Un’altra promessa…

         

…non proprio mantenuta.
Non può che partire così il mio pezzo sul sophomore dei Ganglians. Ci eravamo lasciati con la speranza di un futuro di grandi conferme, in coda alla recensione di ‘Monster Head Room’ scritta proprio nei giorni di quel notevolissimo esordio sulla lunga distanza (si veda il tag ‘Ganglians’ qui a lato, per chi volesse recuperarla). La band di Sacramento ha colmato questi due annetti di spazio vuoto dandosi da fare: si è imbarcata in un tour mondiale che l’ha portata anche in Italia nella primavera del 2010, quindi ha raccolto gli spunti necessari per l’ideazione del capitolo secondo, sempre tenendo fuori dal computo il lungo EP eponimo uscito per Woodsist prima di ogni altra cosa a suo nome. ‘Still Living’ è stato licenziato lo scorso agosto con la fretta e l’entusiasmo dei gruppi ancora giovani ed impazienti, un po’ come l’album d’esordio ma senza lo stesso smalto e la stessa prorompente vena genuina. Non che suoni come un lavoro ruffiano o troppo studiato a tavolino, tutt’altro. Solo si presenta come un’opera non bene a fuoco, incapace di chiarire con decisione quale strada intenda percorrere e, forse proprio per questo, non facile da apprezzare nel suo insieme.
Nel brano d’apertura Ryan Grubbs e compagnia sembrano palesare una sorta di timore, un blocco, un freno che impedisca loro di azzardare soluzioni diverse rispetto a quelle proposte con profitto nel loro primo disco. Gli ingredienti sono i medesimi, riconoscibilissimi, enfatizzati nella più comoda delle stilizzazioni: spensieratezza, chitarre squillanti e melodiose, coretti a profusione, grande attitudine easy e produzione apparentemente non troppo curata. Il risultato è gradevole, fluido, amabilmente disimpegnato, anche se la mancanza di effetto sorpresa costringe questa ‘Call Me’ in una posizione di assoluto svantaggio. Hanno lavorato senz’altro sugli automatismi i nuovi Ganglians, impressione che avevo percepito anche in occasione del loro live torinese di un annetto e mezzo fa (ne scriverò prima o poi). Hanno sfrondato con il piglio giusto quel fondo di asperità e sporcature soniche pure così caratteristico in ‘Monster Head Room’ ma che, replicato pari pari alla seconda prova, avrebbe potuto valere come una squalifica senza appelli. Il problema qui, suono alla mano, è che sembrano aver anche banalizzato un po’ troppo la formula.
I primi rischi arrivano con i due episodi successivi e non sono esattamente azzardi granché riusciti. Il ritmo si fa più blando, le sonorità virano verso il sepolcrale con un effetto darkwave non proprio dei più entusiasmanti. Il fantasma degli ’80 stende un velo sull’immancabile euforia wilsoniana, con esiti dissonanti ed in fondo un po’ inquietanti, e solo qua e là le chitarre riescono a tenere in piedi la baracca con invenzioni degne d’interesse.

      

E’ a questo punto però che i Ganglians provano a rimescolare le carte, ibridando i propri cliché in maniera curiosa ed abbastanza personale. ‘Jungle’ e ‘My House’ amalgamano opportunamente elettrico ed acustico in bozzetti power-pop sbrindellati e confusi ma a loro modo ironici ed orgogliosi. Anche in omaggio al suo titolo, la bella ‘Sleep’ svela echi dreamy non troppo nascosti (tra organetti e fumose atmosfere) che riportano alle suggestioni e all’arte povera dei primi Beach House con una certa credibilità. ‘Good Times’ torna agli eighties per ostentare l’espansività fiorita dei Cure di ‘Disintegration’, rasentando il plagio ma senza dispiacere: un altro tentativo di smarcamento sulla fascia per i fluidificanti passatisti californiani. Non è poi malvagia la trasandatezza elegante di ‘Bradley’, passaggio “atmosferico” decadente e polveroso, lo-fi per indole, ma assai meno acido di certe stranianti bischerate cui i Ganglians ci avevano abituato. La fiamma naif non si è comunque spenta e Grubbs tiene particolarmente a dimostrarlo. Pezzi come ‘Things To Know’ e ‘The Toad’ sono ancora sufficientemente folli da scongiurare lo spettro dell’omologazione, limitandosi a confinarlo nella buffa copertina. Incrociando soul pop datato e consueti vezzi freak, oppure aprendo squarci radiosi (harpsicord?) quando non ballabili su una trama di tetre ossessioni sotterranee, la compagine di Sacramento si conferma farraginosa e pasticciona ma strappa un sorriso per la sua beata inconcludenza. Le si perdona allora anche il prescindibile indie-rock di ‘Faster’ (qualcuno ha scomodato il garage solo perché sporcizia e velocità sono appena appena più pronunciate), perché in un simile calderone è evidente che anche un dado modesto faccia brodo.
Alla fine della corsa, però, i conti non tornano. Stilisticamente manca un’identità e il disco è forse frenato anche dall’eccessiva attenzione riservata alla forma, più che alla sostanza. Cosa che capitava anche con l’esordio, dove però l’ingenuità rappresentava la spunta in più tra le voci positive. I ragazzi confermano personalità e idee: un vasto potenziale che non basta a salvare ‘Still Living’ da quella classica sensazione di (non disprezzabile) medietà, ma vale comunque come rinnovo tacito della promessa.
In attesa che i Ganglians riescano finalmente ad esprimersi in tutta la loro arrembante vitalità.

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