Month: giugno 2012

Bye bye Indie-rock.it

       

Mi sembra più che doveroso spendere qualche parola per lo hiatus – termine modaiolo che in ambito musicale si riferisce ad una sospensione delle attività di una band – della webzine con la quale ho collaborato per quasi cinque anni. Personalmente è sempre un dispiacere quando un sito web che si consulta e frequenta con regolarità chiude i battenti. Tempo fa mi è capitato con un’ottima pagina che si occupava di musica indiepop a tutto campo (Indiepop.it, appunto) e che era gestita praticamente in solitaria da un certo Salvatore Patti, uno dei migliori critici di musica leggera che mi sia mai capitato di leggere. Più di recente è toccato ad un blog (Justanotherpopsong.blogspot.it) che guardava in esclusiva al pop ed al folk indipendente di matrice scandinava, al quale devo più di una preziosa imbeccata. In casi come questi è sempre stato come perdere piccoli punti di riferimento ritrovandosi spiazzati, anche se certo le voci interessanti nel mare magnum della rete non mancano ed è sempre possibile trovarne di nuove e più autorevoli. Certo, però, quando la voce che adotta il silenzio è una di quelle che non soltanto ci si era abituati a sentire, ma in parte si era scelto di fare propria come strumento attraverso cui parlare, il rammarico non può che farsi cocente. Adesso i maligni penseranno che avevo sentito puzza di cadavere quando nel dicembre scorso avevo scritto a Cristiano Gruppi, il webmaster, inviando l’ultimo pezzo e salutando. Ovviamente non è così, non avrei immaginato che il sito sarebbe arrivato al capolinea così presto: aveva tante nuove valide leve, tanto entusiasmo, una sempre più capillare copertura di eventi, notizie, dischi e concerti. Eppure…

Mi ha fatto una certa impressione ritrovare nel laconico comunicato di addio di Cristiano gli stessi sentimenti manifestatigli in quella mia mail di congedo. Passione sbiadita, tempo da riservare ai contenuti e agli aggiornamenti vissuto quasi come una condanna, voglia di dedicarsi ad altro. E’ inevitabile considerare allora come dietro passioni esili come lo scrivere di musica si nasconda quasi inevitabilmente un senso di sazietà e nausea che porta prima o poi a gettare la spugna. Non è un “mestiere” – qui sempre inteso come hobby- che possa durare veramente a lungo, ed è sbalorditivo come certe riviste che si occupano di musica alternativa riescano a tirare avanti magari trent’anni, affogate nella noia e di fatto sopravvissute a loro stesse ben oltre il lecito. Alcuni dei migliori collaboratori di Indie-rock.it avevano lasciato da tempo. Io l’ho fatto quando mi sono sentito davvero esausto, dopo quasi settanta recensioni, ottanta live report con gallerie fotografiche e tre interviste, una delle quali (quella a Vic Chesnutt) rimarrà di fatto il mio più bel ricordo dell’intera esperienza. La stanchezza nel ripetersi ad oltranza, nel proporre album per lo più ignorati, nel sentirsi un po’ come un pesce fuor d’acqua ma anche nel riscontrare come il forum di IR, una bella piazza virtuale di spiriti affini, si fosse rapidamente involuta sotto i colpi da concorrente sleale di Facebook mi hanno spossato.

La comunicazione degli apparati social, luminosissima grazie ai vantaggi innegabili di una interconnessione aggregante,tamburellante e seducente (termine adorato dai semiologi, quindi anche mio), si sta imponendo con la sua stuzzicante aura di deresponsabilizzazione e volatilità anche nel campo del giornalismo (più o meno serio), con esiti secondo me devastanti per le forme di informazione un minimo più accurate. Nello specifico della critica musicale le vecchie riviste cartacee scontano una crisi probabilmente irreversibile a vantaggio dei nuovi media, ma in questo ambito anche le grosse webzine sono in evidente difficoltà rispetto ai blog, che a loro volta diventano praticamente superflui se raffrontati a Facebook ed ancor più, in prospettiva futura, a Twitter. Così bastano degli slogan o poche parole ad effetto a caccia di approvazioni sbandierate per trasformarsi in luminari e raccontare dischi cui, con ogni probabilità, nemmeno si sono dedicati più di due ascolti. E’ molto triste secondo me, l’ennesimo piccolo segno di quel decadimento anche culturale che fa da contraltare ai progressi ed alla diffusione (di fatto più che positivi) delle nuove tecnologie.

