di Pablo Larraìn. Un punto di vista che non nasconde la brutalità anche se si ferma sempre al momento giusto, per non indugiare nel morboso. Uno sguardo compiaciuto nel mostrare allo spettatore lo spirito di ostinata conservazione che il Peralta sfodera a difesa del suo delirante progetto, senza scrupoli, senza limite alcuno. ‘Tony Manero’ è il racconto di questo disperato aggrapparsi all’illusione e alla propria mania, con una determinazione gelida e feroce che va anche oltre il finale, lasciando intuire la punizione per l’indegno usurpatore del proprio incontestabile trionfo. Alfredo Castro interpreta l’inconcludente devianza di Raùl con una prova di bravura ermetica, senza concedere nemmeno un frammento di spazio alla simpatia o a qualsivoglia possibilità di identificazione da parte di chi guarda. E allo stesso modo è bravo Larraìn a trattenersi dall’esplicita condanna del suo pessimo eroe, lasciato libero di agire e giudicato unicamente dalla fredda cronaca delle sue malefatte, un po’ come la Rosetta dei Dardenne.

 

Larraìn ha chiarito in un’intervista di aver voluto costruire una semplice ma efficace metafora del Cile nei primi anni della dittatura. Missione brillantemente riuscita, viene da dire. L’ambiente e il contesto in cui i patetici personaggi del film si muovono funziona perfettamente in tal senso, un po’ come la Bucarest buia e gelida di ‘4 Mesi, 3 Settimane, 2 Giorni’. E’ squallido, sporco, ostile, polveroso. Stesso discorso vale per il protagonista, anch’esso specchio formidabile di quel particolare clima storico, politico e sociale. Cupo, tenebroso, senza margini di redenzione, Raùl riflette l’amoralità e l’impunità del regime stesso, pare nutrirsi della stessa barbara violenza che la polizia politica esercita indiscriminatamente per le vie di Santiago ed è accecato dal medesimo delirio, dalla ridicola pretesa di mantenere il controllo su tutto. Ogni presunto ostacolo che viene a frapporsi inconsapevolmente  tra lui e la celebrazione del suo (dubbio) talento diventa solo l’ultimo dei fastidi in una lunga lista di minacce da rimuovere. Una trave di legno marcio può costargli una gamba nello snervante allenamento che lo separa dalla gloria e deve essere fracassata con l’intero pavimento; un rivale più giovane e agghindato a dovere può rappresentare uno smacco tremendo e va ridotto all’impotenza con il più laido degli spregi; persino la sostituzione del film idolatrato con uno ritenuto analogo solo perché “ci lavora lo stesso signore” (‘Grease’) vale una vendetta adeguata all’insulto.

 

Così, di tappa in tappa, l’ossessione devastante consuma Raùl e tutti coloro che hanno la sventura di incrociare le proprie esistenze con la sua: le tre donne disperate che si illudono di amarlo, ed in realtà trascinano il loro stanco vivere sotto lo scacco di un’analoga malattia, oltre alle vittime che il caso pone sulla strada diretta che dovrebbe condurre Raùl alla coronazione del sogno (la povera vecchia con la televisione a colori, l’avido robivecchi che vuole fare la cresta sugli orridi cocci di vetro per la pista di Raùl, il giovane e insulso trionfatore del contest). Allo stesso modo è divertente seguire le tristi peregrinazioni del Peralta per i vicoli di Santiago e il suo ingegnarsi per replicare l’aura fantastica del suo idolo: il pallone coi frammenti di specchio incollati sopra o le luci dell’improvvisata sala da ballo sono trovate fantastiche, aggiungono un tocco di colore e humor. Eppure non tradiscono la sensazione di desolazione che il film genera e continuamente richiama ed amplifica. La desolazione di un piccolo uomo incompiuto anche nella sfera sessuale, dove potrebbe avere ben più di quanto meriti effettivamente ma che preferisce chiudersi nel culto sfrenato, malato e onanistico di sé, meritandosi il lapidario ‘Tu sei morto dentro’ rivoltogli da una delle sue sfiorite spasimanti, una condanna a tutti gli effetti.

