La dieta della band ruminante

 

Curiose novità in arrivo dal piccolo pianeta Eric Johnson. Non che negli ultimi tempi ci aspettassimo qualcosa da quella ridente isoletta musicale e forse una considerevole fetta della sorpresa nasce proprio da questo. Dopo la deviazione non proprio felicissima compiuta un anno e mezzo fa sul vascello Shins, ora il Nostro ne attua una non troppo dissimile sotto le spoglie meno note dei Fruit Bats, progetto collaterale (ma condotto nei panni del leader) che lo ha già visto licenziare tre album prima del nuovissimo ‘The Ruminant Band’. Nei brani che aprono e chiudono il disco, ‘Primitive Band’ e ‘Flamingo’, sono suggerite per sommi capi le linee generali di questa significativa revisione, non relativa al piano stilistico quanto piuttosto a quello relazionale. Uno scartamento in un certo senso, uno spostamento per vie orizzontali verso una prospettiva meno definitiva e più incerta, nebulosa. Le due canzoni in questione hanno più il sapore dell’impressione che non della concreta istantanea. La propensione per le tonalità estive è confermata ma quelli abbozzati in questo caso sono sogni più tiepidi, sfumati. La ballad dal retrogusto beatlesiano ‘The Hobo Girl’ chiarisce quanto sia ambita per Johnson questa direzione, nella scelta di mantenere una pregevole distanza a livello emotivo e formale. Sembra una canzone congelata nel passato, con l’intento di ingannare i vecchi Fruit Bats ora che si brama la lontananza. Stessi scenari per ‘Feather Bed’, con un pianoforte cadenzato eletto a protagonista assoluto ed Eric che gioca ancora a fare il piccolo Lennon, quello di ‘Double Fantasy’ (ma senza la sua Yoko). Il bello è che, senza voler strafare, nemmeno sfigura e riesce comunque a trasmettere tutto l’amore nella citazione. In brani come ‘Beautiful Morning Light’ si fanno più nette certe sensazioni: scarna, sospesa, efficace nel lasciare sprazzi di incanto grazie ad un arpeggio spartano come non mai, la canzone è una preziosissima testimonianza in acustico di questa curiosa ed ammirevole esigenza di concretezza, votata al taglio di ogni eccesso espressivo. Una prospettiva che a molti cantautorini di oggi farebbe parecchio comodo: sì M. Ward, è a te che sto pensando, proprio a te!

  

E’ una sorta di imperativo non scritto. ‘Tegucigalpa’ insiste con questa tendenza all’omeopatia, al rifiuto dell’inessenziale. Stavolta, tuttavia, negli scheletri architettonici di ossicini di pollo si ritrovano scampoli della polpa del precedente ‘Spelled In Bones’, forse il gioiello più splendente nel repertorio della band di Seattle. Ora però il cambiamento si percepisce, eccome. Nella Title Track le delicatezze della band sono ridotte ad un’essenzialità che sa di cartolina o di caricatura: apprezzabile l’intento dietetico, gradevole e ben svolta come bozzetto, forse un po’ riduttiva e con Johnson eccessivamente impegnato a giocare a nascondino. ‘Being On Our Own’ e ‘My Unusual Friend’ sono frizzantine. Pur sapendo molto del Johnson classico già ne incarnano la sconfessione, per lo stesso motivo appena esposto. Sono pacate, per nulla viscerali ma, grazie a Dio, non si riducono a sembrare meri esercizi di stile. Stesso discorso per ‘The Blessed Breeze’ dove il coefficiente di tipicità è più alto ma ancora una volta non si pigia sull’acceleratore. Se tanti indizi fanno una prova certa, non ci sono più dubbi che si tratti di una scelta espressamente voluta e ragionata. In fondo la tavolozza dei colori (qui quelli più nostalgici) è rimasta la stessa, per cui non si segnalano evidenti controindicazioni in fase di ascolto. Lunga vita allora a questo Eric Johnson spogliato e spigliato, apparentemente sgravato da chissà poi quali responsabilità. Con ‘Singing Joy To The World’ ci lascia il suo respiro e fa centro, lasciando intuire una versione dimagrita ma non disinnescata della genuina freschezza a marchio Shins. Un lavoro onesto in definitiva, sicuramente interlocutorio visti i diretti predecessori, ma tutt’altro che sgradevole. Per la caparbietà con cui declina il verbo del ‘Soft Focus’, l’effetto flou adottato come nuovo abito mentale oltre che estetico, merita senza dubbio qualcosa più di un rapido plauso. E poi è un disco estivo, placidamente estivo.

