Josephine Foster @ Cripta 747   08/07/2011       _ Il nostro (altro) concerto

      

Altrove l’ho definito il concerto più “infotografabile” cui mi è capitato di assistere, e non ritratto. Peggio, in questo senso, di quella volta che un buttafuori mi sferrò un cazzotto sul grugno per aver immortalato i Klaxons (capirai!) senza accredito, peggio dei live nelle grandi arene con ferocissimi gorilla alla transenna, peggio degli show estivi all’aperto sotto il perenne scacco della grandine. Intanto una cosa mi preme chiarirla. Nel biasimo generale io faccio foto ai concerti sempre e comunque, ignorando chi sostiene che in questo modo non posso seguire con vera partecipazione gli eventi. La verità è che mi diverto un mondo e riesco a sposare due delle mie passioni in una sola esaltante attività, per quanto limitata dalla mia natura di eterno dilettante e dall’eventualità che qualcosa vada particolarmente storto, in un senso o nell’altro. I concerti brutti capitano, per l’appassionato di musica non ci si può fare nulla. Poi ne capitano altri – non così di rado – in cui l’artista è all’altezza ma non il pubblico, o il contesto nel suo insieme. E non mancano quelli in cui è il fotografo amatore a storcere il naso: luci troppo soffuse o troppo calde o troppo schizofreniche per resa visiva, così insopportabili da costringerlo a fare le acrobazie tra tempi sufficientemente bassi, diaframmi accettabili e rumore non così mortalmente alto, iso permettendo. Bene, tutta questa lunga e noiosa premessa per dire che a volte, anche rimanere fermo al palo con la mia reflex non è proprio un male. Mark Kozelek è uno di quelli che non ammettono macchine e macchinette per riprese video o fotografiche durante le sue esibizioni. Allettante a guardarla dal punto di vista di un suo fan ma tutt’altro che inaccettabile anche per chi abbia il vizietto della fotografia. Certi spettacoli riescono a plasmare una tale aura di sacralità che anche una mosca che svolazzi senza invito riuscirebbe inopportuna. I suoi live quasi mistici per voce e chitarra classica rendono alla perfezione un principio cui cerco di attenermi fermamente ogni volta che un cantante, anche meno intenso del leader dei Sun Kill Moon, canta senza accompagnamenti ritmici o senza scorte elettriche. Detesto io per primo un click che fa a sberle con una voce nel silenzio claustrale, diversamente da certi invasati con zaini, arsenale tecnico e strafottenza paurosi. Un concerto di Josephine Foster rientra alla perfezione in questa stessa categoria, per cui nella cronaca qui riportata non ho particolari recriminazioni da fare. Stare bravo al mio posto e godermi quella sua voce pazzesca, con le parche esilissime trame della sua chitarra, era quasi un comandamento biblico che ho rispettato senza fiatare. Facendo di necessità virtù, diciamo, visto che ad una simile adeguata condotta sono stato spinto non dalla cantautrice del Colorado per espressa richiesta, ma dalle terrificanti condizioni luministiche in cui lo spettacolo si è svolto: una penombra quasi totale, con un unico neon a mezzo servizio posto per terra, e con su una mantella nera della stessa Foster, ché l’atmosfera è tutto. Questo, è importante dirlo subito, è stato in realtà l’inconveniente più trascurabile di una serata in cui quasi tutto è andato per il verso sbagliato, e riferisco queste parole non al semplice cacciatore di ritratti fotografici ma proprio all’appassionato di musica in libera uscita. Perché è così che mi sono presentato alla Cripta 747 di Torino la sera dello show in questione: da appassionato generico, fresco reduce di un concerto rock-blues (i Black Crowes a Vigevano, la sera prima) e ben disposto ad affidarsi a sonorità ben diverse pur essendo da tempo a digiuno di folk appalachiano e non avendo sentito una sola nota delle canzoni della suddetta Josephine Foster, piacevole incognita che avrei detto esclusiva nella serata, sbagliandomi di grosso. Trovare questa famigerata “Cripta” è già stata una discreta impresa. Immaginavamo un locale a tutti gli effetti ancorché piccolo, schiacciato tra i tabarin fighetti del Quadrilatero Romano e l’inavvicinabile kasbah notturna di Porta Palazzo, e invece ci attendeva uno scantinato infame. Chiuso, per giunta. L’abbiamo fatto aprire