Con tutte le attenuanti e le giustificazioni del caso appena menzionate come determinanti in scelte dolorose come la chiusura di un sito,  con i ringraziamenti ed i sinceri attestati di stima che non posso esimermi dal rivolgere a Cristiano per quanto costruito dal nulla in questi sette anni, rimane comunque una nota di rammarico e di biasimo costruttivo che ritengo giusto manifestare in questo accrocchio di impressioni sparse e senza pretese. Il limite forse più significativo (ed in fondo anche l’unico) di tutta l’avventura di IR credo sia stato quello di aver insistito nel voler concepire il progetto adottando la stessa ottica di quando era nato, quella  forse troppo strutturalmente (anche se bonariamente) personalistica di un blog, per quanto anomalo. La rivendicazione affettiva ed esclusiva di Cris verso una creatura nata da un suo lampo di genio ha finito col non armonizzarsi nel giro di qualche tempo con quello che IR stava diventando per le persone che ci si avvicinavano: una bella palestra di scrittura, un piccolo grande punto di riferimento (e di contatto) tra vittime beate della medesima passione, ed anche una particolare e bellissima comunità di amici (prima virtuali, poi reali), quasi una famiglia. Questa non vuole essere una critica fine a se stessa nei confronti di Cris cui, lo ripeto, va tutta la mia riconoscenza e quella dei tanti che negli anni hanno avuto l’opportunità di collaborare o anche solo confrontarsi, a qualunque grado. Però un sincero dispiacere non posso tacerlo. Aver saputo superare la visione un po’ miope di chi ha sempre rifiutato in buona parte (non sempre) le logiche costruttive del delegare, del condividere (non solo gli onori, per carità, proprio gli oneri) e del costruire assieme, non certo per manie di protagonismo ma come animato da un senso profondamente intimo di “missione”, avrebbe senza dubbio fatto sentire meno pesante a Cristiano questo suo secondo (non dimentichiamolo, e per giunta gratuito) lavoro rendendo meno dolorosa ed al contempo meno drastica la scelta più che legittima di staccare un po’.  Da indefesso sostenitore delle logiche del buon senso continuo a sperare che ci sia ancora il margine per un ripensamento positivo, che il buon Cris capisca che questa fantastica cosa che ha creato da solo è diventata davvero con gli anni anche un po’ nostra, e ci mancherà terribilmente. Forse il suo più grande successo è scritto proprio in questa semplice considerazione. Disperderlo dall’oggi al domani nel silenzio sarebbe un vero peccato.

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Let It Beard

       

