Middle Cyclone

 

L'ho scritta per Monthlymusic, è stata la mia prima rece per il nuovo sito e alla fine ho avuto l'impressione (errata) di non aver detto nulla di questo album. Dovevo scriverla anche per Indie-rock, fermamente deciso a parlarne più in dettaglio e screditare con la forza delle parole il report uscito per Ondarock, un bozzettino che gridava vendetta a mio parere. Non ho avuto modo di scriverla perché, per una sovrapposizione, mi ha anticipato un'altra persona. Bene, se quanto riportato su or mi erano parse le sbrigative e svogliate considerazioni di un critico che probabilmente ha ascoltato il disco mezza volta, affidandosi alle press paper e liquidandolo in buon ordine con un sei rancino (di quelli che oramai si riservano solo ai pezzenti), vi lascio immaginare il mio stupore dopo aver letto la recensione uscita sul nostro sito, praticamente la versione bignami di quell'altra. Delusione. Una Neko Case che coraggiosamente mette da parte gli standard folk più o meno giustamente ritenuti barbosi (ma esaltati dalla critica, e mi ci metto anch'io) dei dischi precedenti per provare a rendere le sue ricette appetibili anche a chi non è avvezzo ai circuiti indipendenti. Un lavoro che ha la complessità, soprattutto la varietà, della scrittura di questa eccellente autrice statunitense ma si propone in un uno sforzo encomiabile di accessibilità, facendo centro peraltro (è entrato nella top ten statunitense, anche se per poco) ed evitando gli scivoloni commerciali. Cose del genere non capitano molto spesso, io trovo che abbiano del miracoloso. Or non la pensa così e ci può stare, anche se la mezza bocciatura è di quelle che mi lasciano sempre molto perplesso (l'indipendente che prova a essere per una volta un po' meno indipendente decisamente non fa figo). Assai più deprimente è stato quell'abbozzo di recensione pubblicato in casa nostra, una scopiazzatura penosa dell'opinione del tizio di or (stesse etichette per le varie canzoni, stesse identiche espressioni conficcate qua e là, stessi identici abbinamenti dei brani) che per una volta ci ha fatto sfigurare anche in termini di originalità rispetto ai nostri "competitors" (va bene chiamarli così? Massì, tanto noi vinciamo comunque ;P). Questo non per magnificare quanto avrebbe scritto il sottoscritto, anzi, probabilmente sarebbe stata la solita schifezza prolissa e stracotta…è che non va bene accodarci alle altrui opinioni, specie in un modo così poco limpido e raffazzonato. Tutto questo preambolo mi toglie la voglia di scrivere effettivamente qualcosa in più rispetto a quanto riportato con qualche svolazzo di troppo su Mm. Lì non mi sono dilungato sui singoli brani e forse è anche meglio così. Il succo comunque credo di averlo tirato fuori: 'Middle Cyclone' è un album fiero, coraggioso, estremamente passionale e sincero. Scritto benissimo, con una partenza strepitosa ed una generale agilità assolutamente ammirevole, al di là di qualche comprensibile macchia di maniera, un'ombra appena. E' un bellissimo album, molto femminile, molto schietto anche nella propria istintiva e genuina vitalità. Un'opera importante per come ha cercato di arrivare a più orecchie possibili, senza cedere di un millimetro al compromesso. Il recensore di Pitchfork questa cosa l'ha capita e lo ha presentato ai lettori con un 7.9, praticamente il voto (8) che avrei dato io stando ai parametri di Ir. Ma non sono i numeri il dato più importante, ancora una volta. E' la freschezza del disco, incredibilmente perfetto per quando ci è arrivato tra le mani (Marzo). Peccato che in pochi lo abbiano apprezzato per quel che è, forse perché in pochi devono averlo effettivamente ascoltato. Ah, dimenticavo: Neko canta divinamente, anche se questa non è certo una sorpresa.