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Yes, it feels scary to be ordinary…

 

Dannato ex ragazzo prodigio del folk nordamericano. Uno non fa in tempo a complimentarsi per il convincente primo passaggio "solista" dopo la lunga avventura al timone dei Bright Eyes, che lui se ne viene subito fuori con un seguito a strettissimo giro di posta, del quale davvero non si sentiva il bisogno. Certo un annetto fa l’omonimo ‘Conor Oberst’ era stata una sorpresa notevole, per la qualità apprezzabile delle canzoni e per la significativa opera di ricostruzione di sè come artista, attuata dal non più giovanissimo talento di Omaha. Rimanere su quei livelli sarebbe stata una buona promessa. Come spesso capita in questo mondo, affidarsi alla fretta dopo aver stupito positivamente, come a voler ribadire l’urgenza palpitante di uno stato di grazia, porta però ad esiti ben diversi da quelli sperati. ‘Outer South’ non può che essere letto in questi termini, i soli che giustifichino un buco nell’acqua causato non dal solito ego smisurato del cantante, bensì da spinte opposte e contrarie. Con l’album precedente Conor aveva stupito proprio per la scelta di un profilo basso, rinunciando alle ultime scorie da primadonna che ne avevano caratterizzato ogni lavoro a marchio Bright Eyes, in dosi – va detto – decisamente decrescenti col passar degli anni. Mi era parsa una prova indiscutibile della sua effettiva maturazione come artista, meno sensazionale e più coi piedi per terra. Piedi buoni comunque, quelli del classico fuoriclasse non più troppo in erba. Il nuovo ‘Outer South’, arrivato nei negozi appena nove mesi dopo il suo predecessore, non tradisce quest’impostazione ma pecca sensibilmente proprio a causa di una sua forzatura. Oberst ne esce annacquato, confuso, ridimensionato. Le canzoni non condividono le sessioni di registrazione con ‘Sausalito’ o ‘Cape Canaveral’, ma è comunque plausibile che si tratti di potenziali B-sides o Outtakes di quel particolare momento creativo. Il livello di queste composizioni lo dice senza troppi appelli. A Conor non pare aver giovato la scelta di abbassarsi a semplice membro in una band composta da autori con pari dignità, visto che i compagni di questo viaggio non hanno nemmeno lontanamente il suo spessore di songwriter (nè tantomeno quello del suo fidato compagni d’armi, Mike Mogis): una compagnia di ottimi musicanti ma modesti cantanti, premiati a sorpresa con il microfono dell’ex leader dispotico in ben sette brani su sedici.

Questo è il primo (doppio) difetto evidente: perdita di coesione a fronte di un vistoso calo di appeal. Pessimo il Macey Taylor cui Oberst ha affidato ‘Worldwide’ facendone un pezzo da sbadigli: una triglia lessa a corto di tutto, all’opera ancor prima di colazione. Molto male Taylor Hollingsworth, sia nel guastare con la sua brutta voce una canzone discreta come ‘Snake Hill’, sia nel pilotare la band nella prima vera caduta del disco (il pop-rock banalotto e per nulla coinvolgente di ‘Air Mattress’). Mediocre Jason Boesel nella rilettura à la Lou Barlow miagolante di ‘Eagle On A Pole’ (brano del 2008, nota bene), in una versione accademica e priva di mordente, ma anche nella ‘Difference Is Time’ che porta in tutto la sua firma: alt-country non brutto per quanto senz’anima (cui non basta qualche ricamo elettracustico), convenzionale e calligrafico ma onesto, senza eccessi come tutto il resto della raccolta. Anche la ‘Bloodline’ di Nik Freitas offre gli stessi pregi e difetti, inseguendo ammirevolmente Gary Louris su un terreno in cui davvero non può spuntarla. Onorato del microfono, Freitas ammette che sì, fa paura essere ordinari. Forse va ad interpretare l’incubo ricorrente di chi ha scelto di ospitarlo in questo disco, un Oberst che, scoprendosi democratico e svagato come capobrigata, ha offerto la più concreta delle dimostrazioni di quella stessa paura. O forse lo dice per testimoniare che i passi falsi capitano a tutti, come quelli giusti. La sua ‘Big Black Nothing’, ad esempio, vince abbastanza agevolmente la palma di miglior titolo del lotto per trasporto ed intensità. Bella, asciutta, sobria, ma ornata da suggestioni e da un respiro profondo che ci farebbe volentieri scrivere di una conferma per quell’impressione di maturità che avevamo avuto a proposito del folksinger del Nebraska, se solo ne fosse l’autore. Già, come se la cava in fin dei conti il nostro eroe quando ha in mano lo scettro? Sotta la sua media, direbbe il commentatore sportivo. A volte è decisamente fuori giri. Smielato nella resa in ‘Cabbage Town’, troppo meccanico nella scrittura. Lo si ascolta ma non lo si ama. ‘Spoiled’ e ‘Nikorette’ si spalleggiano coi loro ritmi sbarazzini, per alzare il livello di effervescenza dell’album: ma Conor appare a corto d’ispirazione e questa sembra soltanto acqua minerale, la voglia da sola non basta. E’ ancor più preoccupante ‘White Shoes’, dato che rallenta virando verso piste già battute mille volte, evidentemente in cerca di esili fascinazioni. L’effetto tuttavia è soporifero, freddino, distante. Sembra vittima della stessa sindrome anche ‘I Got The Reason #2’, salvata tuttavia in corner dal piglio del leader, da un carisma finalmente forte e chiaro. Quel che rimane va archiviato tra il passabile e il buono. L’apertura di ‘Slowly (Oh So Slowly)’ è forse il caso che più nettamente lascia il sapore di discreto lato B rispetto a quanto pubblicato in precedenza. Piacevole, scorrevole, convenzionale  e fortemente impregnata di american taste, si colloca ancora su quella felice linea di disimpegno che aveva rappresentato la scelta vincente di ‘Conor Oberst’, con quella sua atmosfera da allegra compagnia. In ‘Ten Women’ prevale l’opzione dell’automatismo, mandando in scena il Conor classico a garanzia di semplicità e successo, senza appesantimenti: voce tremula, chitarra, coro d’amici e la solita buona capacità affabulatoria. Più elettrica, cazzuta e blueseggiante, ‘Roosevelt Room’ è la sua miglior firma a questo giro. Non alla pari di certe perle del passato, ma ha il merito di restituircelo tonico, ruvido, sanguigno e motivato, con un bel mood che sa di alcohol e frustrazione rabbiosa. All’appello manca soltanto ‘To All The Lights In The Windows’, invero una canzone molto bella e anch’essa più obertsiana nell’accezione tipica prima citata. A dirla tutta sul ritornello si tradisce, lasciando intuire senza scusanti i Soul asylum dei tempi d’oro, retrogusto da perdente non di lusso compreso. Ecco, se questo deve essere il prezzo del proprio legittimo ridimensionamento, mi sembra giusto augurare a Conor maggior fortuna di quella capitata al povero Dave Pirner, uno che ha smesso da troppo tempo di aver paura della mediocrità.