Nella rosa degli album di volta in volta papabili di recensione sulle pagine di Monthlymusic.it, ho in questi ultimi mesi dovuto rinunciare ai titoli del ritorno di una delle mie band preferite, i -comunque la si pensi- inimitabili Guided By Voices, ovvero il non esaltante ‘Let’s Go Eat The Factory’ ed il ben più lusinghiero ‘Class Clown Spots a UFO’. Questa esclusione a priori sarà replicata entro pochi mesi con l’uscita del terzo disco del 2012 per il gruppo di Dayton, che dovrebbe chiamarsi ‘Bears For Lunch’ (un titolo che fa venire in mente la fantasiosa idiozia di certe feste “padane” di qualche tempo fa). Il motivo di tali forzate rinunce è semplice da spiegare: con MM vorrei cercare di scrivere pezzi correndo il meno possibile il rischio di ripetermi, cosa inevitabile qualora “adottassi” uno dei lavori dell’instancabile Robert Pollard dopo averlo già fatto lo scorso agosto con l’ultima (sino ad oggi) fatica accreditata ai Boston Spaceships. A quel navigato antieroe di Pollard avevo già dedicato un pezzo su questo blog, ed in fondo non ho poi fatto molto più che riordinare le idee sul suo conto in un quadretto un po’ più esauriente ed a proposito di un disco particolarmente riuscito. Questo ‘Let It Beard’ in effetti è un buon risultato, considerando che per il cantante e chitarrista dei Guided By Voices il tempo sembra volare (55 anni dice l’anagrafe dell’Ohio) e ispirazione ed originalità non possono certo più arrivare ai livelli stratosferici (per chi ama il genere rock scapestrato e in bassa fedeltà dei primi novanta) dei vari ‘Bee Thousand’, ‘Alien Lanes’ o ‘Under The Bushes, Under The Stars’. Inevitabile che i suoi frammenti acustici riarsi, le sue sgommate noise-pop e l’assortita chincaglieria elettrica del suo repertorio recente suoni già sentita, e che un’idea di naturale compromesso si manifesti sempre all’orizzonte. Pollard però si conferma artista genuino e dignitosissimo, uno di quelli che riescono sempre, come per miracolo, a risparmiare ai loro affezionati le vere delusioni. Con la sua title track irresistibile, ‘The Ballad of Bad Whiskey’, ‘Let More Light Into The House’ ed un’altra infornata di croccanti chicche, ‘Let It Beard’ si è meritato dal sottoscritto l’affettuosa *recensione-biglietto-da-visita* definitiva per questo inarrivabile personaggio del sottobosco indipendente americano. Io l’ho sempre visto e continuo a vederlo così, per una volta penso non a torto. Certo dedicargli queste parole raccontanto un nuovo album dei Guided By Voices sarebbe stato il massimo, ma dieci mesi fa questa reunion era ancora solo un sogno e la realtà col vecchio Bob corre sempre veloce, velocissima: per un vecchio rocker che licenzia non meno di cinque/sei dischi l’anno si trattava di fare la scelta di un attimo, ed amen. Come quando nei film viene fermato con l’indice un mappamondo che gira all’impazzata, per scegliere la propria prossima destinazione. Quella di Pollard sono i negozietti di dischi vicini ai campus universitari; la scadenza, non più di tre mesi da adesso.

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OK Go @ GruVillage, Grugliasco   20/07/2011     _ Il nostro (altro) concerto

      

In un breve report di pochi mesi fa dedicato all’ultimo concerto cittadino della sempre mirabile Joan as Policewoman, avevo menzionato proprio solo di striscio il nome di una band di cui mai mi sarei anche solo sognato di andare a vedere uno show, gli OK Go. Questa band di Chicago salita qualche annetto fa alla ribalta mondiale grazie ad una serie di videoclip davvero molto ben fatti (idee semplici ma assolutamente vincenti tipo un balletto sui tapis roulant, un assurdo Domino-Rally umano,  una coreografia bislacca all’aria aperta, una popsong suonata guidando una Chevrolet ed altre diavolerie per i fanatici della rete) non è infatti la mia precisa tazza di the, musicalmente parlando, ma devo riconoscere che l’abbinamento della serata ed il prezzo popolarissimo hanno fatto sì che mi ci accostassi con un minimo di curiosità. Mi preme chiarire subito che non ci sono stati estemporanei colpi di fulmine e che la mia opinione in merito ad un gruppo buono quasi esclusivamente per le classifiche di MTV non è cambiata dopo il centinaio di minuti scarsi in sua compagnia sulla collinetta finta delle Gru di Grugliasco. Tuttavia, lasciando da parte le tentazioni snobistiche che quasi naturalmente si manifestano in occasioni come questa, non posso nascondere di essermi divertito parecchio. In primo luogo per la vena demenziale dell’intero spettacolo e per il profilo di disimpegno galoppante garantito come condizione sostanziale dai quattro musicisti sul palco, abbastanza intelligenti da non prendersi mai troppo sul serio al cospetto di un pubblico, quello sì, abbastanza preoccupante (ma composto quasi esclusivamente da adolescenti molesti e fanatici, il che spiega tante cose). Quindi per lo show in sé, davvero vario e coinvolgente proprio a livello visivo e quindi una bella prova anche per il fotografo dilettante che è in me (la relativa galleria di immagini, raggiungibile dalla prima foto in alto, rende solo in parte l’idea): tra vagonate di coriandoli, delicati intermezzi con campanelle e campanacci, pezzi suonati al buio con strumenti pelosi e fosforescenti, mascherate pacchiane, balletti, proiezioni ridicole, incursioni al di quà del palco tra i pochi (tutto sommato: era data unica in Italia) spettatori ed uno spirito tamarro da battaglia rigorosamente sopra le righe, anche i più scettici come il sottoscritto non hanno proprio avuto modo di annoiarsi. Certo in tutto questo baraccone la musica ha finito col fare la figura del sottofondo non indispensabile, invariabilmente leggerina con le sue fattezze di power-pop gommoso da classifica per teenager o giù di lì. La scaletta che riporto qui sotto, per dire, per una volta non è farina del mio sacco ma ho dovuto cercarla in rete. Di mio posso aver riconosciuto per orecchiabilità giusto quel paio di tormentoni sedimentati nella mia memoria distratta (ed inconsapevole) dalle rare puntate sui canali televisivi musicali o radiofonici, ai tempi. Ecco, scrivo “ai tempi” e fa un po’ ridere, perché i maggiori successi della band di Damian Kulash e soci risalgono a non più di sette anni fa, mica venti. Eppure è proprio vero, quando la fama arriva dal web o dalla promozione vaporosa di qualche fortunato videoclip è quasi impossibile non pronostricare un’altrettanto repentina discesa verso il dimenticatoio. Da spettatore attento ma comunque distaccato la sensazione – a giudicare anche dal contesto (una piccola arena posticcia e mezza vuota sul tetto di un centro commerciale) – è stata proprio quella di una band teneramente abbracciata ai suoi fan sul fare del crepuscolo. Impossibile allora, con simili premesse, non provare per questi OK Go almeno un briciolo di spassionata simpatia.