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Ira in incognito
 
E così anche gli Yo La Tengo si sono tolti lo sfizio di licenziare il loro disco garage di serie Z. Hanno già fatto un po’ tutto in venticinque abbondanti anni di carriera. Studiato e insegnato quattro decadi di musica popolare americana, codificato l’indie-rock più puro, prima che venisse sbertucciato dalle formule stantie di una convenzionalità britannica in caduta libera. Hanno mantenuto una loro disciplina e una loro autenticità, grazie alle quali sono sempre riusciti a dondolare al di sopra di una fantomatica linea di galleggiamento qualitativo. Recentemente hanno scelto di rivisitare un certo numero di classici, anzi di "assassinarli", si sono prestati per le colonne sonore di film decisamente indipendenti e per qualche curiosa deriva sperimentale. Per non restare fermi tra un album e l’altro ora ripiegano su una passione giovanile evidentemente mai sopita, il garage, registrando alla buonissima un LP utile a fissare su nastro umori e vezzi assolutamente transitori ma genuini, una controfigura selvaggia delle meravigliose e notturne alchimie sonore a marchio DOC Y.L.T.
Fuckbook va letto in questo modo come l’intera proposta Condo Fucks, invero una completa elusione. Una finta, una mascherata in stile ‘Ritorno Al Futuro’, un salto all’indietro a recuperare barlumi di innocenza rock per indagare sulle origini della propria passione. In tal senso l’operazione è meritoria anche nell’evidente funzione di alleggerimento. Un diversivo senza pretese ma con una sua importanza. Certo lasciando la parola a queste undici fulminee tracce l’impressione è più quella dello scherzo, se non si hanno ben chiari i retroscena. Quella di pezzi come ‘What’cha Gonna Do About It’, ‘Accident’, ‘Come On Up’ e ‘Gudbuy T’Jane’ è una band inesistente rispolverata da un passato mai esistito. Ma non è questo che conta. E non è importante nemmeno la forma, intenzionalmente approssimativa se non scadente. E’ rock pestone da quattro soldi, fracassone alla Wild Billy Childish (di cui replica una certa commovente purezza). Si fa molta fatica all’inizio a intuire anche solo che sotto quel denso groviglio di riverberi, quella bagna e quegli schizzi elettrici in bassissima fedeltà, è la mitica band di Hoboken a sudare. A seconda dei punti di vista, ‘Fuckbook’ può passare per uno spregevole prodotto di inqualificabile imperizia tecnica o per una divertente e sana pausa dal sapore casalingo. Io propendo per la seconda opzione anche se l’ascolto mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca: passi per la rinuncia ad ogni abbellimento formale e alla veste più onirica e delicata della band di Kaplan, passi per un genere che riesco a digerire con notevole tolleranza e sopportazione, passino tutte quelle sporcizie noise, i feedback altissimi, le voci sepolte, gli assoli di raro grezzume e via dicendo. La confezione povera però mi sembra più difficile da accettare perché in ‘Fuckbook’ c’è davvero troppa rumenta sonora. La mia impressione è quella di un gruppo che si è divertito moltissimo a suonare queste canzoni, mentre per chi si limita a goderne in cuffia il giovamento è assai ridotto. Sarebbe bello seguirli dal vivo gli Yo La Tengo della temporanea incarnazione sbracata, allora sì sarebbe un piacere. Su disco tuttavia, con queste registrazioni, tutti i brani perdono moltissimo.
Non mancano gli episodi in cui la penalizzazione subita dalle scelte fatte a livello tecnico hanno un peso minore. In ‘This Is Where I Belong’, ad esempio, la selva rumoristica si dirada di quel tanto da lasciar intravvedere per sommi capi i lineamenti musicali degli autori, per quanto il livello sonoro rimanga quello di un bootleg neanche tra i migliori in circolazione. Ancora meglio è ‘With A Girl Like You’, con le chitarre finalmente forti e chiare. I ‘popopo’ delle voci di Kaplan e McNew, già di loro tutt’altro che poderose, restano comunque quasi impercettibili e si riconosce esclusivamente Georgia, che affiora da un fondo di silenzio ad intermittenza. Interessanti i due episodi di ‘Shut Down’, quasi versioni povere di quelle contenute nella raccolta ‘Yo La Tengo Is Murdering The Classics’, cui si accennava in apertura: suonano anni ’50 e danno un’idea dell’abilità mimetico-revivalista della band, anche se il vestito rimane quello miserabile del resto dell’album. Il lato ludico e tagliente di questa esperienza si apprezza maggiormante in brani come ‘The Kid With The Replaceable Head’ e ‘So Easy Baby’, tra chitarre affilate ed un gusto per i coretti che fa tanto seventies, in zona punk-pop anche se fuori tempo massimo. Resta la curiosità sulle possibili implicazioni di questa manciata di nuovi pezzi: dal vivo dovrebbero essere sufficientemente divertenti, offrendosi come discreta variante ad un repertorio peraltro già consistente e policromo. Non sfigurerà di certo ‘Dog Meat’, rock’n’roll classico, scattante e citazionista, che si guadagna a mani basse la palma di miglior titolo del lotto, con una Georgia che pesta alla grande. Sì, potrebbe essere fantastica in concerto.
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Client @ Spazio211