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Quando il Black Power era anche Black Merda

Troppo belli per essere veri. Nella mia profonda ed assoluta ignoranza non li avevo mai nemmeno sentiti nominare. Poi qualche mese fa mi imbatto sul Mucchio in una devota recensione di un loro album recente e casco dal pero. Non vi nascondo che, senza quel nome strepitoso, avrei saltato la pagina a pie pari, ché tanto si era nella solita sezione delle riedizioni o della muffa da collezionista chiamata ‘Classic Rock’. Però quella ragione sociale non poteva lasciarmi indifferente e ho deciso di approfondire. Gesù benedetto! Ma un gruppo del genere nell’oblio cosa lo hanno lasciato a fare, si può sapere? Qualche semplice nota biografica: originari del sud ma stabilitisi a Detroit per motivi sin troppo ovvi, considerati il periodo e la professione, questi quattro sconosciuti afroamericani hanno iniziato a lavorare a metà anni ’60 come preziosissima backing band, collaborando con Wilson Pickett e numerosi artisti della storica Motown. Orientamento soul come da etichetta e nome di battaglia assolutamente in linea con queste onorevoli (ma non memorabili) premesse. Sembravano destinati ad esaurirsi come ottimi turnisti in quella eccellente scuderia ma accadde qualcosa che li cambiò. Su una rivista lessero delle mirabolanti imprese di un giovane scapestrato chitarrista di Seattle, uno ancora poco noto eppure destinato a tramutarsi in leggenda nel giro di tre o quattro anni. Jimi si schiantò su questi bravi ragazzi con un impatto micidiale: era quello che loro sentivano di poter e voler diventare. Ancora sotto le spoglie di Soul Agent furono il primo gruppo al mondo ad incidere una cover di Hendrix (‘Foxy Lady’), non tanto per un ammirevole senso dell’intuizione nel precorrere i tempi ma proprio per più nobili ragioni legate all’identificazione culturale e spirituale con un grandissimo artista di quegli anni, forse il più grande. Continuarono a prestarsi per incarichi di alta manovalanza musicale, mettendosi al servizio dei Temptations, ma i tempi erano maturi per una svolta facendo proprie le ragioni di quel fuoco e di quel suono appena scoperti. Cambiarono il nome in Black Murder, con un chiarissimo intento di denuncia verso quanto di più odioso capitava negli States in quel periodo di cambiamenti non ancora generalizzati. Lo smussarono in Black Merda per attenuare la durezza della polemica, ignorando completamente il significato di quella seconda parola nella nostra lingua. Uscirono in rapida successione due ottimi dischi, ‘Black Merda’ e ‘Long Burn The Fire’ che rimasero pressoché ignorati. L’insuccesso li convinse a proseguire come semplici musicisti "a servizio" fino ad una manciata di anni fa, quando vecchietti hanno riscoperto il piacere di suonare come gli andava. Ascoltate oggi, con la musica nera trasformata in una volgare caricatura del "potere" bianco, le loro vecchie canzoni fanno una certa tenerezza, ma non suonano affatto patetiche o antiquate, anzi. Emanano uno splendore autenticamente vintage che le rende quantomai attuali, nell’accezione buona del termine considerato quanto scritto poc’anzi.