Un film raggelante, disturbante e crudo dedicato all’alienazione e all’incomunicabilità che spesso nascono dalla più fosca delle miserie umane.

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Indie-Rock colorato

 

Ecco un paio di album freschi freschi ed ascrivibili senza particolari problemi al genere ‘indie-rock’ tout court, quello sbrigativo e rumoroso che in questi casi è pure alquanto colorato (le copertine sono entrambe azzeccate). Il primo gruppo viene da Seattle, si presenta sotto l’improponibile ragione sociale di Mt. St. Helens Vietnam Band ed è un esperimento sonoro quantomeno curioso. Paragonati in patria ai Wolf Parade, giunti a questo omonimo esordio sulla lunga distanza dopo un EP prodotto da Scott Colburn (Animal Collective, Arcade Fire), si presentano con una fisionomia ed un suono tra i più bislacchi del momento. Per dare un’idea, dirò soltanto che il batterista è un ragazzino tredicenne di colore adottato dal cantante e da sua moglie. Se intercettate una loro foto potreste capire perché non è fuori luogo parlare di progetto folle a proposito di questo gruppo. Musicalmente suonano come lo strano punto d’incontro tra i Les Savy Fav più inviperiti e le cosiddette band Nu Rave alla Klaxons, per quanto nel guazzabuglio sonoro da loro proposto in questo disco entri molto altro con effetti a tratti godibili e a tratti frastornanti. Chitarre alquanto velenose, cambi di tempo continui, piacevoli digressioni su piani più soft e zuccherini, scorribande corali. ‘Who’s Asking’ è un’ottima premessa, anche se non tutto il resto del corredo funziona proprio a dovere. Non siamo certo al cospetto di un nuovo gruppo clamoroso, i difetti non mancano e sono palesi, si intuiscono alcune pesanti ingenuità e più di una canzone risulta ben presto noiosetta. Eppure non si può negare ai Mt. St. Helens Vietnam Band di provarci e meritare almeno un ascolto. Veloci e vivacissimi, non sono mostri di originalità ma mescolano molto umori ed influenze, compresi certi echi hard rock (‘Masquerade’), che ne decretano sostanzialmente il carattere peculiare. Leggeri ma abbastanza teatrali e pestoni, sono di fatto una kitsch band fracassona che a volte rallenta (‘On the Collar’, ‘Cheer for Fate’, ‘A Year or Two’) ma ha anche in serbo qualche bizzarro numero a sorpresa (‘Anchors Dropped’) e si offre in un autentico tripudio senza soste. Non male la sfuriata adrenalinica di ‘Albatross, Albatross, Albatross’, credibile e sanguinante il giusto.

Più rodati e intriganti sono invece i gallesi El Goodo, affini per attitudine e gusto onnivoro ai connazionali Super Furry Animals, loro più accaniti sostenitori e sponsor. ‘Coyote’, loro secondo album dopo la prova omonima di quattro anni fa, parte con le chitarre taglienti e il buon rumore elettrico di sottofondo di ‘Feels So Fine’, un’escursione tutto sommato fuorviante considerando il seguito. Già col brano successivo, l’irresistibile ‘Aren’t You Grand’, si delineano in modo chiaro quelli che sono i tratti distintivi di questa promettente band. Una bella sicurezza nel fare propri alcuni dei più strepitosi stilemi del rock’n’roll dei sixties, con predilezione per i gruppi che meglio si confrontarono con la rivoluzione della psichedelia in ambito musicale, dai Byrds (ben più che un semplice riferimento) ai Love. Le divertenti ballate degli El Goodo, talvolta sferraglianti e sbalestrate, più spesso contaminate dal blues o infettate dalla vitalità western (armonica e trombe sanno di Messico), sono spigliate e sufficientemente muscolari. Inanellate una dopo l’altra, confezionano un disco assolutamente godibile, che ha uno dei suoi pregi maggiori nell’ottima qualità delle parti vocali: se ‘Information Overload’ e soprattutto ‘Oh, To Sleep’ evocano decisamente la voce di Colin Blunstone degli indimenticabili Zombies, la funerea ‘I Only Dream’ e ‘Talking to the Birds’ riportano inequivocabilmente alle armonie dei più celebri fratelli Wilson della storia. Avvolgenti, gradevoli, forti di una sensibilità melodica non proprio comune, gli El Goodo confermano di essere un gruppo innamorato (e rispettoso) della miglior tradizione ma anche al passo coi tempi: oltre ai pesanti debiti verso i già citati Animali Superpelosi, certe parentesi freak (‘I Can’t Make It’) li avvicinano anche ai primi Gorky’s Zygotic Mynci, quelli più goliardici, mentre in ‘Be My Girl’ si guarda più che altro al pop-rock britannico anni ’90 à la Supergrass. Consigliati.