07-05-2009

  

Un po’ plastificato e bambolesco il viso di Sarah Blackwood al concerto delle Client. Ogni sera deve essere così, purtroppo per lei. Ero lì esclusivamente come curioso e per recensire il live, per cui non è che mi aspettassi granché. Dalla musica soprattutto, anche se pensavo che come esperienza sarebbe stata più divertente. Invece no, la resa acustica è stata per due terzi di set abbastanza scialba, piatta, falsa e senza sfumature. Giocoforza per l’ascoltatore ed osservatore presente con assoluta imparzialità, per una volta, l’unico ripiego consisteva nel vivere la performance proprio dal punto di vista non strettamente musicale. Il piano attoriale, diciamo. E’ stato interessante e grottesco insieme, per come si è svolto, per il pubblico che c’era, per i meccanismi ripetitivi sin quasi alla farsa che un simile concerto non può che tradurre in ritualità, fasulla e plastificata appunto, eppure non priva di un suo lato bizzarro e affascinante. Voyeurismo a manetta, che si vorrebbe chic ma qui da noi fa irrimediabilmente un po’ di tristezza. Spettatori emozionati per una mossetta, per una posa maliziosa, per dei guanti neri, intenti a rimbalzare i propri feedback emozionali (?) sulle Client in una sorta di triste danza delle parti, recita sopra e sotto il palco. Molto belle le tre attrici protagoniste, invero una soltanto, la diva Sarah. Un po’ allucinante tutto quel trucco sulla faccia, parossistico e smascherato dall’inevitabile e copiosa sudata. Faceva già molto caldo di suo, presentarsi con la terribile divisa invernale ha peggiorato le cose. E così la scaletta bagnata, a fine serata, non emanava proprio un gradevole aroma di violette… Pazienza, in quanto a generosità non si possono criticare le tre ragazze inglesi. Meno valida è stata proprio la prova musicale, ma ho avuto immediatamente l’impressione che quella non fosse la dinamica cruciale di questa e di tutte le loro esibizioni. Uno spettacolo doveva essere e in un certo è stato. Verso la fine poi anche in termini espressivi le cose hanno iniziato a funzionare, per cui abbiamo avuto un assaggio di quello che dal vivo le Client possono fare. Certo senza tutta la cornice di provocazioni all’acqua di rose non staremmo neanche qui a parlarne: di gruppi electropop ce ne sono tanti, anche migliori, e nemmeno ci interessano così tanto da andarli a seguire in prima fila nel caldo asfissiante di un salone chiuso e pieno zeppo di gente. C’è il lato teatrale, la cerimonia nel rapporto coi fan. Ma così ferreamente codificato resta un gioco tutto sommato angosciante, visto da fuori. Impossibile non chiedersi come Sarah e le altre riescano a tirare avanti senza stancarsi.

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Sara Lov @ Spazio211

02-05-2009

 

