I will see you around

Vic Chesnutt ci ha lasciati. Senza troppo clamore, con un’overdose di rilassanti muscolari, farmaci che lui assumeva regolarmente da più di venticinque anni per lenire i dolori del suo scorrere disastrato. Nei testi delle sue canzoni aveva scritto spesso del suicidio. Amava evocare la morte come per esorcizzarla, sin dai tempi di ‘Little’, il primo di una lunghissima serie di album mandati in stampa come autentici stralci di vita, prima che d’arte. La musica e la letteratura, scoperte solo dopo l’incidente che stravolse la sua esistenza, si erano subito imposte come la linfa, il motore del suo stoico resistere: al dolore, alla sfortuna, anche alle tentazioni di una comoda via di uscita. Negli ultimi tempi Vic aveva intensificato gli sforzi come se presagisse di non riuscir più a trattenere questa “compagna di tutta una vita” dal regalargli finalmente il riposo sognato. Gli ultimi due lavori, usciti entrambi solo qualche mese fa, sembrano tradire una sorta di stanchezza nella lotta, ma lo fanno paradossalmente con un’autenticità nello sguardo, un acume ed un’intensità che sono in fondo la miglior testimonianza di quel che è stato Vic in questi lunghi anni di malattia: un uomo vero, forte come una quercia, un combattente. Questo scavando fino all’osso, nell’essenzialità della sua poetica, della sua stessa filosofia di vita: in termini di sincerità, di confessione dal taglio fieramente crudo, spontaneo, veritiero. Una scelta evidente sul piano dei testi, la cui schiettezza (‘Coward’, ‘Flirted With You All My Life’) risulta una naturale evoluzione degli slanci metaforici che appesantivano di ingenuità le prime incerte liriche, quelle in cui il disagio e l’ossessione di sé – quasi il crogiolarsi dell’artista nei panni del derelitto sventurato – avevano anche senza volerlo il sapore della posa e della maniera. Con gli anni Chesnutt ha saputo inquadrarsi e raccontarsi servendosi di filtri sempre meglio calibrati e più straordinari, trattenendosi in una dimensione distante ma emotivamente viscerale, evitando con elegante ironia le facili tentazioni del patetico ma colpendo al cuore l’ascoltatore più libero dai pregiudizi. In questo era riuscito molto presto a cantare se stesso ed il mondo attorno a lui come un universo coeso, sempre strettamente legato, una simbiosi entusiasmante oltre che la sublimazione di un punto di vista originalissimo anche in termini letterari, con una fusione spesso incredibile di registri teneri e caustici. L’umanità di Vic era l’umanità delle sue canzoni, due piani mai tanto indisgiuntibili come in questo caso, con una perfetta coincidenza tra la persona ed il personaggio, il creativo e l’oggetto delle sue crepuscolari affabulazioni, sempre ben visibile sullo sfondo. Anche la musica ha assecondato questa sua esigenza di verità, questa volontà di mettersi definitivamente a nudo. L’incontro con le sottili deflagrazioni rumoristiche di Guy Picciotto e del collettivo canadese dei Silver Mt. Zion andava necessariamente replicato per conferire ai pezzi di ‘At The Cut’ quella vitalità inquieta e nervosa che è la migliore colonna sonora per le sorprendenti parole racchiuse nell’album. Per ‘Skitter On Take-Off’ Vic ha preferito l’espediente di una sobrietà solipsistica, come non si riscontrava dai tempi del suo acerbo e meraviglioso esordio. Dopo averlo anticipato in più di un indizio, Chesnutt deve essersi sentito pronto per lasciare. E lo ha fatto. Il problema ora è mio, e di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di amarlo o conoscerlo. Lo ha scritto con efficacia Kristin Hersh, cantante dei Throwing Muses che con lui avevano diviso il palco in un tour europeo di una quindicina di anni fa. Era un’amica, di fatto ha dato lei l’annuncio della scomparsa di Vic e, per quanto anche lei sentisse come nell’aria questo gesto estremo, ha raccontato in una bella intervista a caldo su Entertainment Weekly che no, non era affatto pronta per pensare a lui come un tassello del proprio passato. Il difficile è proprio questo. Per me quindici anni con le canzoni di Vic, il mio personale passepartout per l’universo musicale indipendente, ed ora mi sento improvvisamente molto più solo. Un amico importante che se ne va, sfiorato appena nella vita reale in uno scambio di mail per un’intervista, poco più di un’ora di concerto, meno di cinque minuti di chiacchiere, l’autografo su un pugno di dischi ed un abbraccio. Sembra poco in effetti, ma lui è stato sempre con me per circa metà della mia vita. Mi ha appassionato, divertito, commosso, insegnato. Ora, come la Hersh, non riesco a mettere su i suoi dischi. Faccio fatica anche solo a pensare alla musica che ha scritto. Come la Hersh ho sempre identificato le canzoni di ‘The Salesman & Bernadette’ con un certo clima natalizio, con un certo calore, candore domestico. Ma come posso riascoltarlo ora che Vic ha scelto proprio il giorno di Natale per farsi da parte? Sembra ridicolo da spiegare alle persone normali che non vivono di musica come me, che non ne fanno una malattia, che non si circondano di antieroi quasi immaginari compilando una personale micro-mitologia pocket da universo parallelo, traendo spunti infiniti per rendere almeno un tantino più preziosa la propria routine. Sembra assurdo spiegare che sento terribilmente un vuoto dentro, per quella parte di me che se n’é andata per sempre insieme ad un piccolo e miserevole cantautore paraplegico, ma è così, davvero. Se questo aspetto è fondamentale e non mi permetterà per un po’ – già lo so – di riaccostarmi a quei pezzi ora così inavvicinabili (ma è mia intenzione scriverne in maniera dettagliata su questo blog, appena mi sarà possibile), se è triste l’idea di un Chesnutt che ci lascia in una fase di febbrile impulso creativo, resta comunque la soddisfazione di averlo visto suonare dal vivo, di averlo conosciuto per quanto marginalmente, di averne respirato la forza ed il carattere e di aver incrociato con lui sguardi e sorrisi, almeno una volta. Questo fino alla prossima, che ci sarà presto o tardi, ne sono certo.

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