Genio in sordina _parte prima

 

Ci avete fatto caso? Una delle parole più abusate (quasi sempre a sproposito) dalla critica musicale è "genio". Dovessimo fidarci degli aggettivi delle riviste o dei siti specializzati non potremmo che limitarci a constatare che viviamo in una realtà dorata di genialità a buon mercato. Un disco riuscito, un singolo ben sponsorizzato, un nuovo autore che potrà fregiarsi della generosa credenziale. Anche se crederlo è quanto di più incoraggiante, sappiamo tutti che il mondo reale sforna fenomeni con molta più parsimonia di quanto non racconti la stampa e di quanto noi stessi, in fin dei conti, vorremmo sperare. Scriviamo degli artisti che abbiamo scovato magari fortunosamente, tendiamo ad esaltarci non appena incrociamo un album che transita sulla nostra stessa lunghezza d’onda, ma per eccessivo e sincero entusiasmo finiamo con l’incappare nel medesimo errore che altri commettono scientemente, per puro interesse promozionale. I geni veri non si incontrano facilmente. Viene da dubitare che autori di questa risma esistano ancora o comunque creino la loro arte sugli stessi standard aurei che li hanno consacrati, in passato. Capita invece di imbattersi, non così di rado, in musicisti e cantautori che del genio esprimono solo determinate caratteristiche, magari a sprazzi, non potendo quindi essere annoverati nella categoria dei prodigi autentici. Spesso e volentieri sono proprio loro gli artisti più interessanti: quelli imperfetti, quelli nascosti, quelli col silenziatore. Capaci di tirare fuori dal cilindro un coniglio di tanto in tanto, estemporaneo intervallo tra un paio d’atti di assoluta ordinarietà, oppure di coltivare in disparte un talento non proprio comune, di giocarci a nascondino come non volendosi mai prendere troppo sul serio. L’ultimo in ordine di tempo di cui ho potuto saggiare i pregi si chiama James Milne, non ha ancora trent’anni ed è uno dei giovani cardini dell’assai promettente scena indiepop neozelandese, pur vivendo da qualche anno a Londra e pur avendo manifestato legittime esigenze di sprovincializzazione artistica. Me lo aveva segnalato il leader dei Brunettes, Jonathan Bree, nell’intervista realizzata tempo fa per Indie-rock.it: proprio con Bree e la Mansfield Milne ha mosso i primi passi della sua carriera, ma evidentemente la subalternità gli era di peso. Appena ha potuto ha provato a cimentarsi con materiale proprio, sia da solista (dietro il moniker Lawrence Arabia) che al timone di una vera e propria band, i Reduction Agents. Sono stati sufficienti un paio di LP, più un terzo pubblicato alla fine del 2009, a convincere delle sue qualità artisti di prima grandezza come Will Sheff o Feist, il primo cooptandolo come turnista negli Okkervil River, la seconda facendogli aprire tutte le date di un recente tour europeo. Ora, qui non voglio convincere nessuno sul fatto che James Milne sia un genio, anche perché io per primo non lo credo minimamente. Però non mi dispiace fare un po’ di pubblicità ad uno di quei talenti minori (vedi Richard Swift, Kelley Stoltz e Jim Noir) che, lontani dai riflettori, si stanno cimentando in una personale riscrittura della tradizione pop con risultati quanto meno apprezzabili. L’excursus che per comodità sarà diviso in tre tappe – una per ogni LP pubblicato – non può che partire dal già emblematico esordio del progetto solista Lawrence Arabia, un album eponimo uscito in contemporanea per la propria etichetta (Honorary Bedouin) e per quella di Bree (Lil’ Chief) nell’aprile del 2006. 