La recensione del concerto di Sara Lov a Spazio ha portato ad un piccolo scambio di opinioni con i gestori del locale. Nell’introdurla provavo a valutare dopo un po’ di serate già in porto l’iniziativa "Up To You" promossa dal locale di via Cigna in questa fetta di stagione, aprendo i concerti del sabato sera a tutti in cambio di un’offerta libera (e valida già a partire da una manciata di centesimi di euro). Ho parlato bene di questa opzione coraggiosa ed apprezzabile, spingendomi a condannare piuttosto tutti coloro che approfittano di una simile opportunità per presenziare a spettacoli di cui poco gli frega, sentendosi poi legittimati a fare casino. Ho scritto di "ampi spazi vuoti", evidentemente sbagliando, perché mi è stato poi comunicato che i presenti erano 370. Ma sull’analisi e la condanna di certi comportamenti non posso ritrattare alcunché, dato che il risultato è quello di un bel concerto per lo più guastato da un manipolo di irriducibili idioti. Certo non ho i mezzi per capire chi siano tali personaggi, anche se in questo i gestori mi hanno indirizzato su individui insospettabili da cui sarebbe lecito aspettarsi altri comportamenti (discografici, promoter, giornalisti più o meno affermati). Non ho ragione di dubitarne e infatti ci credo, i più arroganti sono spesso proprio quelli che dovrebbero dare il buon esempio. Spiace, perché Sara non ha gradito molto un sottofondo di voci cialtrone, risate, fischi da stadio. Dovevano bastare la chitarra acustica, il violoncello e la tastiera, nient’altro. Per fortuna serate successive sono andate decisamente meglio da questo punto di vista, ad esempio il bellissimo live di Marissa Nadler. La suddetta recensione si raggiunge dalla seconda immagine. La prima, come sempre, va alla rassegna fotografica.

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With The Saint Four EP

Per una volta ho voluto esser buono. Questo EP inaugurale dell’ennesimo nuovo corso musicale per il forlivese Stiv Cantarelli mi ha detto veramente poco. Il tizio della casa discografica che mi ha spedito il CD è stato gentilissimo, la confezione è la stampa sul CD sono molto carine, la copertina mi piace e poi si parla di italiani che cercano fortuna all’estero, dove già si sono conquistati il rispetto di artisti di prima grandezza. Insomma, vuoi per questo motivo, vuoi per quello, non me la sono sentita di affondare il colpo. Gli elementi positivi non mancano in questo mini dei Saint Four: c’è una grinta discreta, si sente un certo amore per il proprio mestiere, il taglio è veramente indipendente pur nel rispetto massimo, quasi ossequioso, dei classici. A mancare sono le canzoni, purtroppo. Si riprende un po’ il Dylan migliore, si scopiazzano i Beatles del crepuscolo rock (‘Dig A Pony’ clonata da ‘The Killer’), si cerca l’attitudine blues-root-southern di alcuni mitici gruppi yankee ma il risultato è oltremodo freddino, laddove le premesse richiederebbero un bel miscuglio di sangue e polvere. I Freewheelers sono un indubbio riferimento, e anche molti altri dopo di loro, ma quel che emerge è una pallida imitazione, lo spirito non si vede. E poi che brividi con la prima traccia (‘The Country You Were Born’), nel sentire quasi plagiata ‘Gli Spari Sopra’! Voglio dire: OK che puntate a farvi notare negli States e che laggiù questo orrido caprone non sanno minimamente chi sia, ma…insomma, se è per scopiazzare, puntate un minimo più in alto! Questo per tirare in ballo i meno che ho annotato sulla carta preparando questa recensione. Ci sta. Coi Satellite Inn Cantarelli ha fatto molto meglio, quindi è lecito che al primo vero album non resti su questi livelli creativi col fiato corto. E poi ha i suoi meriti a prescindere, per il fatto che ha preferito sudarsi quel poco che ha senza scendere a compromessi col mercato italiano, che di alt-country e rock-blues non ne mastica proprio. Riassumendo, un sei politico al personaggio e alla carriera più che a questo dischetto. Capita che gli album ricevuti "a sorpresa" lascino un po’ il tempo che trovano, ma nello stesso pacchetto di un ‘With The Saint Four EP’ magari ti arriva un disco come quello dei Woodpigeon, e allora tutto si riequilibra meravigliosamente. C’è la calma piatta e ci sono le cose belle, come la fantastica sorpresa dei canadesi. Ma questa è tutta un’altra storia e la racconterò un’altra volta. Presto.

