Beautiful Losers                                            _Letture

       

Erano diversi anni che volevo cimentarmi con il Cohen romanziere. La familiarità con i suoi dischi e con alcune delle sue poesie, oltre alle critiche incoraggianti di ‘Beautiful Losers’ e dell’esordio ‘Il Gioco Preferito’, hanno solleticato in me quella certa curiosità pur senza spingermi mai veramente ad una verifica. Incrociati distrattamente in biblioteca, ad agosto li ho recuperati entrambi portandoli con me in viaggio e fronteggiandoli poi abbastanza rapidamente. Un po’ più lenta, ad essere sinceri, la lettura di questo testo, scritto per ultimo dal cantautore di Montreal ma affrontato da me – chissà poi perché – per primo. Promettente da principio, ma proprio soltanto le prime cinquanta pagine, poi via via più difficoltoso sino a costringermi ad un certo sforzo finale per non vanificare le impressioni discrete dei primi momenti. Cohen è qui originale ed insieme prossimo a certi stereotipi beatnik, colpisce sul piano formale per la disinvoltura caotica dell’intreccio ma di emozioni ne trasmette davvero poche. Come nel primo romanzo la sua prosa è lirica. In ‘Beautiful Losers’ è anche più ardita, sperimentale, cruda, splendidamente sorretta dal poeta che alberga in lui ma senza evitare al libro nel suo insieme di avvolgersi in una spirale fredda, ripetitiva ed anche noiosetta. Si conservano alcune buone immagini, si salva qualche passaggio lucido ed incisivo, ma al di là di questo il romanzo non entusiasma come avevo sperato, tutt’altro. Certo Cohen ci sapeva fare anche con la scrittura. Ne ho avuto conferma soprattutto quando è stata la volta di ‘The Favourite Game’. Ne parlerò a breve.

Un lungo, discontinuo e febbrile stream of consciousness infarcito di ricordi dolorosi, provocazioni paranoiche, fantasie misticheggianti ed apocalittici deliri da droghe a basso costo, con al centro l’oscuro triangolo erotico tra il narratore, la moglie Edith ed il misterioso amico d’infanzia F, sviscerato senza filtri ed intrecciato con ardita libertà alle invocazioni alla santa irochese Catherine Tekakwitha. I piani logici e temporali sono presto sacrificati all’urgenza di un’estetica anarchica, bizzosa, grondante e sfuggente, con le ossessioni della sfera sessuale a dominare le prospettive di tutti i protagonisti legandole inesorabilmente. Citando l’autore in una delle lapidarie massime seminate nel testo, “una dieta a base di paradossi fa ingrassare l’ironista ma non il salmista”: è vero anche per gli eccessi visionari di questo secondo ed ultimo romanzo del grande cantautore canadese, così caustici, insinceri e freddi nella loro crudezza da disturbare.
La chiarezza narrativa rimane un’illusione costruita nelle primissime pagine – quando al lettore vengono forniti i pochi indizi sostanziali (la solitudine del protagonista, la scomparsa dell’influente compagno, il suicidio della moglie) – ed in seguito sconfessata dalle sistematiche discontinuità nel racconto, dai frequenti resoconti sulla vita della santa, dai salti schizofrenici tra presente e passato, immaginazione allucinata e ricordo dettagliato, che trasformano la storia in un torbido e agitato oceano senza approdi, denso di simbolismi e volutamente inospitale. La seconda parte sembra voler rovesciare il disperato solipsismo della prima facendo luce sui tanti nodi oscuri della vicenda, ma finisce con il proporsi come lo specchio deformante della grottesca realtà già evocata in precedenza: poche nuove informazioni sulla criptica figura di F (da orfano carismatico a parlamentare nazionalista e bombarolo internato) ed il completamento delle cronache sulla vita della vergine indiana, affogati in un ridondante tripudio di inserti incoerenti e alla lunga stucchevoli. A parte i frangenti in cui l’irriverenza dello sberleffo fa centro, elevando nell’ironia surrealista una prospettiva ermetica alquanto ostica, ‘Beautiful Losers’ si conferma un lavoro sullo stile interessante ma assai difficile da assimilare e digerire, ripetitivo e mai davvero coivolgente. Ci sono passaggi, specie quelli più convenzionalmente influenzati dalla letteratura beatnik, in cui Cohen paga qualcosa in termini di ingenuità o di eccessiva pesantezza, ma questo non nega al libro – sul piano formale – un carattere di stupefacente modernità ed una apprezzabile tenuta nel tempo. A salvare questo anomalo romanzo dalle secche dell’anonimato dei senza infamia e senza lode è comunque soprattutto l’eccelsa qualità di Cohen come paroliere, davvero illuminante nel plasmare immagini straordinariamente poetiche quasi dal nulla, senza scivolare nell’intellettualismo sterile o fumoso che una simile materia potrebbe facilmente innescare.

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