noi stessi quando telefonando ormai disperati ai titolari, siamo stati raggiunti davanti ad un grosso portone senza citofoni e senza numeri civici da una terna di tizi vagamente alternativi, di ritorno da una cena in luogo imprecisato. Scoprendo che il posto era collocato sotto terra, in un trittico buio di infernotti comunicanti, una dose minima di perplessità è affiorata quasi automaticamente. Nessun biglietto di ingresso in cambio di cinque miseri euro, nessun guardaroba, nessuna uscita di sicurezza, nessun posto per sedersi, nessuna base in legno accostabile ad un palco e, soprattutto, nessun altro avventore a parte noi e due ragazzi appositamente giunti da Milano. Li per lì ho immaginato che quelli della Cripta fossero vampiri e avessero trovato cinque poveracci con cui sfamarsi. Poi le cose sono cambiate con l’arrivo, alla spicciolata, di un numero sempre più alto di giovani dall’aspetto, francamente, assai poco raccomandabile. Al di là di questo, dubbi via via più incalzanti in merito allo svolgimento della serata, accentuati da un clima sempre più cocente da scherzo poco divertente, con birre affogate in una bacinella di ghiaccio e vendute senza scontrini nella più esterna delle tre cantine, calca berciante e difficoltà crescenti a tollerare con la sporcizia del luogo quella dei propri occasionali vicini, presumibilmente i peggiori squatter di Torino a convegno gratuito (eh sì, pagavano solo i veri “forestieri”, noi stronzi) in una cloaca per la musica. Del concerto in sé non rimane neanche molto da dire, eccetto che vi erano due gruppi (due artiste in realtà) spalla, dalla Finlandia, e che la Foster è stata strepitosa per pazienza quanto per incanti regalati. Le classiche perle ai porci, considerata la teppaglia umana (e canina) che, stravaccata accanto a noi sul pavimento, non ha smesso un istante di ciarlare, fumare di tutto, rovesciare bottiglioni di vino e farsi, molto poco elegantemente, i propri porci comodi. Uno spettacolo indecoroso ed uno scempio immeritato già per le non esaltanti Hilma Glad (folksinger oversize con ambizioni stranianti “alla islandese”, per quanto nella variante “vorrei, ma non posso”) e Kuupuu (il cui essere graziosa non ha riscattato un set ammorbante a base di cinguettii ed elettronica delle più indigeste), figuriamoci per una performer e vocalist di assoluto talento come l’americana. Che ha fatto il possibile, occorre dirlo, forse anche per dare senso a quelle interviste in cui dichiarava di amare l’esibirsi in location insolite quando non proprio estreme (si riferiva a chiese, grotte e monumenti vari, in realtà). Ignorando per quanto le riuscisse l’ignobile bazar davanti a lei, Josephine ha stregato senza problemi i pochi che erano lì per lei. Non saprei minimamente ricostruire la scaletta del suo live da un’ora e via, anche generoso considerando cotanto parterre de roi, perché come detto mi ero presentato da profano assoluto. Sono però certo, avendo approfondito nel frattempo la conoscenza della sua intera discografia (dai primi dischi per Locust al recentissimo ‘Blood Rushing’), che abbia ripreso diversi dei bozzetti con le liriche di Emily Dickinson di ‘Graphic As a Star’ oltre ad alcune delle Canciones Populares raccolte in origine da Garcia Lorca e reinterpretate assieme al marito Victor Herrero nelle due raccolte iberiche sin qui licenziate. Non il meglio del suo repertorio (che per me rimane quanto pubblicato nel 2005/06, ‘Hazel Eyes, I Will Lead You’ e ‘A Wolf In Sheep’s Clothing’), eppure abbastanza per intrigare con la sua toccante semplicità, con la perfezione di un cantato da pelle d’oca e con la purezza dei suoi ricami scarni in acustico. Uno spettacolo martoriato da agenti esterni e nondimeno delizioso, a riprova che i grandi artisti sono tali anche nelle peggiori condizioni. Con buona pace anche mia e della mia smania di immortalarli, oltreché di quelli che li invitano forse solo per il gusto perverso di oltraggiarli. Il buon proposito, in conclusione, è di ritrovare la Foster nelle circostanze più idonee, con una macchina fotografica a disposizione ma da usarsi solo in quei pochi frangenti in cui la musicalità si faccia più chiassosa, armoniosamente parlando. Amen.

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