Generazione A  _Letture

      

Comincia a diventare una vera impresa pescare in rete foto di volta in volta inedite di Douglas Coupland, ad accompagnare la recensione di turno dell’ennesimo suo romanzo letto. Allo stesso modo sembra stia diventando un’abitudine che le mie parole si mantengano ben lontane dai toni entusiasti con cui avevo celebrato le sue primissime letture. E’ solo una coincidenza che i suoi due titoli forse meno convincenti siano arrivati in sequenza, a strettissimo giro di posta. La prossima critica di un suo libro lo dimostrerà. Per questo ‘Generazione A’ rimane l’impressione di un lavoro pasticciato, con troppe idee mescolate in un intruglio letterario ammiccante ma un po’ banale (persino giovanilista, in maniera poco opportuna) in cui Coupland ha girato a vuoto proprio con quelli che sono i cavalli di battaglia del suo repertorio. La scrittura rimane vivace ed avvincente, le trovate buone non mancano come quel suo romanticismo pop da fine del mondo, però non bastano a fare di questo un grande romanzo. Davvero molto belle invece l’edizione e la copertina italiana per ISBN.

Servendosi della deformazione distopica sottilmente applicata ad una narrazione di taglio realista, confermando quasi mimeticamente il grosso delle attuali prospettive ma tingendo d’apocalisse le restanti tessere, Douglas Coupland racconta un 2020 mai davvero incredibile in cui le api sono soltanto un ricordo, l’impollinazione viene effettuata manualmente dagli addetti di una nuova industria, le coltivazioni di mais sono tutte transgeniche e miliardi di persone hanno sostituito il piacere solipsistico garantito dalla lettura con il perdurante intontimento di un nuovo farmaco che promette di far dimenticare qualsiasi ansia legata al futuro e alle relazioni con gli altri, di trasformare ogni individuo “da cane in gatto”. Quando alcuni giovani ai quattro angoli del globo vengono punti dagli insetti redivivi, si apre forse un piccolo margine alla speranza.
Ancora una volta Coupland riesce a dire cose non banali attraverso riflessioni ironiche e personali, ed ancora una volta si dimostra capace di cogliere lo spirito dei tempi nelle galoppanti contraddizioni della gioventù forse più indecifrabile (o meno incasellabile) di sempre, quella cui manca persino la vecchia arma del disincanto per guardare al domani con un minimo di coraggio. Raccontare l’universo dei cosiddetti nativi digitali era l’intento di massima. Analizzare con scrupolo ed humour la generazione nata dopo gli anni ottanta, quella che rappresenta in fondo la fine ed il superamento di ogni generazione convenzionalmente intesa per quel suo incarnare la negazione di qualsivoglia principio di comunità non virtuale o non mediata: drogata dal proprio insopprimibile e frenetico bisogno di tradurre tutto in comunicazione, pur non avendo più nulla di significativo da condividere o un ruolo pregnante da interpretare in un universo orientato in declino costante verso la barbarie (ipertecnologica, però), sola, privata della capacità di sognare in grande come in piccolo, anestetizzata, fredda, emotivamente non pervenuta.
Per centrare il bersaglio l’autore canadese intende fotografare il positivo di questa fosca realtà seguendo in maniera frenetica le soggettive impazzite dei suoi giovani eroi, luminose eccezioni alla regola, nel calvario caotico della loro cattura e della prigionia nelle mani di oscuri scienziati. Ad una prima parte assai leggera e vivace, che diverte ma non rinuncia ad inquietare, fa seguito il vero cuore ambizioso ma disordinato del romanzo, con i protagonisti raccolti su una remota isola dell’Alaska per inventare e raccontarsi storie a vicenda secondo un’esplicita prospettiva decameroniana, rendendo evidente come solo la forza del collettivo e della fantasia possano rappresentare la svolta in un mondo rassegnato all’individualismo più sterile. Le pagine che in linea teorica avrebbero dovuto essere la punta di diamante di questo romanzo finiscono col rappresentarne il tallone d’Achille: l’inserimento improvviso della lunga parabola affabulatoria risulta sconclusionato, forzato e pretestuoso, assai meno armonico delle fantastiche “favole della buonanotte” che punteggiavano di poesia i capitoli del vecchio ‘Generazione X’. C’è il consueto talento crudo e surreale del canadese a renderle quantomeno interessanti, alcuni passaggi grotteschi (l’appassionato elogio della lettura di ‘Pianeta Filetto’, oppure la fiaba dei supereroi costretti nella spirale della devianza criminale per pagarsi i Martini preparati da un barman d’eccezione come Yoda) sono ancora irresistibili, eppure concentrati tutti assieme in un blocco granitico quanto indigesto non riescono ad emanare il fascino sperato, spegnendosi in una critica anche abbastanza scontata sulle trappole delle nuove imperative forme di comunicazione. Il problema di‘Generazione A’, che pure ha più di uno spunto pregevole, sta nel fatto di non aver saputo resistere alla tentazione di mettere troppa carne sulla griglia. Tradito dalla valanga di riferimenti alla caleidoscopica cultura pop della web-age (tipo gli innumerevoli rimandi ai Simpson, per la prima volta – forse – persino stucchevoli) così come dallo sfavillante luccichio delle tante suggestioni armeggiate con leggerezza, il grande romanziere si impantana in un finale estremamente confusionario, insieme sbrigativo ed arzigogolato, e non può mascherare un po’ di appannamento. Per una volta, poi, è anche il lavoro sui personaggi a deludere, con troppi protagonisti in ballo e troppo blandamente caratterizzati anche per dare credito all’intento di rendere una realtà giovanile spersonalizzata e attratta dagli stereotipi. Dei cinque “piccoli Wonka”, voci critiche sui temi della globalizzazione, delle multinazionali, dell’imperialismo culturale a stelle e strisce, degli eccessi della virtualità, dei deliri e delle derive social, similissimi tra loro già in partenza e sovrapponibili quasi in tutto, l’unico ad emergere per profondità socio-psicologica è il cingalese Harj. Incarna l’intelligenza scettica, il buon senso e la dignità del sud del mondo al cospetto del grande Leviatano americano e del mito vuoto della libertà (“il fuggevole sogno dei Craig”), finendo tuttavia per essere connotato suo malgrado nel solco di un (involontario) politically correct che in un romanzo di Coupland non può non stonare. A giochi fatti, una buona occasione sciupata.

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