In viaggio con Alela

 

Esce oggi per Rough Trade, finalmente, il secondo disco di questa ragazzona di Portland che registra le sue canzoni col babbo, nel Nevada. Mi ci sono imbattutto qualche tempo fa, nella copertina che vedete qui sopra. Siccome sono ancora uno di quei tipi strani che si fanno guidare dalle copertine (e non di rado vengono ripagati), ho deciso di approfondire. Non che sentissi una particolare necessità di folk dopo la ricca scorpacciata dei mesi scorsi, soprattutto di folk così tradizionalmente impostato e poco contaminato quale è a tutti gli effetti il genere di Alela Diane. L’ho fatto un po’ per dar fiducia a quel mio sesto senso di cui sopra, un po’ per tenermi in allenamento e compensare certi ascolti più decisamente robusti e turbolenti che stanno aumentando nel contatore del mio ipod. Contentissimo di averlo fatto, questa è musica che mi rende tranquillo a fine giornata, merce di cui non ho mai a basta. Ho recuperato anche il primo album, ascoltato per ora un po’ sommariamente ma già gustato per quel poco che mi ha fatto compagnia: ‘The Pirate’s Gospel’ è un disco di estrema nudità a livello vocale, lo strumento perfetto per far risaltare e conoscere quanto di buono ha questa ragazza da proporre, ovvero la sua splendida voce.

Leggiadra, ariosa, luminosa, scortata da un impianto sonoro che privilegia la dimensione acustica e gli archi, riducendo invece all’essenziale la parte ritmica. Una voce che pare semplicemente un lampo etereo ed è invece molto concreta, controllata e sicurissima del fatto suo. Emoziona, trasporta l’ascoltatore come per magia (‘Dry Grass & Shadows’, ‘Tatted Lace’, ‘Every Path’) ma resta ben piantata nel terreno, evocando intensamente quell’idea di "radici" che brani apparentemente più convenzionali (ma superbi) come ‘White As Diamonds’ suggeriscono a più riprese. Anche quando non ci si sposta dai registri di un folk dai toni gradevolmente raccolti, pacati, poco appariscenti, la voce di Alela riesce a spiccare per forza, autorevolezza e dolcezza. La title track e la conclusiva ‘Lady Divine’ lo mostrano in maniera sufficientemente chiara.

Ammirevole, dopo quell’esordio forse un poco schivo ma concentrato a dovere sul proprio punto di forza assoluto, una prosecuzione intesa a non tradire la sobrietà di fondo del progetto, ampliando leggermente lo spettro sonoro ma senza cedere alle facili tentazioni poppettare, restando in fondo fedeli ad una precisa idea di musica che privilegia il nitore ed evita l’effetto. In tal senso ‘To Be Still’ è un lavoro non meno omogeneo del suo predecessore ed ugualmente puro, ben a fuoco. Punta di diamante resta l’intensissimo duetto di ‘Age Old Blue’ (con Michael Hurley), forse la canzone in cui Alela si spinge in assoluto più in alto: tocca corde importanti, è di una delicatezza notevole, incanta più che mai. Una voce che esce dai ristretti canoni del genere e va in profondità senza risultare pesante, pedante, querula. Anche ‘The Ocean’ è un pezzo splendidamente ispirato, con quel ricamo di mandolini che sono il perfetto accompagnamento per la voce incantevole e potente della ragazza (ma i violini di ‘Take Us Back’ contrappuntano le sue esplorazioni vocali in maniera non meno convincente). In ‘The Alder Trees’ la maggior vivacità toglie per un attimo alla Diane una delle sue maschere artistiche e dietro sembra di poter scorgere una Natalie Merchant ancora più calda e meno affettata. E già che la Merchant mi faceva impazzire come poche altre.

Infine il senso dell’album, miracolosamente riassunto da ‘My Brambles’: io ci leggo una metafora del viaggio, e sì che la parola ‘trasporto’ l’ho già citata, non a caso. Il violoncello mi suggerisce l’immagine di una barca che va per mare e culla la cantante. E’ la colonna sonora vagamente ipnotica, la ninnananna che segna nel profondo un viaggio che man mano si accende.

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