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In viaggio con Alela

 

Esce oggi per Rough Trade, finalmente, il secondo disco di questa ragazzona di Portland che registra le sue canzoni col babbo, nel Nevada. Mi ci sono imbattutto qualche tempo fa, nella copertina che vedete qui sopra. Siccome sono ancora uno di quei tipi strani che si fanno guidare dalle copertine (e non di rado vengono ripagati), ho deciso di approfondire. Non che sentissi una particolare necessità di folk dopo la ricca scorpacciata dei mesi scorsi, soprattutto di folk così tradizionalmente impostato e poco contaminato quale è a tutti gli effetti il genere di Alela Diane. L’ho fatto un po’ per dar fiducia a quel mio sesto senso di cui sopra, un po’ per tenermi in allenamento e compensare certi ascolti più decisamente robusti e turbolenti che stanno aumentando nel contatore del mio ipod. Contentissimo di averlo fatto, questa è musica che mi rende tranquillo a fine giornata, merce di cui non ho mai a basta. Ho recuperato anche il primo album, ascoltato per ora un po’ sommariamente ma già gustato per quel poco che mi ha fatto compagnia: ‘The Pirate’s Gospel’ è un disco di estrema nudità a livello vocale, lo strumento perfetto per far risaltare e conoscere quanto di buono ha questa ragazza da proporre, ovvero la sua splendida voce.

Leggiadra, ariosa, luminosa, scortata da un impianto sonoro che privilegia la dimensione acustica e gli archi, riducendo invece all’essenziale la parte ritmica. Una voce che pare semplicemente un lampo etereo ed è invece molto concreta, controllata e sicurissima del fatto suo. Emoziona, trasporta l’ascoltatore come per magia (‘Dry Grass & Shadows’, ‘Tatted Lace’, ‘Every Path’) ma resta ben piantata nel terreno, evocando intensamente quell’idea di "radici" che brani apparentemente più convenzionali (ma superbi) come ‘White As Diamonds’ suggeriscono a più riprese. Anche quando non ci si sposta dai registri di un folk dai toni gradevolmente raccolti, pacati, poco appariscenti, la voce di Alela riesce a spiccare per forza, autorevolezza e dolcezza. La title track e la conclusiva ‘Lady Divine’ lo mostrano in maniera sufficientemente chiara.

