Yes, it feels scary to be ordinary…

 

Dannato ex ragazzo prodigio del folk nordamericano. Uno non fa in tempo a complimentarsi per il convincente primo passaggio "solista" dopo la lunga avventura al timone dei Bright Eyes, che lui se ne viene subito fuori con un seguito a strettissimo giro di posta, del quale davvero non si sentiva il bisogno. Certo un annetto fa l’omonimo ‘Conor Oberst’ era stata una sorpresa notevole, per la qualità apprezzabile delle canzoni e per la significativa opera di ricostruzione di sè come artista, attuata dal non più giovanissimo talento di Omaha. Rimanere su quei livelli sarebbe stata una buona promessa. Come spesso capita in questo mondo, affidarsi alla fretta dopo aver stupito positivamente, come a voler ribadire l’urgenza palpitante di uno stato di grazia, porta però ad esiti ben diversi da quelli sperati. ‘Outer South’ non può che essere letto in questi termini, i soli che giustifichino un buco nell’acqua causato non dal solito ego smisurato del cantante, bensì da spinte opposte e contrarie. Con l’album precedente Conor aveva stupito proprio per la scelta di un profilo basso, rinunciando alle ultime scorie da primadonna che ne avevano caratterizzato ogni lavoro a marchio Bright Eyes, in dosi – va detto – decisamente decrescenti col passar degli anni. Mi era parsa una prova indiscutibile della sua effettiva maturazione come artista, meno sensazionale e più coi piedi per terra. Piedi buoni comunque, quelli del classico fuoriclasse non più troppo in erba. Il nuovo ‘Outer South’, arrivato nei negozi appena nove mesi dopo il suo predecessore, non tradisce quest’impostazione ma pecca sensibilmente proprio a causa di una sua forzatura. Oberst ne esce annacquato, confuso, ridimensionato. Le canzoni non condividono le sessioni di registrazione con ‘Sausalito’ o ‘Cape Canaveral’, ma è comunque plausibile che si tratti di potenziali B-sides o Outtakes di quel particolare momento creativo. Il livello di queste composizioni lo dice senza troppi appelli. A Conor non pare aver giovato la scelta di abbassarsi a semplice membro in una band composta da autori con pari dignità, visto che i compagni di questo viaggio non hanno nemmeno lontanamente il suo spessore di songwriter (nè tantomeno quello del suo fidato compagni d’armi, Mike Mogis): una compagnia di ottimi musicanti ma modesti cantanti, premiati a sorpresa con il microfono dell’ex leader dispotico in ben sette brani su sedici.

Questo è il primo (doppio) difetto evidente: perdita di coesione a fronte di un vistoso calo di appeal. Pessimo il Macey Taylor cui Oberst ha affidato ‘Worldwide’ facendone un pezzo da sbadigli: una triglia lessa a corto di tutto, all’opera ancor prima di colazione. Molto male Taylor Hollingsworth, sia nel guastare con la sua brutta voce una canzone discreta come ‘Snake Hill’, sia nel pilotare la band nella prima vera caduta del disco (il pop-rock banalotto e per nulla coinvolgente di ‘Air Mattress’). Mediocre Jason Boesel nella rilettura à la Lou Barlow miagolante di ‘Eagle On A Pole’ (brano del 2008, nota bene), in una versione accademica e priva di mordente, ma anche nella ‘Difference Is Time’ che porta in tutto la sua firma: alt-country non brutto per quanto senz’anima (cui non basta qualche ricamo elettracustico), convenzionale e calligrafico ma onesto, senza eccessi come tutto il resto della raccolta. Anche la ‘Bloodline’ di Nik Freitas offre gli stessi pregi e difetti, inseguendo ammirevolmente Gary Louris su un terreno in cui davvero non può spuntarla. Onorato del microfono, Freitas ammette che sì, fa paura essere ordinari. Forse va ad interpretare l’incubo ricorrente di chi ha scelto di ospitarlo in questo disco, un Oberst che, scoprendosi democratico e svagato come capobrigata, ha offerto la più concreta delle dimostrazioni di quella stessa paura. O forse lo dice per testimoniare che i passi falsi capitano a tutti, come quelli giusti. La sua ‘Big Black Nothing’, ad esempio, vince abbastanza agevolmente la palma di miglior titolo del lotto per trasporto ed intensità. Bella, asciutta, sobria, ma ornata da suggestioni e da un respiro profondo che ci farebbe volentieri scrivere di una conferma per quell’impressione di maturità che avevamo avuto a proposito del folksinger del Nebraska, se solo ne fosse l’autore. Già, come se la cava in fin dei conti il nostro eroe quando ha in mano lo scettro? Sotta la sua media, direbbe il commentatore sportivo. A volte è decisamente fuori giri. Smielato nella resa in ‘Cabbage Town’, troppo meccanico nella scrittura. Lo si ascolta ma non lo si ama. ‘Spoiled’ e ‘Nikorette’ si spalleggiano coi loro ritmi sbarazzini, per alzare il livello di effervescenza dell’album: ma Conor appare a corto d’ispirazione e questa sembra soltanto acqua minerale, la voglia da sola non basta. E’ ancor più preoccupante ‘White Shoes’, dato che rallenta virando verso piste già battute mille volte, evidentemente in cerca di esili fascinazioni. L’effetto tuttavia è soporifero, freddino, distante. Sembra vittima della stessa sindrome anche ‘I Got The Reason #2’, salvata tuttavia in corner dal piglio del leader, da un carisma finalmente forte e chiaro. Quel che rimane va archiviato tra il passabile e il buono. L’apertura di ‘Slowly (Oh So Slowly)’ è forse il caso che più nettamente lascia il sapore di discreto lato B rispetto a quanto pubblicato in precedenza. Piacevole, scorrevole, convenzionale  e fortemente impregnata di american taste, si colloca ancora su quella felice linea di disimpegno che aveva rappresentato la scelta vincente di ‘Conor Oberst’, con quella sua atmosfera da allegra compagnia. In ‘Ten Women’ prevale l’opzione dell’automatismo, mandando in scena il Conor classico a garanzia di semplicità e successo, senza appesantimenti: voce tremula, chitarra, coro d’amici e la solita buona capacità affabulatoria. Più elettrica, cazzuta e blueseggiante, ‘Roosevelt Room’ è la sua miglior firma a questo giro. Non alla pari di certe perle del passato, ma ha il merito di restituircelo tonico, ruvido, sanguigno e motivato, con un bel mood che sa di alcohol e frustrazione rabbiosa. All’appello manca soltanto ‘To All The Lights In The Windows’, invero una canzone molto bella e anch’essa più obertsiana nell’accezione tipica prima citata. A dirla tutta sul ritornello si tradisce, lasciando intuire senza scusanti i Soul asylum dei tempi d’oro, retrogusto da perdente non di lusso compreso. Ecco, se questo deve essere il prezzo del proprio legittimo ridimensionamento, mi sembra giusto augurare a Conor maggior fortuna di quella capitata al povero Dave Pirner, uno che ha smesso da troppo tempo di aver paura della mediocrità.

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