Mockingbird Time

       

Ecco un album che ho aspettato con trepidazione vera. Un regalo atteso sin da quando tutto pareva orientato a raccontare ben altro finale. I Jayhawks sono una delle pochissime band per le quali sento di potermi dichiarare fan in tutta tranquillità, considerato un apprezzamento devoto nei suoi confronti che ha superato anno dopo anno l’etichetta fragile delle infatuazioni passeggere. Li ho amati prima dei Wilco e continuo ad amarli anche adesso che quell’altra passione, per Tweedy e i suoi cavalieri, ha già imboccato il sentiero della discesa. Con i Jayhawks questo lento disamorarsi non si è mai palesato, forse anche perché il gruppo di Minneapolis è rimasto a motori spenti per otto lunghissimi anni. Nemmeno per quello, in realtà. Gary Louris e Mark Olson non si sono mai realmente fermati: tante cose in proprio o dentro altri progetti, quindi quel disco elettracustico a quattro mani che per il sottoscritto doveva per forza valere come una promessa (‘Ready For The Flood’ del 2008, ne avevo parlato qui). Non ho mai smesso di credere che questo nuovo inizio per loro due, insieme nei Jayhawks, sarebbe arrivato. Solo questione di tempo, di fiducia, e nessuna vera sorpresa a parte il pieno conforto di ritrovarli in uno stato di forma incoraggiante. Forse un tantino troppo olsoniano per lasciarmi davvero liberare l’applauso ma, come ho scritto nell’affettuosissima recensione per MM, che la bilancia pendesse dalla parte del figliol prodigo, o dell’amico ritrovato, era facilmente pronosticabile. Tra due personaggi del rock alternativo che amo alla follia come loro penso di preferire ancora di qualche decimale l’inclinazione al folk-pop versatile di Louris, piuttosto che l’ortodossia alt-country (suona come una contraddizione ma chi lo conosce sa che non lo è) di quella che è stata la vera anima del gruppo dall’esordio alla diaspora, Mark Olson. Poco male comunque. Non mi aspettavo certo un album à la Golden Smog, il side project di Louris e del bassista Mark Perlman (con Tweedy, Dan Murphy dei Soul asylum e Craig Johnson dei Run Westy Run, lui pure ex-Jayhawks) che io venero dal primo giorno come uno dei veri, grandi gioielli nascosti del rock americano. Pronosticavo, e in fondo volevo, un disco dei Jayhawks nel senso più classico del termine, e sono stato esaudito non solo per la piega traditional della confezione (per lo più ‘Tomorrow The Green Grass’, ma ci si sente anche l’inarrivabile ‘Hollywood Town hall’) ma anche per il ritorno in pista della rediviva Karen Grotberg, una che negli anni del massimo successo contribuì alla grande con il pianoforte e i cori). Non tutto è perfettamente a fuoco, non tutto suona indimenticabile e più di un automatismo rivela ancora quel po’ di ruggine. Ma il senso d’incantesimo, di tempo che sembra non essere trascorso affatto, è un’impressione preziosa per chi è legato a questo gruppo straordinario. L’unico vero rammarico riguarda più la sfera promozionale che non il disco in sé: avrei davvero fatto carte false per rivederli dal vivo ma in Italia non sono tornati. Troppo scottante il poco pubblico e lo scarso rispetto del promoter quel 10 settembre 2003, quando al Transilvania di Milano assistei incredulo ad uno dei cinque concerti più belli di tutta la mia vita. Personalmente non perdo la speranza di ritrovarli da queste parti al prossimo giro, convinto che una nuova occasione non mancherà. Più che altro mi preme appurare se, nonostante quel matrimonio andato così miseramente a puttane, ‘Miss Williams Guitar’ la suonano ancora.

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