Ammirevole, dopo quell’esordio forse un poco schivo ma concentrato a dovere sul proprio punto di forza assoluto, una prosecuzione intesa a non tradire la sobrietà di fondo del progetto, ampliando leggermente lo spettro sonoro ma senza cedere alle facili tentazioni poppettare, restando in fondo fedeli ad una precisa idea di musica che privilegia il nitore ed evita l’effetto. In tal senso ‘To Be Still’ è un lavoro non meno omogeneo del suo predecessore ed ugualmente puro, ben a fuoco. Punta di diamante resta l’intensissimo duetto di ‘Age Old Blue’ (con Michael Hurley), forse la canzone in cui Alela si spinge in assoluto più in alto: tocca corde importanti, è di una delicatezza notevole, incanta più che mai. Una voce che esce dai ristretti canoni del genere e va in profondità senza risultare pesante, pedante, querula. Anche ‘The Ocean’ è un pezzo splendidamente ispirato, con quel ricamo di mandolini che sono il perfetto accompagnamento per la voce incantevole e potente della ragazza (ma i violini di ‘Take Us Back’ contrappuntano le sue esplorazioni vocali in maniera non meno convincente). In ‘The Alder Trees’ la maggior vivacità toglie per un attimo alla Diane una delle sue maschere artistiche e dietro sembra di poter scorgere una Natalie Merchant ancora più calda e meno affettata. E già che la Merchant mi faceva impazzire come poche altre.

Infine il senso dell’album, miracolosamente riassunto da ‘My Brambles’: io ci leggo una metafora del viaggio, e sì che la parola ‘trasporto’ l’ho già citata, non a caso. Il violoncello mi suggerisce l’immagine di una barca che va per mare e culla la cantante. E’ la colonna sonora vagamente ipnotica, la ninnananna che segna nel profondo un viaggio che man mano si accende.

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proVISIONS

Ci sono dischi che ascoltati molto distrattamente possono sembrare inutili e noiosi. Forse qualunque disco, ascoltato una prima volta con molto poco interesse, potrebbe suonare come uno sbiadito e insignificante sottofondo. Il mio primo incontro coi Giant Sand ebbe esattamente premesse di questo tipo. Era ‘Hisser’, uno dei primi lavori solisti di Howe Gelb, nel 1998 mi pare. Recensioni, copertina, elogi: mi avevano stuzzicato e comprai l’album. L’avrò ascoltato sì e no tre volte, poi rinunciai. All’epoca non era quello il genere che faceva per me. Stavo uscendo pian piano dal vortice grunge che mi aveva assorbito in tutto il lustro precedente, cominciavo ad interessarmi a dischi e autori indipendenti ma con Gelb bruciai le tappe: non ero pronto evidentemente. Il passaggio successivo fu ‘Chore of Enchantment’. Partii in maniera assolutamente intimorita, un po’ frenato. Lo apprezzai ma meno di quanto lo apprezzo oggi. Provai a dare alla band di Tucson un’ulteriore chance quando uscì ‘Cover Magazine’, trovato in una biblioteca bellissima all’ex zoo qui a Torino, in riva al Po. Di tutti gli album che presi e duplicai quella volta, ‘Cover Magazine’ fu l’unico che bocciai subito. In fondo non era certo l’opera più indicata per farmi cambiare idea sul loro conto, un disco di cover in atmosfera alcolica e di scurissimo e sferragliante country-blues. Un aspetto parzialissimo della loro estetica, peraltro assai vicino a quello incontrato nel recente live allo Spazio. Li cancellai con risolutezza dalle cose a me gradite e con effetto immediato.

Curioso, perché riascoltato oggi ‘Cover Magazine’ mi piace tantissimo, con quelle rivisitazioni geniali di Neil Young, Nick Cave e Johnny Cash, l’arido medley in omaggio a Goldfrapp, una cover pazzesca di ‘Johnny Hit and Run Pauline’ degli X eseguita spalla a spalla con P.J.Harvey, o la formidabile ‘Blue Marble Girl’ suonata insieme ai Grandaddy. Un’opera di riscrittura e stravolgimento in chiave Giant Sand, più che altro, praticamente un genere a parte che meriterebbe un opportuno approfondimento. L’uscita di Convertino e Burns passò senza sfiorarmi. Stessa sorte per ‘Is All Over the Map’, il primo album di Gelb insieme alla nuova formazione tutta made in Denmark. Sarebbe passato presto al dimenticatoio anche ‘proVISIONS’, non fosse stato per il tour previsto in cartellone. La solità benedetta curiosità… Non ho convinto nessuno ma questo è uno dei migliori dischi usciti l’anno scorso, senzo dubbio. Duetti magici, strepitose velature di malinconia, sprazzi umorali, atmosfere noir, elettricità nervosa, polvere. Tutto materiale che i Giant Sand avevano in magazzino da sempre, ma amplificato in quantità e qualità. I brani migliori sono…beh, praticamente tutti, non ci sono punti deboli e anche i riempitivi hanno una funzione precisa nell’economia del disco. Ascoltatelo e siate pazienti perché vi ripagherà. Come sempre, un clic sulla cover per la relativa recensione.