Recuperata la preziosissima raccolta di quei primi due lavori, intitolata  ‘The Folks From Mother’s Mixer’, posso affermare senza timore d’essere smentito che i Black Merda erano dei grandi, anche se magari furono persuasi del contrario da chi non era preparato al funk-rock suonato da un gruppo di soli afroamericani. Bene come camerieri per le magiche voci della Motown, meno se intendevano togliere il lavoro ai giovani e arrabbiati figli della buona borghesia americana. Hendrix era molto più di un modello per loro. Nella scarna ma aromatica ‘Prophet’ se ne sente l’ammirazione profonda, sin dal titolo. Così in ‘Cynthy-Ruth’, dove non manca una certa propensione alla solennità corale. Canzoni come inni, con una loro forte epicità. In ‘Ashamed’ c’è tutta la purezza del rock americano di fine anni sessanta, caotico ma sincero alla Easy Rider. Anche in ‘Lying’, pur se più austera, anche nell’ottima chiusa di ‘We Made Up’. E’ musica che oggi non si suona più, al massimo la si imita con maldestra e ruffiana spavalderia. La ribollente e crepuscolare ‘Long Burn The Fire’ descrive un fuoco di cui non esiste che il ricordo ma rimane una delle migliori cartoline di quella band e della sua marginalità favolosa. Stesso incredibile senso di libertà in ‘I Got A Woman’, stessa incendiarietà trattenuta in ‘Sometimes I Wish’. Gruppi come i Make-Up del mitico Ian Svenonius avrebbero battuto le stesse piste solo molti anni più tardi, senza freni. Ascoltata con quasi quattro decenni di ritardo ‘Over And Over’ è ancora uno spettacolo, con quei corridoi disegnati da assoli luminosissimi, con fragranze psichedeliche inattese e groove sbalorditivi, istrionici ma senza barocchismi da virtuosi dell’hard rock. Il brano che da il titolo alla raccolta è un vero gioiello, esprime al meglio le qualità di una formazione tranquilla ma efficace nell’incedere, resta ben impressa anche senza fiammate. Insinuante, intrigante, personalissima. Strepitosi Black Merda, anche alle prese con registri più orientati al folk cantautoriale e intimista. Tra le pieghe di ‘My Mistake’ si riconosce un tono incerto ma ispirato, solo apparentemente fragile, all’avanguardia anche nell’impiego sapiente dei violini. Romantici ma non banali. Quello di ‘Think Of Me’ è folk appena sussurrato, con dentro quella sacralità del respiro black e sottili pennellate soul. Poche le eccezioni a questa formula, tutte peraltro pregevolissime: ‘Reality’ è un frammento pop che riporta in casa Motown con stupefacenti coloriture a livello vocale; ‘For You’ anticipa i lustrini seventies imbastardendo poi quell’atmosfera da lento sofisticato grazie ad una chitarra sempre puntuale. Sarei pronto a scommettere belle somme sul fatto che Chris Robinson conosca a menadito una canzone che, da ‘Amorica’ in poi, i suoi Crowes sembrano non aver mai smesso di far propria. Solo ‘Windsong’ può lasciare perplessi, a conti fatti: più lento, sperimentale, pinkfloydiano, è forse il pezzo invecchiato meno bene tra quelli del ricchissimo lotto, per quanto non privo di suggestioni. Comunque sia, buon ascolto a voi!

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Akron/Family @ Spazio211

04-06-2009

  

Che attesa per gli Akron/Family a Spazio, la tipica emozione da grande evento. A giudicare dal pubblico presente e col senno di poi non sono stati in tanti quelli che hanno vissuto la spasmodicità della nostra vigilia. I fatti concreti, tuttavia, ci hanno dato ragione. Gran concerto, come da anticipazioni di chi già aveva avuto la fortuna di vedere dal vivo questo scatenato trio di folli neo-hippy. La fama delle esibizioni live scoppiettanti e ricche di improvvisazioni sorprendenti ormai precede la band di Brooklyn, a ragione. I non tantissimi spettatori ci hanno messo veramente troppo tempo per svegliarsi e carburare ma Seth e soci sono stati bravissimi a non lasciarsi prendere dallo sconforto per l’iniziale mortorio. Il pubblico italiano dei piccoli club non è ancora avvezzo a show così trascinanti, per cui qualche difficoltà a livello empatico può starci. Certo sul lungo periodo sono stati loro a spuntarla, con una costanza ed un marasma sonoro cui era impossibile restare indifferenti. Tante assenze rimarchevoli in scaletta, ma è anche vero che pezzi dilatati oltre i dieci minuti non consentono fisiologicamente un numero cospicuo di brani. Come per i Silver Mt. Zion in fondo, un gruppo con cui gli Akron/Family hanno in comune più di un suono e più di una suggestione. ‘Ed Is A Portal’ l’hanno fatta comunque, non poteva essere altrimenti. Non chiedetemi come la ricordo perché credo d’averla vissuta in una specie di costante trance emotiva. Dannati stregoni! A conti fatti sono tornato a casa con la pancia piena e il portafogli vuoto: birra d’ordinanza, doppio LP di ‘Set ‘Em Wild, Set ‘Em Free’ da collezione e T-Shirt d’ordinanza, in questo caso anche decente tutto sommato. Non ho il coraggio di immaginare cosa possano esser stati i live di qualche giorno prima in Spagna, dove gli Akron/Family si sono ritrovati a recitare il ruolo della fetta di pane per i Wilco, insieme ai redivivi Jayhawks (con Mark Olson al rientro nei ranghi dopo quasi quindici anni) che hanno chiuso. Tre band della Madonna con lo stesso abbordabilissimo biglietto: per la serie "eventi che neanche a sognarli…". Vabbè, in fondo i Wilco li ho già visti due volte (e nel tour di ‘Summerteeth’ c’era ancora il povero Jay Bennett), i Jayhawks una (immensa, anche senza Olson) e gli Akron/Family pure. La prima di una lunga serie, spero…  

