Peyton on Patton

       

Quella dedicata al rigoroso omaggio di Josh ‘Reverend’ Peyton al suo personale eroe nell’epopea del Delta Blues credo sia in assoluto una delle migliori recensioni tra le tante che ho scritto. Di certo è una di quelle in cui penso di aver reso con buona precisione lo spirito di un disco, intento che solo di rado si concretizza e non sempre per colpa di chi ha l’onere della critica. Certo quando il materiale da raccontare rivela una coesione assoluta, come nel caso in questione, svelarne l’intima natura diventa un impegno non troppo gravoso e, soprattutto, perfettamente in linea con l’oggetto stesso della propria indagine. Ho avuto più di un problema a scegliere l’album da trattare per Monthlymusic lo scorso mese di luglio: poche uscite, nessuna davvero memorabile, nessuna da artisti in qualche modo “romanzabili” del mio passato. Ho dovuto orientarmi su qualche emerito sconosciuto ma la ricerca è stata comunque rapida, venendo presto rapita la mia attenzione da una foto promozionale della “grande e dannata band del Reverendo”: mise e look a dir poco rustici, ambientazione nei boschi con tanto di suino grufolante, taglie XL dei tre ispidi protagonisti. Quel poco che mi è riuscito di reperire in rete ha fatto il resto, sia sui trascorsi genuini del personaggio e dei suoi sodali, sia sulla figura ormai leggendaria di Charley Patton, sia sulla mission di un album nato come puro atto di devozione quasi mistica, solo voce, chitarra resofonica anni trenta ed una sconfinata passione per la musica delle radici. Non ci sono belletti in questa encomiabile operazione tra il filologico e lo spirituale, così ostinatamente fuori moda da lasciare ammirati. E non è proprio un ascolto facile di questi tempi, anche per il rifiuto categorico di attualizzazione (e relativo snaturamento) dell’opera di uno dei padri dimenticati dell’Americana più verace, country, blues e quant’altro in una sola raccolta. Per chi volesse addentrarsi per pochi minuti in canzoni che sono “altre” per davvero, come non le si scrive e non le si suona da decenni, l’impressione di un salto nel passato profondo tra le paludi del Mississippi è assicurata.

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