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L’ex crisalide di Omaha

 

  

L’uscita del primo vero disco solista dell’ex enfant prodige dell’indie statunitense Conor Oberst è stato un evento molto più significativo di quanto si potrebbe immaginare. Non ha tutti i torti chi ha sempre considerato gli album dei Bright Eyes altre opere di Oberst da solista, come non ha tutti i torti chi ritiene questo ‘Conor Oberst’ un nuovo disco dei Bright Eyes. C’è del vero e c’è del falso in entrambe le affermazioni. Innanzitutto è innegabile il ruolo da sovrano assoluto che il ragazzo ha sempre ricoperto nella band, in pratica un’incarnazione tutta sua e sua solamente. E’ anche vero, però, che nel nuovo album permane una netta fisionomia di gruppo a supportarlo e, se vogliamo, il disco è licenziato a nome di Conor con la fantomatica Mystic Valley Band. Sfumature, insomma. La verità è che Oberst ha sempre amato circondarsi di fedeli e capaci collaboratori, spesso e volentieri autentici multistrumentisti come l’indispensabile Mike Mogis, alias mr. ‘Lullaby For The Working Class’, uno che ha insegnato molto del mestiere al titolare della ditta. Nella recente esperienza si scorgono nomi importanti di questo vasto circolo di sodali, primo fra tutti l’amico gay Andy LeMaster, alias mr. ‘Now It’s Overhead’, un altro musicista preziosissimo anche in fase di produzione, oltre all’immancabile Nate Walcott, pianista e trombettista sempre a disposizione

 

Al di là di questi piccoli dettagli (che in fondo tanto piccoli non sono), appare evidente come questo disco sia rimarchevole per più di un motivo. In primis perché si tratta di un ottimo lavoro, ben scritto, ben suonato, molto convincente a livello emozionale, con difetti tutto sommato trascurabili. E poi – e questo è ciò che veramente conta – perché rappresenta per il suo autore un balzo in avanti sostanziale, sia in termini di creatività spicciola che di atteggiamento. ‘Lenders in the Temple’ conferma in pieno tutti i canoni del songwriting scarno di Oberst ma li condensa in una convinzione diversa da quella che lo ha animato (e un po’ squalificato) in passato. Come e più che nel gioiello assoluto ‘I’m Wide Awake, It’s Morning’ e nel buon seguito di ‘Cassadaga’ Conor dimostra finalmente una maturità e una sincerità nelle quali solo qualche anno fa non avremmo nemmeno osato sperare. Nascosto dietro la trama soffusa della canzone, con relativa fascinosa chitarra, l’ex eterna promessa di Omaha si presenta in tutta semplicità come quel che è oggi, un cantastorie assolutamente spontaneo e genuino. La sua scrittura è ispirata, sofferta ma non fredda, riflessiva senza risultare noiosa, emozionante anche se non cerca più l’appiglio della comoda teatralità.