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Treasury Library Canada

Resiste in cima alla mia classifica delle sorprese dell’anno e all’inizio non ci avrei scommesso un nichelino. Invece il primo giudizio sta trovando conferme a tutti i livelli, lasciandomi piacevolmente colpito. Il Canada mantiene le promesse. Un certo criterio selettivo ha sempre permesso a lavori di eccellente fattura di venire alla luce da quelle lande non più desolate, e la costanza di questi sviluppi è ammirevole. Se consideriamo che le produzioni made in U.K. sono desolatamente al tappeto e che negli States i nomi nuovi degni di nota sono sensibilmente ridotti rispetto a quanto avveniva anche solo un lustro fa, colpisce nel contrasto l’aumento vertiginoso di nuovi gruppi canadesi che fanno centro già con gli album d’esordio. Per i Woodpigeon non si tratta di un debutto ma quasi, considerando quel solo episodio precedente risalente al 2006. Quel che più mi ha fatto pensare in merito al talento creativo di Mark Hamilton è che ‘Treasury Library Canada’ era nato come regalo per una stretta cerchia di fan e sodali. Sulle prime ho anche pensato ad una dichiarazione buttata lì per scherzo, dato che non ci si capacita di come queste canzoni possano essere semplici rimasugli del disco precedente, eppure è proprio così.

Fortuna che qualche lampo meritocratico ha ancora modo di manifestarsi in questo pazzo mondo che è l’industria musicale. Non tutti i discografici sono così pazzi o avventati da lasciarsi sfuggire una buona occasione quando si presenta. I Woodpigeon sono senz’altro una buona carta, dato che i loro lati B riescono a costruire un intero album di ottime canzoni. Per tante altre band l’ultima delle gemme nascoste di ‘Treasury Library Canada’ sarebbe un inarrivabile punto d’approdo. Questo Mark Hamilton è un tizio da tenere d’occhio, sin dal prossimo passo della combriccola di Calgary, a quanto pare imminente. Si è formato in Scozia e si sente. Più che i soliti Belle & Sebastian i rimandi vanno tutti a quella Reindeer Section che più che un supergruppo pareva il frutto dell’ispirazione di un uomo solo al comando. Con i Woodpigeon la sensazione è la medesima, anche se il contorno è quello di un’autentica grande banda. Aggiungiamo i rimandi al sottobosco folk statunitense più recente ed il gioco è fatto. Un miracolo a ben vedere, ce ne rendiamo conto in misura crescente man mano che questi brani sono meglio metabolizzati: canzoni come ‘Knock, Knock’, ‘Anna, Girl In The Clocktower’ o ‘Bad News Brown’ sono destinate a restare, inevitabilmente. Con la certezza che abbiamo già in archivio un’altra fantastica sensazione Made in Canada, tanto più gradita se pensiamo che è clamorosamente inattesa. 

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Contro il DDL Alfano

   

 

"Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un susseguirsi di iniziative legislative apparentemente estemporanee e dettate dalla fantasia dei singoli parlamentari ma collegate tra loro da una linea di continuità: la volontà della politica di soffocare ogni giorno di più la Rete come strumento di diffusione e di condivisione libera dell’informazione e del sapere. Le disposizioni contenute nel "Decreto Alfano" sulle intercettazioni rientrano all’interno di questa offensiva.

Il cosiddetto "obbligo di rettifica" imposto al gestore di qualsiasi sito informatico (dai blog ai social network come Facebook e Twitter fino a …. ) appare chiaramente come un pretesto, un alibi. I suoi effetti infatti – in termini di burocratizzazione della Rete, di complessità di gestione dell’obbligo in questione, di sanzioni pesantissime per gli utenti – rendono il decreto una nuova legge ammazza-internet.