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Bonnie Prince Billy @ Espace

28-4-2009

 

Doveva venire a settembre. Inaugurazione di questa grande stagione a Spazio, evento gratuito, troppo bello per essere vero. E infatti alla fine non se ne fece nulla. Rimpiazzato da Lydia Lunch in quell’occasione, il suo nome tornò a far capolino nei calendari eventi italiani dopo pochissimo, per una serie di tre concerti autunnali in altrettante chiese del milanese. Idea suggestiva, peccato che se ne sia saputo qualcosa a giochi fatti. Viste le strategie promozionali carbonare di quella fetta di tour, abbiamo seriamente pensato che Will Oldham ce l’avesse con noi. Ci ha smentito presto, con nuove date ed una riparatoria proprio a Torino. Spazio troppo piccolo per contenere tutti, data anche l’assenza di un ulteriore appuntamento meneghino, e quindi location spostata alla Sala Espace di via Mantova, luogo solitamente utilizzato per spettacoli teatrali. Coi giorni è cresciuta l’attesa. E’ arrivato ‘Beware!’ come disco delle conferme, sempre più pacato, sempre più tradizionalista, all’apparenza, sempre più country folk. E alla fine è arrivato anche lui, il principe, con bella banda al seguito e accompagnamento di una nuova amichetta scandinava. Anche Bonnie Prince Billy non si è sottratto a quella che, ultimamente, pare essere diventata la regola preferita dagli artisti folk in sede di concerti: lo spiazzamento. Ci aspettavamo una replica delle atmosfere degli ultimi due o tre album: delicate, eleganti, un po’ pallose per qualcuno. Lui ha scelto un approccio molto più vitale e diretto, suonando alcuni dei suoi grandi classici (‘A King At Night’, ‘Horses’, ‘Just To See My Belly Home’) con piglio decisamente rock. Molto bene così, anche se in termini acustici l’esibizione ne ha risentito. La sua voce arrivava a folate, non si distinguevano le parole nei passaggi più concitati. Non si può avere tutto nella vita, vien proprio da dire. Comunque bel concerto, generoso, appassionante. E lui è un grandissimo. Un mezzo pazzo, assolutamente. Timido prima, poi fuori di testa, carismatico dove non lo aspetti. E un musicista coi fiocchi. Va beh, questo lo sapevamo.

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Micah P. Hinson @ Spazio211

23-4-2008

 

Quello del piccolo cantautore del Texas è stato il concerto più sorprendente della stagione. Mi aspettavo una cosa tranquilla e snobbata dai più e invece ha totalizzato più presenze di qualunque altra serata nel locale di via Cigna. E il merito è tutto suo, Casador non ha portato spettatori o ragazze adoranti. E’ bastato questo anomalo folksinger a fare il pienone. Come sia stato possibile non è chiaro, ma a questo punto è innegabile che il fascino un po’ controcorrente di Hinson abbia contribuito a costruire un piccolo ma significativo culto in Italia, tra i fan della musica alternativa. Il suo nome gira da tanti anni ed è stato legato anche a piccolissimi locali in piccole cittadine. Di lui conoscevo bene i primi due LP, molto belli (soprattutto ‘The Gospel of Progress’), mentre ho recuperato ‘The Red Empire Orchestra’ con notevole ritardo. Anche questo è un buon album, con alcune canzoni decisamente emozionanti. Con la pazza sfuriata chitarristica iniziale Micah ha chiarito, senza equivoci, di che pasta è fatto: soprattutto dal vivo non bada alla bella forma perché è solo la sostanza che conta. Amici poco avvezzi col genere non hanno gradito troppo il concerto ma io ne sono uscito entusiasta. La generosità del cantante di Abilene mi è parsa inopinabile, anche la sincerità della sua prova. Ho percepito una bella coincidenza arte/vita, che non è proprio un elemento scontato quando si segue la musica dal vivo. Micah ha recitato se stesso con devozione assoluta e in tal senso non ha mentito. Perfetta aderenza alla dimensione estetica che da sempre lo caratterizza: spleen alcolico, maledettismo con lieto fine, sudismo schietto e fintamente polemico, dandysmo in pillole, eccentricità adorabili, rock’n’roll come ragione di vita. Queste cose tutte insieme fanno un ritratto bizzarro ma potente, come Micah e le sue canzoni. Può non piacere ma forse questo dipende anche da come ci si cala nel gioco. Performance così borderline richiedono di essere valutate tra le righe, necessitano di uno strumento interpretativo non complesso ma essenziale perché il tutto venga gustato con il corretto e disimpegnato entusiasmo. Un po’ come gli occhiali di carone a lenti rosse e verdi per i film o i fumetti in 3D. Adeguandosi a questa prospettiva si ha poi la sorpresa della scoperta dell’autenticità assoluta della proposta. Per me Micah è veramente un cantante genuino. Un piccolo Kaspar Hauser folk-blues. E fa anche tenerezza nell’ostinazione dei suoi atteggiamenti, compreso il romanticismo smielato nelle dediche alla scazzatissima moglie. Tra le altre cose ha fatto ‘Caught in Between’, ‘Close Your Eyes’, ‘Tell Me It Ain’t So’, ‘Beneath The Rose’, ‘Dyin’ Alone’ e ‘Patience’, tutte insieme. Il top resta il medley pazzesco tra ‘Diggin’ a Grave’ e ‘You Will Find Me’: uno scalone tra generi formidabile e rumorosissimo.

