Paisley underground?

 

Per un errore di ordine e di cartelle su un CD divorato nei miei viaggi in auto, ho creduto per diverse settimane che il disco degli Antlers fosse quello di Doug Paisley. "Eccheccenefrega" direte voi giustamente. Per il buon Bandito, spesso solerte nel consigliare dischi interessanti, il mio errore di valutazione potrebbe essere stato (uso il condizionale perché dubito che abbia ascoltato l’album di cui sto scrivendo) un gioco al ribasso. Col senno di poi io parlerei piuttosto di gioco a rialzo. ‘Hospice’ mi sembra un lavoro discreto ma non entusiasmante, mentre l’omonimo del folksinger di Toronto mi è piaciuto subito, a pelle. Basterebbe anche solo il pezzo iniziale, la fantastica ‘What About Us?’ a forzare il mio giudizio in questa direzione. Un folk lento e pacato ma non scarno, molto umano, e con una voce che scalda il cuore. Morbido, notturno, aggraziato da un pianoforte che è la vera arma in più per questo brillante cantastorie canadese, come testimonia anche la chiusa country dolce ed accorata di ‘Take Me With You’. Paisley ha buoni numeri, come diversi suoi colleghi della zona. E’ eccellente anche puntando sull’essenzialità a livello formale: sceglie come un automatismo la tradizione e l’economia di risorse badando decisamente al sodo, mirando dritto al cuore della sua poetica. Lo si nota molto bene in un brano come ‘Wide Open Plain’, che colpisce forse meno delle precedenti ma riesce comunque in modo autorevole nel proprio intento: secca, spogliata dei pur pochi orpelli, lineare e diretta ma non cruda. Sarà stato per questa sua abilità non comune nel maneggiare materiale tutt’altro che originale, rendendolo comunque molto fluido e armonioso (vedi ‘Broken In Two’), che il signor Will Oldham ha fortemente voluto Doug per alcune date del suo ultimo tour americano (vissute in incognito come "Dark Hand and Lamplight"). Paisley rivela una bravura indiscutibile nel non andare mai sopra le righe. Non inventa nulla di nuovo ma gioca bene con le carte a sua disposizione ed è anche piuttosto piacevole.

Qualità queste che emergono in modo nitido nel miglior titolo del lotto, quella ‘Digging In The Ground’ che sembra Young rifatto da un sobrio ma colorato Bonnie ‘Prince’ Billy. Il piano dipinge con grazia e leggerezza accompagnato dalla voce femminile, torna la dimensione raccolta congeniale al folksinger, un ché di calore domestico, di focolare che impreziosisce. E’ questo tono epico ed insieme familiare, oltre alla buona disinvoltura nel trattare materiale in fondo convenzionalissimo, il tratto vincente della proposta di Paisley. Una freschezza che si apprezza anche in passaggi inconsueti come ‘Take My Hand’, col suo ritmo quasi chicano e corredo di finte trombe. E’ l’atmosfera rilassata ma amichevole a fare la differenza, con Doug che ricama in scioltezza e si merita tutti gli applausi. Tranquillità e respiro profondo convivono in modo mirabile, anche dove l’acustica lascia trasparire veli d’inquietudine e sottili scatti nervosi (‘A Day Is Very Long’). Un disco prezioso insomma, pregevole anche per i continui duetti che giocano un’ulteriore carta di conferma per quanto detto in precedenza sulla rivitalizzazione di formule decisamente tradizionali. In ‘Last Duet’ si apprezzano la chitarra slide, le armonie ed una classicità che non guasta. Come il titolo suggerisce, si tratta di un incontro di voci arioso, emozionante e pulito, nonostante la veste spartana adottata e l’apparente fragilità vocale della controparte femminile. Lo stesso vale anche per il country-folk dondolante ma caloroso di ‘We Weather’. Non sarà proprio Paisley Underground ma il colore non manca. Ancora una volta un autoritratto in copertina racchiude in sè molta più verità di quanto si potrebbe credere. Bandito, sotto con gli ascolti!

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