Le altre canzoni rafforzano l’impressione di un autore che dopo molti tentativi è riuscito ad essere se stesso senza sovrastrutture e senza atteggiamenti fastidiosi. Un talento fuori dal comune questo quasi trentenne lo ha sempre avuto, non avrebbe scritto pezzi come ‘A Scale, a mirror…’, ‘The Movement of a Hand’, ‘False Advertising’ o ‘You? Will…’ altrimenti. L’intero ‘Lifted’ era in fondo un grande monumento del suo genio e al suo genio, tanto generoso quanto irrisolto e nei fatti un po’ troppo adagiato su di sè e sulla sua bellezza per convincere a pieno. Bene: la notizia allora è che Conor Oberst ha smesso veramente di specchiarsi in queste sue grandi doti e di infarcire i propri dischi di estetizzazioni e pose fasulle. Il piano blues e il ritmo serrato di ‘I Don’t Want To Die (In The Hospital)’ diventano qualcosa più di un’ipotesi sonora, servono a realizzare un brano quanto mai importante perché liberatorio, trascinante e divertente senza residui di spocchia e senza intellettualismi: alleggerisce, disimpegna e fa colore senza chiedere grandi sforzi al suo autore.

 

La maniera è un ricordo ormai. Con la sobria cavalcata di ‘Danny Callahan’ Oberst osa qualcosa in più, regala un discreto assolo evitando di eccedere come un protagonista assoluto e dribblando le sbrodolature. Si lascia apprezzare, aggiunge varietà, lascia andare a braccetto l’elettrica ed il piano facendosi aiutare dal coro. La sensazione è quella di un leader che ha abbandonato la torre d’avorio per scendere a divertirsi e divertire, con un rock non travolgente ma sincero e un po’ fracassone (‘Souled Out!!!’, ‘NYC – Gone, Gone’), con fugaci divertissement che sembrano filastrocche innervate di sanguigne vibrazioni (‘Moab’), oppure sfoderando un country-folk che non dispiacerebbe a Will Oldham (‘Sausalito’), con bella carica e respiro classico. E i cari vecchi Bright Eyes? Ci sono pure loro. In ‘Get-Well-Cards’ la chitarra disegna una trama così intrigante da essere perfetta per il cantante e la sua voce, autorevole e sicura del fatto suo come non mai. Secco, senza fronzoli come da copione, Conor va dritto al cuore e gioca la carta di un’emotività scoperta, spigliata, diretta. ‘Eagle on a Pole’ prosegue la tradizione delle più tipiche fra le canzoni oberstiane, con la voce tremula ed uno splendido, arioso sviluppo: un folk-rock intensamente comunicativo ed emozionante, architettato per accendersi ad intermittenza con pochi lampi (come il bell’assolo) e sonorità evocative. Anche il consueto incipit sussurrato ed essenziale (‘Cape Canaveral’) funziona a dovere e scalda il cuore come un antipasto cui si è particolarmente affezionati, prima di un sontuoso pranzo in famiglia.

 

E poi il finale di ‘Milk Thistle’, anch’esso ad altissimo coefficiente di tipicità. La più soft delle chiusure, la più riconoscibile tra quelle che Conor aveva a disposizione. In punta di chitarra, delicata, in tonalità più notturne ma non meno brillante degli altri episodi. Praticamente una partita sul campo dell’infanzia, dove ogni zolla di terreno è ferma al posto in cui la ricordavate. Questo è davvero il classico pezzo dei Bright Eyes, quello che a Conor riesce ogni volta miracolosamente bene. Sembra facile, ma provateci voi a imbambolare a tal punto chi vi ascolta. Ci vogliono tutta la bravura e la credibilità che sono solo dei grandi cantautori. Provateci voi a volare così. Dovreste essere una farfalla, per farcela.

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Plaskaplaskabombelibom

 