Rispetto ai tentativi precedenti questo è perfino più insidioso e furbesco, perché anziché censurare direttamente i siti e i blog li mette in condizione di non pubblicare più o di pubblicare molto meno, con una norma che si nasconde dietro una falsa apparenza di responsabilizzazione ma che in realtà ha lo scopo di rendere la vita impossibile a blogger e utenti di siti di condivisione.

I blogger sono già oggi del tutto responsabili, in termini penali, di eventuali reati di ingiuria, diffamazione o altro: non c’è alcun bisogno di introdurre sanzioni insostenibili per i "citizen journalist" se questi non aderiscono alla tortuosa e burocratica imposizione prevista nel Decreto Alfano.

La pluralità dell’informazione, non importa se via internet, sui giornali, attraverso le radio o le tv o qualsiasi altro mezzo, costituisce uno dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino e, probabilmente, quello al quale sono più direttamente connesse la libertà e la democrazia.

Con il Decreto Alfano siamo di fronte a un attacco alla libertà di di tutti i media, dal grande giornale al più piccolo blog.

Per questo chiediamo ai blog e ai siti italiani di fare una giornata di silenzio, con un logo che ne spiega le ragioni, nel giorno in cui anche i giornali e le tv tacciono. E’ un segnale di tutti quelli che fanno comunicazione che, insieme, dicono al potere: "Non vogliamo farci imbavagliare".

Invitiamo quindi tutti i cittadini che hanno un blog o un sito a pubblicare il 14 luglio prossimo questo logo e a tenerlo esposto per l’intera giornata.

Non si tratta di difendere la stampa, la tv, la radio, i giornalisti o la Rete ma di difendere con fermezza la libertà di informazione e con questa il futuro della nostra democrazia."

Alessandro Gilioli
Guido Scorza
Enzo Di Frenna

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Boss Hog @ Spazio211

17-05-2009

 

Una decina di anni fa ero in fissa per Cristina Martinez. I Boss Hog pubblicavano il terzo album per questa formazione-capriccio, un regalo del signor Jon Spencer alla meravigliosa consorte come band giocattolo da promuovere nei tempi morti tra una pubblicazione JSBX e l’altra. C’era la band e c’erano i suoi dischi, ma all’epoca passarono abbastanza inosservati da queste parti. Era rock’n’roll brutto, sporco il giusto e cattivello, come usava negli anni’80. Ma si era alla fine dei’90, troppo tardi per riproporre il garage à la Pussy Galore, troppo presto perché questi suoni tornassero ad essere sufficientemente cool. Eppure i Boss Hog di allora erano sulla strada giusta, in anticipo di un lustro almeno: l’album omonimo lo diceva chiaramente, passando l’attitudine del duo attraverso il filtro delle nuove sonorità di stampo grunge, che tanto nuove in fondo non erano memmeno più. Il successivo ‘Whiteout’ avrebbe giocato ancor di più la carta di un imbastardimento modaioloche all’epoca suonò come una vera e propria resa mainstream, un compromesso con il pop in cambio di qualche corsa malpagata sul rollercoaster di MTV. Tutto giusto in un certo senso: Jon coltivava la propria intransigenza col progetto principe e la ragazza poteva trovare una buona valvola di sfogo nella discreta esposizione televisiva che ebbe. Il videoclip di ‘Whiteout’ la rivelò al top di ogni scala, sensualità e bellezza su tutte. Ma quello era già il tramonto del gruppo, paradossalmente. Non avremmo immaginato che Cristina sarebbe finita presto nell’album dei ricordi e che anche le uscite di Jon sarebbero andate via via esaurendosi (oggi si recensisce la Bud Spencer Blues Explosion, pensa un po’).

Così ci siamo dimenticati di Cristina e della sua accolita di scoppiati garagisti e la notizia della reunion, a così tanto tempo dagli ultimi fuochi, ci ha piacevolmente sorpreso. Certo c’erano i dubbi della vigilia per questo tour tirato sù con la sola arma della voglia, con non pochi interrogativi in merito allo stato di forma di una fuoriserie per così tanto ferma ai box, e per una formazione al completo di cui non si era mai più sentito parlare (Jon a parte). E invece questi ragazzacci hanno sfoderato un live della Madonna, facendo impallidire anche il rumoroso antipasto delle simpatiche streghette finlandesi Micragirls. Stato di forma eccellente come negli anni d’oro, ed evidentemente in crescita (a fine tour cosa potrebbero tirare fuori?). C’è da augurarsi che ritrovino l’ispirazione per licenziare un nuovo album, senza bisogno del capolavoro che nessuno si aspetta da loro ma almeno di una buona fotografia di questo particolare momento, una poderosa mazzata sull’incudine ora che è bella roventa. Hollis Queens e Jens Jurgensen hanno pestato come degli ossessi, ribadendo che i Boss Hog erano e sono un gruppo coi controcoglioni. Un lusso il tastierista esagitato e grottesco, rispettoso delle gerarchie un Jon Spencer sempre e comunque adorabile (fosse dipeso da lui il concerto sarebbe finito il mattino dopo). La vera sorpresa però è stata Cristina. Bella come nemmeno speravo di ritrovarla, a quarantanni compiuti (ma chi li ha visti?). Carica come un giocattolo a molla, intensa e splendidamente rock, corvina, provocante, trascinante, dominatrice. E dire che nel frattempo avevo quasi avuto la tentazione di rimpiazzarla con Alison dei Kills, sul trono delle muse rock più fascinose. Col senno di poi dico che no, non se ne parla: io mi tengo il mio fustino vecchio. Lo scambio proponetelo a chi i Boss Hog, oggi come ieri, se li è proprio persi.