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Devi…o non Devi?

 

Non troppo originale l’esordio dei Devi, trio pop-rock di stanza nel New Jersey. Difficile trovare motivi di grande interesse nel loro ‘Get Free’, per quanto la prova sia discretamente godibile e la voce della leader, la cantante e chitarrista Debra che ammicca in copertina, si riveli comunque apprezzabile. Il mio scetticismo non riguarda la qualità in sè di queste undici canzoni, quanto piuttosto l’urgenza di questa nuova proposta, tutto sommato prossima allo zero. Ascoltando il pezzo introduttivo, il singolone di lancio ‘Another Day’, potreste comprendere meglio ciò che intendo. Sembra una canzone delle Hole direttamente da ‘Celebrity Skin’. Forse la miglior canzone che Courtney Love (non) ha scritto da quei tempi lontanissimi. Ecco, è un brano pimpante e ben costruito, cattivo solo di facciata per strizzare l’occhio alle teenager incazzate col mondo, coi suoi riff elementari ma indubbiamente efficaci e la voce della ragazza in primo piano. Sarebbe tutto a posto, non fosse che questa canzone bussa alla nostra porta con una dozzina buona di anni di ritardo. Se ‘Get Free’ fosse impostato interamente in questo modo sarebbe da cestinare senza pensarci troppo su ma fortuna ha voluto che questi ragazzi si siano affidati per la produzione ad una vecchia volpe come Anthony Krizan, già chitarrista degli Spin Doctors, il che ha rappresentato per il suono della band una garanzia sufficiente in termini di varietà. Già il secondo brano, ‘When It Comes Down’, sterza verso un’atmosfera più meditativa, non malvagia, che a qualcuno ha fatto venire in mente la Sheryl Crow meno bolsa mentre a me ricorda la Neko Case battagliera (e da classifica) dell’ultimo disco, paragone che, senza dubbio, gioca a tutto favore dei Devi e della loro cantante. Abbastanza in là nella tracklist, ‘Welcome To The Boneyard’ e ‘Get Free’ confermano che la dimensione più pacata ed intensa è quella che meglio si addice al gruppo: congeniale alla bella Debra per far risaltare in profondità la sua voce, idonea anche quanto a scrittura per colorare di sfumature le canzoni e risultare più credibili, meno caricaturali.

Questa è la direzione in cui i Devi dovrebbero lavorare per il prossimo passo discografico, sempre che ce ne sia uno (io propendo per il sì visto che il materiale artistico a disposizione è grezzo ma interessante). Attualmente, a parte i titoli citati e una cover di Young (‘The Needle and The Damage Done’, sì, come al solito) controllata ma personale, eseguita con una certa passione, non si può negare che i risultati di questo lavoro abbiano il fiato un po’ corto: il compromesso tra rock pompato (‘Demon in The Sack’) e addolcimenti indigesti (‘Runaway’), gli aromi orientali più improbabili (scelti per infiocchettare il pop leggero di ‘Howl at The Moon’) e qualche rallentamento orchestrato ad arte (ma irrimediabilmente piatto, vedi ‘Love That Lasts’) rafforzano l’impressione di un prodotto abbastanza scontato pur se in confezione lussuosa, con qualche chance nei circuiti mainstream più che in quelli alternativi. Se ne cercate la (drammatica) conferma definitiva, skippate i pezzi peggiori e saltate direttamente alla quinta traccia, l’assurda ed emblematica ‘C21H23NO3’: potrebbe quasi regalarvi un accenno di sorriso, col suo basso sinuoso, le sue percussioni morbide e quel ritmo vagamente funky…potrebbe, perché il clima curioso si spegne con l’ennesima svolta verso il rock da MTV e la freschezza torna ad essere infettata dal forte sapore di postdatato. Lo conferma anche l’innocua ‘All That I Need’: questo disco è scaduto alla fine del ’97 e in quell’anno avrebbe potuto fare sfracelli. Oggi le cose sarebbero diverse ma se ci rifacciamo al principio per cui tutto ritorna…