SETLIST: ‘Do What You Want’, ‘A Good Idea at the Time’, ‘Needing/Getting’, ‘Back from Kathmandu’, ‘Invincible’, ‘The Greatest Song I Ever Heard’, ‘Return (handbells version)’, ‘Last Leaf’, ‘Tim Nordwind Adventure’, ‘Here It Goes Again’, ‘I Want You So Bad I Can’t Breathe’, ‘Skyscrapers’, ‘White Knuckles’, ‘Get Over It’; ENCORE: ‘WTF?’, ‘In The Glass’, ‘This Too Shall Pass’.

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Brooklyn Sound Solution

       

Ancora Fleshtones. Mentre l’allegra combriccola newyorkese non spegne i motori da trentasei anni, trascorrendo questa ennesima fase di giovinezza in un ininterrotto tour mondiale a base di show decisamente eccessivi, sbevazzate di gran classe (qui in Europa, ovvio) e shopping di articoli di abbigliamento a dir poco improponibili (sempre nel vecchio continente), recupero questo che è stato uno degli ultimi pezzi scritti per Indie-rock.it, dedicato con buona dose di affetto al più recente (per ora) tassello della loro discografia. Non si tratta certo del capolavoro di quella che Scaruffi ha definito “la più importante band di revival di tutti i tempi”, ma in fondo nemmeno prova ad esserlo. Sa che sarebbe inutile. I tempi di ‘American Beat’ o ‘Roman Gods’ sono molto lontani, anche se per un genere come questo, da sempre improntato ad un devoto riciclo del passato, il dettaglio non può che risultare di marginale importanza. Anche con i suoi riempitivi, con gli strumentali non indimenticabili o le cover bislacche, il nuovo dei Fleshtones si conquista una sua ragion d’essere nel suonare vivo e pimpante oltre che perfettamente in linea con quanto ci si aspetta da Peter Zaremba e Keith Streng. Basta che ci siano loro con quell’entusiasmo sempre contagioso, autentico, non drogato dalla ricerca furbetta di pose alla moda, a rendere ogni loro lavoro sufficientemente godibile e degno di essere ascoltato quando si è nello spirito giusto. Tra le note di merito di un album schietto ed ironico come ‘Brooklyn Sound Solution’, con tanto di mini discarica in copertina, va poi ricordata la presenza (non sostanziale, ma gradita) di un altro grande esponente del “Brooklyn Sound” che fu: Lenny Kaye, l’immarcescibile chitarra del Patti Smith Group. Nella recensione ho definito quasi commovente il quartetto statunitense per il suo insistere con ostinazione sugli stessi tasti di sempre, per il replicare fino allo svenimento quell’indole da scoppiati – disimpegnati – tenacemente passatisti guasconi che Zaremba e soci si porteranno dietro fin nella tomba. Alla fine però, a gente adorabile ed instancabile come questa, nessuno potrebbe mai davvero chiedere nulla di più. Né di meno, naturalmente.