 

Se cercaste un’immediata conferma alla mia riflessione in merito al patologico basso profilo di Milne, considerate che il disco in questione comincia con una sequenza di ben quattro filler, pure di ottima fattura, e altri ne dissemina via via sul tragitto, dall’esilissimo divertissement di ‘Everyone Had Dinner With Rabbits’ al frammento scapigliato di ‘The Kinds of Feelings That Happen on Summer Beaches’. Se bastano gli episodi iniziali a chiarire come l’inclinazione di questa prima prova sia decisamente folky-cantautorale, non si può liquidare la tendenza al bozzettismo senza rimarcare la gentilezza, la semplicità miracolosa e quella sottile atemporalità che preservano anche riempitivi senza grosse pretese (quale è ad esempio il brano d’apertura, ‘The Mystery Lair’) dall’impietosa etichetta del banale. Milne si offre poco per volta, adottando cadenze sornione ed un distacco che è tutta apparenza. Servendosi magari di un tappeto di elettronica morbida e prudente (‘Half The Right Size’), Lawrence Arabia si ingegna per “addormentare il gioco” ma è comunque insinuante e sa colpire al momento giusto con la sua voce ammaliante e malandrina, prima che i riverberi della sua elettrica gli diano il cambio e prendano il sopravvento. Anche in questo atteggiamento traspare una certa propensione di stile per un dandismo che é tanto sofisticato quanto polveroso (e lontano dalla grazia), abbracciando una sorta di maniera noir a fin di bene, con sincera passione per il genere e appena qualche debito di troppo nei confronti di Bowie (’Thistle Tends To Stingle’). Quando concede campo libero alla propria vena decadente, James approda a esiti incoraggianti. ‘Talk About Good Times’ è discreta, romantica, anacronistica, perfetta per gli ideali titoli di coda di un film ancora da girare: il classico colpo ad effetto che lascia il segno anche senza ricorrere a soluzioni appariscenti, vera virtù che è solo dei talentuosi. A rimorchio di questo gioiellino di crooning consumato ecco ‘Bloody Shins’, dove il fare estenuato, la malinconia di grana grossa e un lennonismo imperante riescono come per magia a non scadere nel fiacco sentimentalismo che per tanti sarebbe stata una sicura falla. L’obliquità è una delle migliori carte nel songwriting di Milne, e questo esordio la porta all’attenzione dell’ascoltatore in tante occasioni. ‘Hold Us Together With Sutures’ è sicuramente una delle migliori, nonché l’episodio più sfuggente di tutto il disco: il canto si fa più ruvido, lamentoso, stropicciato (quasi un miagolio), mentre le deviazioni arrivano dai curiosi inserti notturni che enfatizzano il potenziale melodico emozionando in un finale elettrico sempre più esasperato e crepuscolare. Stupiscono nell’album gli accostamenti anomali sul piano sonoro, disposti quasi con indifferente coraggio dall’autore, fondendo soffusi ricami acustici, sottili campionamenti ed occasionali aromi psichedelici. E’ la follia gentile di Lawrence Arabia, sempre misuratissimo nel suggerire alternative bislacche alle soluzioni di comodo o agli effettacci eclatanti che per molti basterebbero a compensare i vuoti pneumatici di una creatività lacunosa. Nel finale questa tendenza produce alcuni dei suoi frutti più gustosi, tra melodie traballanti che si conficcano in testa al primo giro di giostra, radiose ed irresistibili schiarite sixties (‘I Hope The Pope Makes You a Saint’) e buone impennate di asprigna emotività (‘The Thinnest Air’). Non occorre dilungarsi in esempi lampanti per rivelare la felice inclinazione pop di Milne, un accenno di quella dote veramente notevole che il neozelandese saprà poi sviluppare con maggiore autorevolezza nella seconda prova e nell’uscita di gruppo con i Reduction Agents: sono sufficienti le ombre beatlesiane (l’eco di ‘Revolution’ è dietro l’angolo) di ‘Business Planning’, evidentemente qualcosa più di un’acerba dichiarazione di intenti. Un po’ come tutto quest’esordio, peraltro.

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