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Dalla Portland che non ti aspetti…

 

Quante volte abbiamo sentito parlare di Portland in riferimento a tanta bella musica più o meno indipendente? Sta diventando il centro di una vera e propria scena, uno dei nuovi punti di riferimento per l’indie ed il folk di questi ultimi anni. Quando ho letto che anche Chriss Sutherland è di Portland non ci ho neanche fatto caso, per i motivi di cui sopra. In questo contesto, l’ennesima rivelazione del folk statunitense casca a fagiolo e sembra perfettamente inserito, ultima di tante efficaci sensazioni venute fuori dall’Oregon. E invece no, un dettaglio sfugge. E’ Portland sì, ma quella che sta dall’altra parte, quella del Maine. Allora ecco, i conti sembrano non tornare affatto. Da dove nasce questa schietta vena cantautoriale, febbrile ed infettata da un’anima che diremmo profondamente latina? Spostato un po’ a sorpresa sulla costa atlantica, Chriss Sutherland assume i più vividi contorni del fulmine a ciel sereno. Andiamo con ordine. Questo ‘Worried Love’, secondo album in proprio dopo alcune esperienze di gruppo che lo hanno visto in campo addirittura per la Young God del grande Michael Gira, parte con ‘Flaking The Hands’ all’insegna di un folk croccante ed appassionato, che integra una trama di chitarra alquanto serrata ad un’altra più aggraziata, mescolando anche la voce calda e un po’ ruvida del cantastorie ad una femminile che ingentilisce il tutto. E’ una formula che ritroveremo di continuo anche nelle tracce seguenti e che rappresenta al meglio l’umore e il carisma di questo artista, tra fragranze sixties west coast che fanno tanto Tim Buckley ed un’indole caparbia e molto autentica. ‘What Are We Gonna Do Now?’ insiste con la medesima impostazione ma ha un aspetto ancora più classico e Dylaniano: pianoforte a supporto, un’elettrica che illumina e lascia il segno anche senza farsi lancinante, l’intatta capacità di conquistare al primo ascolto (e non è da tutti) grazie ad un bel respiro, alla franchezza e all’assenza di urticanti sovrastrutture intellettualistiche. Non ci sono i belletti formali fasulli che spesso i folksinger emergenti adottano strizzando l’occhio al pubblico più facile e meno esigente. Prevale una spontaneità che è sufficiente per non far pesare questi oltre sei minuti, rendendoli leggeri e traducendoli in un bel trasporto per chi ci si abbandona, senza rischi di prolissità.


Le premesse sono dunque molto positive e  ‘New Morning Pine St.’ aggiunge un ulteriore tassello al mosaico della benemerenza di questo sconosciuto Sutherland, virando verso fraseggi ancora più scarni e personali, bagnati da uno spleen comunque sincero e non incline al compromesso con il maledettismo di comodo. Ci sta simpatico Chriss, uno che porta le sue canzoni senza curarsi troppo di come vanno il mondo e le mode. Potrà piacere agli estimatori di Devendra e della New Weird America tutta, non fosse che il barbuto del Maine se ne sta per conto suo al di là di etichette e movimenti forse già sfumati prima di nascere seriamente, prima di poter rappresentare qualcosa più che il mero esercizio di una critica a corto di fantasia. Il disco parrebbe a questo punto aver assunto una propria fisionomia ben delineata ma con ‘Volando Voy‘ arriva uno scossone inatteso: un’immersione completa nell’ambito della canzone messicana, con risultati che vanno ben al di là della trita estetizzazione rilasciando un’interpretazione vera, sentita, caldissima. Al primo ascolto mi sono venuti in mente i Gipsy Kings, e qui ripropongo il nome in mancanza di riferimenti più colti in quell’ambito, data la mia assoluta ignoranza. Chriss è decisamente rustico, perfino un po’ sguaiato, ma si cala nella parte con ammirevole convinzione evitando scivoloni caricaturali e senza lasciar trasparire il minimo calo di tensione. Una meraviglia anche in termini di credibilità (non era facile), quasi a voler far intendere l’esistenza di una seconda anima musicale, sin qui tenuta ben celata all’orecchio dell’ascoltatore per rendere più completa e potente la sorpresa. Qualche minuto più avanti la pacata ‘El Tiempo’ ripropone il folksinger nei panni del charro emotivo e viscerale, confermando la sua preziosa versatilità anche con soluzioni meno accese e più eleganti.