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Chronic City  _Letture

      

Non conoscevo Jonathan Lethem. Questo libro l’ho pescato a caso, convinto dalla copertina e dalla fretta inclemente che sempre mi bracca tra gli scaffali delle biblioteche. E’ rimasto a vegetare paziente, nell’attesa che metabolizzassi prima il tomazzo della Oates e poi quello di Asimov, gli ultimi di cui ho scritto qui. Come spesso capita con i romanzi in cui il livello delle aspettative rasenta il terreno sotto i nostri piedi, l’avvio della lettura è stato di quelli folgoranti: racconto in prima persona di un personaggio comune, quindi l’ingresso in scena del memorabile Perkus Tooth, e con lui di una scrittura densa e sufficientemente colta ma senza uno straccio di autoreferenzialità fumosa. Certo la vicenda narrata è un’unica grande nuvola di fumo: niente azione, solo dialoghi o monologhi amabilmente sterili e sempre immancabilmente inessenziali, elusivi, futili e surreali, con una squisita invettiva riservata a certi must culturali del presente, alla letteratura celebrativa, alla fuffa dell’arte contemporanea, alla critica musicale e cinematografica, ai miti invulnerabili. Nel suo fiero scetticismo senza santi e senza padrini, proprio come il suo commovente antieroe, ‘Chronic City’ si è conquistato agevolmente le mie simpatie, riuscendo a conservarle fino all’ultima pagina, nonostante qualche prolissità eccessiva ed un senso di generica incompiutezza. Troppi colpi di scena nelle battute conclusive, ma a ben vedere inevitabili. Ho letto che il capolavoro di Lethem si intitola ‘La Fortezza della Solitudine’, mentre questo libro non gode in realtà di grandissimi favori tra i suoi fan. Io che l’ho trovato particolarmente ispirato ed intelligente in modo romantico, non cinico, non posso che spingere le pretese su quell’altro titolo molto in alto. Staremo a vedere, tempo e biblioteche permettendo.

In una New York frenetica ed animata da strani presagi, il mite Chase Insteadman trascorre la sua tranquilla esistenza da ex star di sitcom televisive di successo tra feste noiose e occasionali incarichi da doppiatore, cercando di far quadrare la propria indole antisociale con il mondo esclusivo ma ultraconvenzionale dell’Upper East Side a lui particolarmente legato in chiave sentimental-compassionevole, visto il suo ruolo ormai ben rodato di fidanzato di un’astronauta costretta da uno sbarramento di mine cinesi al perenne confino nella Stazione Spaziale Internazionale. A stravolgerne certezze e prospettive è l’incontro fatale con Perkus Tooth, malinconico dropout ossessionato da Marlon Brando e dal carattere tipografico del New Yorker, scettico rigoroso, eccentrico critico musicale ed esponente unico di una controcultura anni ’80 miseramente caduta in disgrazia. Tra bufere di neve ed improvvise comparse di una fitta nebbia grigia, indefinibili profumi di cioccolato per le strade e bizzarri ronzii sordi, tigri gigantesche che demoliscono interi isolati salvo poi apparire mansuete in quell’unico estemporaneo incontro notturno sul manto candido, Chase si troverà costretto a ripensare la realtà in cui si muove da anni e a mettere in discussione il senso stesso della propria esistenza “finzionale”, eternamente orientata alle repliche mondane di una “specie di rappresentazione kabuki, un rebus di cuori infranti, una disgrazia che anche un cane avrebbe saputo decifrare”. Rimanendo invischiato nelle allucinate divagazioni colte e nelle cefalee a grappolo del tenero ed indimenticabile Perkus, nella relazione masochistica del protagonista con la cinica ghost-writer Oona Laszlo e nelle sinistre seduzioni di un potere costantemente teso alla mistificazione e all’illusione anestetizzanti (il misterioso sindaco Arnheim e la di lui assistente Claire Carter, il grottesco artista concettuale Laird Noteless, tutti metafore di altrettante “voragini gravitazionali”, “luoghi in cui le speranze altrui erano andate a morire”), il lettore viene coinvolto nella faticosa deriva della coscienza che Jonathan Lethem appronta con abilità innegabile per i suoi due eroi, sorta di Dante e Virgilio post-moderni (non manca l’omaggio a D.F.Wallace, con il ponderoso “capolavoro letterario” ‘Obstinate Dust’ e la relativa strizzata d’occhio ironica a ‘Infinite Jest’) in un inferno di falsificazioni metropolitane, vicoli ciechi intertestuali, “complotti della distrazione” e mondi paralleli degni di William Gibson. Se per il pensatore borderline Tooth l’uscita dal vortice non può che concretizzarsi nella rinuncia estrema alla comunità, come un orso nell’oblio del suo frammento di ghiaccio (con la sola compagnia di un’altra anima reietta), l’ingenuo Chase – un po’ uomo senza qualità, un po’ personaggio in cerca d’autore, un po’ Truman Burbank di ‘The Truman Show’ – sarà costretto alla fine dei giochi a specchiarsi nel disincanto in quanto “mero attore” in una sceneggiatura, titolare di una parte assimilata talmente bene da venire confusa con la vita vera. Inevitabile allora, in un finale che spinge alle estreme conseguenze questo sofisticato gioco di specchi (per giunta deformanti), rendendo pressoché invisibile la frattura tra reale e virtuale, e tra presente e passato, che si volti l’ultima pagina del romanzo sopraffatti dalla confusione e insieme dalla meraviglia. Una Manhattan assai poco alleniana e ben più prossima a certe finezze della letteratura o del cinema di fantascienza è la vera coprotagonista di ‘Chronic City’, un grande ed elegante villaggio Potëmkin con le sue false facciate e le sfarzose scenografie volte a trarre in inganno le fragili difese della percezione, si tratti di Chase Insteadman o del meno avventato dei lettori. Un bel romanzo questo di Lethem, autore davvero bravo nel raccontare cose già viste o già trattate altrove nella maniera più originale possibile. Farraginoso magari, qua e là verboso, ma in fin dei conti affascinante, stimolante e finemente antintelletualistico. Unico difetto: troppe pagine, forse. Con la certezza però che quelle spassose dedicate alle febbrili aste dei calderoni su ebay, oppure quelle strazianti con le lettere di Janice dallo spazio, sono proprio tutto fuorché di troppo.