Sono tornati i bresciani con un disco vero e proprio. Mi piace, ha dentro alcune cose squisite ma poteva essere migliore. L’impressione è quella di un lavoro realizzato un po’ troppo sull’onda dell’entusiasmo per il successo sin qui ottenuto, soprattutto in ambito live, e senza quella magia di tocco che avevano alcune fra le primissime uscite. Meno ingenuità rispetto ai primi passi, ma anche meno effetto sorpresa, forse, più idee ma confuse, più stimoli e slanci ma gestiti in maniera precipitosa. Paradossalmente la produzione e gli arrangiamenti sono molto curati, certi ritornelli (‘A Summer Song’, ‘The Biggest Way’) sfiorano la perfezione e i momenti di dolcezza e malìa non mancano. Una canzone come ‘I Can’t Get Anything’ è superba, delicata, inquieta, direttamente tra le vette della produzione. Eppure non tutto funziona bene come potrebbe e resto dell’idea che i Le Man Avec Les Lunettes abbiano nelle loro corde tanto di quel talento da poter sparar fuori all’improvviso un vero e proprio asso nascosto. Non è questo il caso ma resto fiducioso. Ho scritto che più che ai Beatles sembrano rifarsi ad altre indie band italiche, tipo Yuppie Flu e A Toys Orchestra. Ecco: li annovero (a ragione, direi) tra i più validi esponenti di questa scena nel nostro paese, me li tengo stretti e vado a vederli quando suonano nella mia città perché sono molto bravi e coivolgenti. Mi coccolo anche l’impressione che il meglio debba ancora venire, è sempre l’ipotesi più stimolante quando si valuta un artista emergente. Poi ripenso ai nomi scritti qualche riga più su e non posso non pensare che dischi come ‘Days Before The Day’ e ‘Technicolor Dreams’ restano dei fantastici miracoli. I miracoli avvengono, spesso più di una volta.

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L’Obama del folk

 

Per la serie “torniamo a raschiare il fondo del barile, fuori tempo massimo”, mi sembra giusto segnalare il disco d’esordio per l’interessante folksinger Miles Benjamin Anthony Robinson, nome chilometrico per un personaggio su cui ci si potrebbe tranquillamente dilungare in note biografiche neanche troppo vagamente da romanzo. Sintetizzando per non annoiare, dico solo che si tratta del figlio di un afroamericano e di una bianca come il nuovo presidente degli Stati Uniti, evidentemente una categoria etnica in forte ascesa in tutti gli ambiti. Coincidenza o no, Miles è riuscito ad emergere dopo un passato breve ma burrascoso, segnato da discriminazioni nel natio Oregon (non l’avrei detto), vita grama a New York, droga, sbronze e vagabondaggio. Pareva destinato nel migliore dei casi all’anonimato, se non peggio. Invece l’ultimo treno rappresentato da un amore inatteso e quanto mai salvifico ha rappresentato l’ancora di salvezza e il primo gradino di una formidabile risalita, esaltata da un paio di amicizie preziose (Chris Taylor dei Grizzly Bear e Kyp Malone dei TV on the Radio, che hanno prodotto questa sua prima fatica discografica e l’imminente seconda uscita) e da incredibili doti di istinto e tempismo, quelle che hanno fatto sì che il cantante si trovasse al posto giusto nel momento giusto.

L’album, eponimo, è uscito appena qualche mese fa per la piccola Say Hey. Non è un’opera sconvolgente ma può fregiarsi di una certa originalità, considerato che il genere cui va ricondotta non offre grossi margini all’esplorazione musicale o alle sperimentazioni: una lingua nota e stranota per quanto sempre molto attuale, come i recenti successi di Fleet Foxes ed altri sembrano confermare in maniera inequivocabile. Qui il campo dei possibili riferimenti è assai distante dalla bella forma o dalle suggestioni di grazia e delicatezza che i nuovi alfieri del genere negli States propongono con autorevolezza. Miles viene dal basso, vola radente e canta di disperazione, miserie e riscatto, senza soffermarsi in sterili fraseggi calligrafici per incantare i suoi ascoltatori. Le sue sono canzoni scarne, crepuscolari, arruffate e a tratti soffocanti, evocano l’arsura e l’aridità di un contesto urbano impietoso e spersonalizzante. Loro tratto peculiare è l’assoluta spontaneità di chi le ha scritte, oltre ad una certa introversione di fondo che affiora di continuo, determinante ma non minacciosa.