Il resto di ‘Worried Love’ mostra un autore più controllato e capace di limitarsi evitando coloriture espressive eccessive, lasciando valide garanzie sulla propria accresciuta maturità dopo appena due album a proprio nome: ‘Desde Alicant’ ricalca nella sostanza i il ritmo caliente dei brani iniziali ma ha in più alcuni congrui interventi corali che gli consentono di rifiatare; ‘My Mind Blues III’ è più intima, senza fronzoli, semplificata forse, un pelo meno coinvolgente (e più convenzionale), ma ci consegna un’immagine inedita e più rassicurante del cantautore. Prima della chiusura, rileviamo sugli scudi ‘Jolie Holland’ e ‘Without Much Time’. La prima è un intenso omaggio all’omonima cantante, realizzato miscelando in maniera indovinata acustico ed elettrico, ricorrendo ad un assolo alcolico e bislacco, spargendo buoni riverberi sullo sfondo e rendendo in tal modo più viva ed inquieta la canzone (la voce fa fatica qua e là ma in fondo conferma la natura genuina del progetto); la seconda è il più felice compromesso dell’intero disco, una cartolina potente ma non macchiettistica, classica ma personalissima, squillante e meditativa al tempo stesso. ‘Hey Justice’, in coda, è l’unico passo falso dell’album, un lunghissimo e spigliato fraseggio preparatorio che non esplode come da attese ma si smorza un poco per volta evaporando, senza rilasciare veramente tutta la propria tensione. Una piccola delusione forse, un passaggio irrisolto. Ma fosse stata l’ennesima grande intuizione di ‘Worried Love’ non staremmo semplicemente qui a parlare di Chriss Sutherland come del promettente nome nuovo dalla Portland che non ti aspetti.

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Volcano! @ Spazio211

09-04-2009

  

Ennesimo appuntamento imperdibile in questa entusiasmante stagione allo Spazio. I Volcano! confermano pienamente fama e aspettative di folli tarantolati a cavallo tra i generi, ed una libertà espressiva che cattura cifre ed umori dai più svariati indirizzi (noise, punk, psych, post-rock) convogliandoli in una formula quanto mai genuina e poco decifrabile. Non ha senso che io aggiunga particolari considerazioni a quelle che Iuri ha espresso con eccelsa sintesi nella recensione che trovate cliccando sulla seconda fotografia. Di mio riporto il rammarico per un’acustica che ha un po’ disinnescato la prova del trio dell’Illinois, se non nell’impatto (che è stato assolutamente efficace) nella varietà di sfumature che abbiamo avuto modo di cogliere. Un problema che si era già colto nell’ultimo live visto allo Spazio (Barzin, ma in quel caso le tonalita soffuse hanno limitato la perdita) e che stavolta non ha consentito di apprezzare a pieno le screziature della voce di Aaron With, uno dei valori aggiunti di questo gruppo: echii yorkiani e buckleyiani (il Jeff meno calligrafico, quello dei live e delle ‘Sketches’) che si sono appena intuiti o poco più. Rimarchevole invece l’istrionismo degli altri due: la seria predisposizione ludica di Mark Cartwright, con tutto il suo armamentario di diavolerie elettroniche, e l’abilità non comune del finto nerd Sam Scranton, il solo che mi ricordi di aver visto suonare contemporaneamente vibrafono e batteria, eccezion fatta per il tizio autistico che suonava qualunque cosa accompagnando Carla Bozulich. Gran bel concerto comunque, e poco importa per la scarsa rappresentanza di pezzi dal loro miglior disco, ‘Beautiful Seizure’. P.S.: il nuovo singolo è fantastico.

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