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Peyton on Patton

       

Quella dedicata al rigoroso omaggio di Josh ‘Reverend’ Peyton al suo personale eroe nell’epopea del Delta Blues credo sia in assoluto una delle migliori recensioni tra le tante che ho scritto. Di certo è una di quelle in cui penso di aver reso con buona precisione lo spirito di un disco, intento che solo di rado si concretizza e non sempre per colpa di chi ha l’onere della critica. Certo quando il materiale da raccontare rivela una coesione assoluta, come nel caso in questione, svelarne l’intima natura diventa un impegno non troppo gravoso e, soprattutto, perfettamente in linea con l’oggetto stesso della propria indagine. Ho avuto più di un problema a scegliere l’album da trattare per Monthlymusic lo scorso mese di luglio: poche uscite, nessuna davvero memorabile, nessuna da artisti in qualche modo “romanzabili” del mio passato. Ho dovuto orientarmi su qualche emerito sconosciuto ma la ricerca è stata comunque rapida, venendo presto rapita la mia attenzione da una foto promozionale della “grande e dannata band del Reverendo”: mise e look a dir poco rustici, ambientazione nei boschi con tanto di suino grufolante, taglie XL dei tre ispidi protagonisti. Quel poco che mi è riuscito di reperire in rete ha fatto il resto, sia sui trascorsi genuini del personaggio e dei suoi sodali, sia sulla figura ormai leggendaria di Charley Patton, sia sulla mission di un album nato come puro atto di devozione quasi mistica, solo voce, chitarra resofonica anni trenta ed una sconfinata passione per la musica delle radici. Non ci sono belletti in questa encomiabile operazione tra il filologico e lo spirituale, così ostinatamente fuori moda da lasciare ammirati. E non è proprio un ascolto facile di questi tempi, anche per il rifiuto categorico di attualizzazione (e relativo snaturamento) dell’opera di uno dei padri dimenticati dell’Americana più verace, country, blues e quant’altro in una sola raccolta. Per chi volesse addentrarsi per pochi minuti in canzoni che sono “altre” per davvero, come non le si scrive e non le si suona da decenni, l’impressione di un salto nel passato profondo tra le paludi del Mississippi è assicurata.

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