Canzoni che profumano di Dylan, come la schiva ‘Buriedfed’ testimonia in apertura. Ritrosia, mancanza di fiducia, paura forse, in un brano che parte contratto ma vien fuori con un crescendo degno del Conor Oberst più indiavolato, innervato da molti umori sotterranei via via liberati. ‘The Debtor’ parla chiaro: quello di Robinson è un folk anomalo, nervoso, secco e affilato, stilizzato sul piano ritmico (funzionale il pianoforte in questo) e sufficientemente scuro. Un suono comunque avvolgente assicurato dalla coralità vivace che si impone sul resto, un cantato che fa venire in mente Grant Lee Phillips anche se la voce non è proprio la stessa. ‘Written Over’ è un perfetto ritratto dell’artista da miracolato, in tutta la sua sincera e sguaiata libertà espressiva: una poesia sghemba che ripudia ogni possibile declinazione aulica o manierata del genere per recuperarne (e trattenerne) solo lo spirito più autentico.

Ingenuo ma fortemente personale questo Miles: stile incerto, che pecca non di rado con uscite troppo sbilenche o troppo fracassone, eppure non prive di un loro indubbio fascino (‘Who’s Laughing?’), o con sporcature bizzarre che rendono tutto più vivo e ruspante, accentuandone la profondità (‘Woodfriend’). La forma resta l’elemento di pregio dell’album e dello stile del cantautore, riuscendo a sorprendere di tanto in tanto per il carattere poco ortodosso delle soluzioni scelte: se ‘Mountaineer’d’ brilla per angoscia e sincerità, alternando i minimalismi e le rarefazioni iniziali alle esplosioni sonore sbalestrate che ne fanno seguito, convince in particolar modo il folk contaminato dal noise nella bislacca  ‘The Ongoing Debate’, un bel bagno tra riverberi e piccoli schizzi elettrici, carico e squilibrato il giusto. Questa è la forza di Miles Benjamin Anthony Robinson. La sua bruciante e genuina natura, cui tutto si perdona e che tutto impregna. Anche il romanticismo voce&piano di ‘Above The Sun’, infettato da inquietudini teatralizzate ora dalla voce sepolta, ora da un violoncello sepolcrale, e nonostante questo umanissime. Ragazzo interessante, molto promettente. Speriamo non si annacqui.

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Giant Sand @ Spazio211

29-1-2009

 

E’ alla fine anche il fantasmagorico Howe Gelb entra nella mia personalissima collezione di figurine e nell’album in crescita dei concerti visti, assaporati e trascolorati nel ricordo. Avrà la sua bella pagina evidenziata da un piccolo segnalibro grigio, come la sfumatura che la sua musica meglio evoca, come la via di mezzo tra bianco e nero, luce elettrica e tenebra. Di elettricità se n’è sentita poca, ed è l’unico rammarico che potrei individuare in merito a questa serata di magnetismo blues, di istrionismi e spettacolo viscerale, come è sempre nelle corde di mr. Giant Sand. Lui è un fenomeno, uno che sprizza vitalità musicale anche solo in uno sguardo bonario scagliato sul pubblico, uno che pare nato per intrattenere, una specie di Johnny Cash luciferino. Un entusiasta, nonostante tutto, uno che ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato in questi quasi trent’anni di carriera. Certo che con al proprio fianco musicisti di razza come questi tre danesi le cose devono essere ancora più semplici e naturali di quel che sembrano. Bellissima intesa nel gruppo, soprattutto nelle estemporanee passeggiate in chiave jazz, con Lund e Dombernowsky magistrali (credo sia quella la loro vera strada). Ma dopo il maestro di cerimonie Il più bravo è stato Anders Pedersen, il rosso, uno che deve aver mangiato pane e chitarre slide a colazione per anni. Il padre del figlio di Lonna Kenney, secondo me, almeno a giudicare da certi cenni affettuosissimi che i due si sono scambiati. Che dire: auguri a loro e tanta fortuna ad Howe, uno dei grandi di questi anni.

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