Devi…o non Devi?

 

Non troppo originale l’esordio dei Devi, trio pop-rock di stanza nel New Jersey. Difficile trovare motivi di grande interesse nel loro ‘Get Free’, per quanto la prova sia discretamente godibile e la voce della leader, la cantante e chitarrista Debra che ammicca in copertina, si riveli comunque apprezzabile. Il mio scetticismo non riguarda la qualità in sè di queste undici canzoni, quanto piuttosto l’urgenza di questa nuova proposta, tutto sommato prossima allo zero. Ascoltando il pezzo introduttivo, il singolone di lancio ‘Another Day’, potreste comprendere meglio ciò che intendo. Sembra una canzone delle Hole direttamente da ‘Celebrity Skin’. Forse la miglior canzone che Courtney Love (non) ha scritto da quei tempi lontanissimi. Ecco, è un brano pimpante e ben costruito, cattivo solo di facciata per strizzare l’occhio alle teenager incazzate col mondo, coi suoi riff elementari ma indubbiamente efficaci e la voce della ragazza in primo piano. Sarebbe tutto a posto, non fosse che questa canzone bussa alla nostra porta con una dozzina buona di anni di ritardo. Se ‘Get Free’ fosse impostato interamente in questo modo sarebbe da cestinare senza pensarci troppo su ma fortuna ha voluto che questi ragazzi si siano affidati per la produzione ad una vecchia volpe come Anthony Krizan, già chitarrista degli Spin Doctors, il che ha rappresentato per il suono della band una garanzia sufficiente in termini di varietà. Già il secondo brano, ‘When It Comes Down’, sterza verso un’atmosfera più meditativa, non malvagia, che a qualcuno ha fatto venire in mente la Sheryl Crow meno bolsa mentre a me ricorda la Neko Case battagliera (e da classifica) dell’ultimo disco, paragone che, senza dubbio, gioca a tutto favore dei Devi e della loro cantante. Abbastanza in là nella tracklist, ‘Welcome To The Boneyard’ e ‘Get Free’ confermano che la dimensione più pacata ed intensa è quella che meglio si addice al gruppo: congeniale alla bella Debra per far risaltare in profondità la sua voce, idonea anche quanto a scrittura per colorare di sfumature le canzoni e risultare più credibili, meno caricaturali.

Questa è la direzione in cui i Devi dovrebbero lavorare per il prossimo passo discografico, sempre che ce ne sia uno (io propendo per il sì visto che il materiale artistico a disposizione è grezzo ma interessante). Attualmente, a parte i titoli citati e una cover di Young (‘The Needle and The Damage Done’, sì, come al solito) controllata ma personale, eseguita con una certa passione, non si può negare che i risultati di questo lavoro abbiano il fiato un po’ corto: il compromesso tra rock pompato (‘Demon in The Sack’) e addolcimenti indigesti (‘Runaway’), gli aromi orientali più improbabili (scelti per infiocchettare il pop leggero di ‘Howl at The Moon’) e qualche rallentamento orchestrato ad arte (ma irrimediabilmente piatto, vedi ‘Love That Lasts’) rafforzano l’impressione di un prodotto abbastanza scontato pur se in confezione lussuosa, con qualche chance nei circuiti mainstream più che in quelli alternativi. Se ne cercate la (drammatica) conferma definitiva, skippate i pezzi peggiori e saltate direttamente alla quinta traccia, l’assurda ed emblematica ‘C21H23NO3’: potrebbe quasi regalarvi un accenno di sorriso, col suo basso sinuoso, le sue percussioni morbide e quel ritmo vagamente funky…potrebbe, perché il clima curioso si spegne con l’ennesima svolta verso il rock da MTV e la freschezza torna ad essere infettata dal forte sapore di postdatato. Lo conferma anche l’innocua ‘All That I Need’: questo disco è scaduto alla fine del ’97 e in quell’anno avrebbe potuto fare sfracelli. Oggi le cose sarebbero diverse ma se ci rifacciamo al principio per cui tutto ritorna…

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