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Paisley underground?

 

Per un errore di ordine e di cartelle su un CD divorato nei miei viaggi in auto, ho creduto per diverse settimane che il disco degli Antlers fosse quello di Doug Paisley. "Eccheccenefrega" direte voi giustamente. Per il buon Bandito, spesso solerte nel consigliare dischi interessanti, il mio errore di valutazione potrebbe essere stato (uso il condizionale perché dubito che abbia ascoltato l’album di cui sto scrivendo) un gioco al ribasso. Col senno di poi io parlerei piuttosto di gioco a rialzo. ‘Hospice’ mi sembra un lavoro discreto ma non entusiasmante, mentre l’omonimo del folksinger di Toronto mi è piaciuto subito, a pelle. Basterebbe anche solo il pezzo iniziale, la fantastica ‘What About Us?’ a forzare il mio giudizio in questa direzione. Un folk lento e pacato ma non scarno, molto umano, e con una voce che scalda il cuore. Morbido, notturno, aggraziato da un pianoforte che è la vera arma in più per questo brillante cantastorie canadese, come testimonia anche la chiusa country dolce ed accorata di ‘Take Me With You’. Paisley ha buoni numeri, come diversi suoi colleghi della zona. E’ eccellente anche puntando sull’essenzialità a livello formale: sceglie come un automatismo la tradizione e l’economia di risorse badando decisamente al sodo, mirando dritto al cuore della sua poetica. Lo si nota molto bene in un brano come ‘Wide Open Plain’, che colpisce forse meno delle precedenti ma riesce comunque in modo autorevole nel proprio intento: secca, spogliata dei pur pochi orpelli, lineare e diretta ma non cruda. Sarà stato per questa sua abilità non comune nel maneggiare materiale tutt’altro che originale, rendendolo comunque molto fluido e armonioso (vedi ‘Broken In Two’), che il signor Will Oldham ha fortemente voluto Doug per alcune date del suo ultimo tour americano (vissute in incognito come "Dark Hand and Lamplight"). Paisley rivela una bravura indiscutibile nel non andare mai sopra le righe. Non inventa nulla di nuovo ma gioca bene con le carte a sua disposizione ed è anche piuttosto piacevole.

Qualità queste che emergono in modo nitido nel miglior titolo del lotto, quella ‘Digging In The Ground’ che sembra Young rifatto da un sobrio ma colorato Bonnie ‘Prince’ Billy. Il piano dipinge con grazia e leggerezza accompagnato dalla voce femminile, torna la dimensione raccolta congeniale al folksinger, un ché di calore domestico, di focolare che impreziosisce. E’ questo tono epico ed insieme familiare, oltre alla buona disinvoltura nel trattare materiale in fondo convenzionalissimo, il tratto vincente della proposta di Paisley. Una freschezza che si apprezza anche in passaggi inconsueti come ‘Take My Hand’, col suo ritmo quasi chicano e corredo di finte trombe. E’ l’atmosfera rilassata ma amichevole a fare la differenza, con Doug che ricama in scioltezza e si merita tutti gli applausi. Tranquillità e respiro profondo convivono in modo mirabile, anche dove l’acustica lascia trasparire veli d’inquietudine e sottili scatti nervosi (‘A Day Is Very Long’). Un disco prezioso insomma, pregevole anche per i continui duetti che giocano un’ulteriore carta di conferma per quanto detto in precedenza sulla rivitalizzazione di formule decisamente tradizionali. In ‘Last Duet’ si apprezzano la chitarra slide, le armonie ed una classicità che non guasta. Come il titolo suggerisce, si tratta di un incontro di voci arioso, emozionante e pulito, nonostante la veste spartana adottata e l’apparente fragilità vocale della controparte femminile. Lo stesso vale anche per il country-folk dondolante ma caloroso di ‘We Weather’. Non sarà proprio Paisley Underground ma il colore non manca. Ancora una volta un autoritratto in copertina racchiude in sè molta più verità di quanto si potrebbe credere. Bandito, sotto con gli ascolti!

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Marissa Nadler @ Spazio211

16-5-2009

  

Nelle previsioni della vigilia doveva essere quasi una condivisione del palco con Greg Weeks e sarebbe stato un concerto incredibile, ne sono certo. Ma era davvero troppo bello per essere vero, un passaggio presentato assolutamente in sordina eppure ghiottissimo per gli appassionati come il sottoscritto. Ed infatti Mr. Espers non si è fatto vivo, presumibilmente per altre scelte strategiche e promozionali che lo hanno fatto desistere dal venire a presentare a noi, terzomondo italico, le canzoni di un disco uscito ormai un anno fa (‘The Hive’). Peccato davvero, ma sono convinto che l’occasione di ascoltarlo dal vivo da queste parti non mancherà di ripresentarsi. Sarà difficile comunque la coincidenza di un tour condotto in parallelo con Marissa Nadler, dato che lei il suo giretto promozionale l’ha portato fino in fondo anche in Italia. L’idea di vederli insieme sul palco alle prese con i pezzi di ‘Songs III’, l’album che lui ha prodotto magnificamente per lei suonandoci pure, era veramente allettante. Nonostante ciò la ragazza ha fatto benissimo anche da sola, appena accompagnata da un terzetto di musicisti molto "backing", molto poco appariscenti in ogni senso. Non stava bene Marissa, lo aveva annunciato Teddy riferendosi alla serata milanese. Sofferente e a disagio ha mostrato abbastanza chiaramente di voler stringere i denti e portare a termine la missione. Quel che più ho apprezzato è il modo in cui lo ha fatto. Non come un compito da fare comunque, ma come una prova da vivere con la consueta serietà e passione, al di là delle difficoltà del momento. In questo ha mascherato benissimo i dolori e l’influenza e ci ha regalato un concerto semplicemente meraviglioso, breve ma molto intenso. Di loro le canzoni sono fantastiche ma la voce, beh, è stata all’altezza dell’attesa. In più di un’occasione (‘Dying Breed’, ‘Mistress’) ho avuto quasi la pelle d’oca per la profondità e la pienezza del suo cantato, in un’interpretazione semplice e cristallina, come lei in fondo. E poi ha fatto la solita cover di Cohen (‘Famous Blue Raincoat’) rasentando la perfezione, lasciandoci ammirati a bocca aperta. Devono aver provato un po’ tutti le medesime sensazioni, dato che per una volta il vociare un po’ becero sul fondo della sala non si è minimamente avvertito. Forse si è trattato finalmente di un atto di rispetto nei confronti di un’artista vera, per giunta in difficoltà. Bravissima Marissa, peccato quando mi hai detto che il fantastico vinile di ‘Ballads of Living and Dying’ era finito: fartelo autografare sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta. Ma non importa, non era logico pretendere qualcosa di più da una serata in cui non hai fatto rimpiangere l’assenza di un grande come Greg Weeks.

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Anathallo @ Spazio211

12-05-2009

  

Una bella sorpresa primaverile questi Anathallo, classico gruppo originale e sopraffino che passa inosservato come una meteora senza che nemmeno l’appassionato indie abbia molte occasioni di accorgersene. Per mia fortuna è stato inserito in cartellone nella stagione di Spazio e ho avuto modo di ascoltare qualcosa dalla relativa pagina Myspace. Dall’ "interessante" si è passati rapidamente al "ne voglio ancora", alla scoperta che un disco uscito nel 2008 (‘Canopy Glow’) era segnalato da qualche parte come imperdibile…e infatti. Corso intensivo di Anathallo ed entusiasta uscita serale per apprezzare in concerto l’ennesima formidabile band made in U.S.A.. Che è stata all’altezza di sè, bisogna dirlo, mostrando un superbo affiatamento tra tutti i membri e una notevole abilità in questi nel districarsi in sette sul microscopico palco di Spazio, saltando in uno stesso brano da una postazione all’altra per battere il record di strumenti suonati. Apprezzabile personaggio il cantante, una specie di talpa boy scout che ha saputo tirar fuori una grinta apparentemente non sua, dato l’aspetto innocuo e tranquillo. Incantevole la cantante, a suo agio con ogni sorta di coretto, al synth e alle tastiere. Tutt’attorno un bel gruppo di musicisti e amici, qualità che è emersa molto chiaramente dall’interazione tra loro. Applausi convinti alla fine, per le poche perle di ‘Canopy Glow’ e di ‘Floating World’ che abbiamo avuto modo di apprezzare. Canzoni lunghe e poco tempo a disposizione, ma band comunque generosissima e ispirata. Spiace che fossimo in quattro gatti. Passi che questo evento è stato aggiunto solo nelle ultime settimane, ma un po’ di promozione in più avrebbe reso più giustizia a questi fantastici musicisti. Volendo sognare un fantomatico regime meritocratico, sono certo che alla prossima discesa in Italia degli Anathallo ci sarà il pienone. 

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