Gli ultimi giorni _Letture

       

Che autore incredibile è stato Raymond Queneau! Un innovatore e sabotatore come pochi per la lingua francese, un dadaista della parola ma anche un fine intellettuale. Gli ultimi suoi testi che ho letto non fanno parte dello sterminato catalogo Einaudi (con l’inarrivabile “I Fiori Blu” o “Zazie nel metrò” sugli scudi), né della ridotta pattuglia Feltrinelliana, bensì di una più recente e modesta edizione per Newton Compton. Si tratta del vorticoso (e di lunghissima gestazione) “Tempi Duri Saint Glinglin!” e de “Gli Ultimi Giorni” che qui presento pur brevemente. Un testo, quest’ultimo, che appartiene alla sezione giovanile della produzione del narratore di Le Havre, e che quando uscì per Gallimard nel 1937 faceva seguito ai soli “Hazard E Fissile” (uscito postumo) e “Il Pantano”. Se “Saint Glinglin” è opera pirotecnica e del tutto irregolare nello stile, “Gli Ultimi Giorni” appare un lavoro assai più posato, filosofico e malinconico, un saggio esistenzialista che sorprende per la delicatezza delle sue riflessioni e della sua ironia. Non è forse l’introduzione migliore alla grandezza di Queneau ma può rivelarsi un piacevolissimo diversivo.

Parigi, primi anni venti. Tra i tavolini del Café Soufflet, un bicchiere di Pernod dopo l’altro, giovani studenti di belle speranze discorrono con aria annoiata dell’avvenire, mentre gli anziani si consolano delle piccole amarezze quotidiane perdendosi nel piacere soffuso dei ricordi di gioventù. In entrambi i casi è il tempo il convitato di pietra, immancabilmente al centro delle dissertazioni di tutti. Ossessionato dall’allineamento dei pianeti, il cameriere Alfred è convinto di poter prevedere – al di là di ragionevoli dubbi e infinitesimi errori di calcolo – l’esatto compiersi di qualsiasi evento. E’ lui il testimone discreto di quanto accade fuori scena agli avventori del locale, e a intervalli più o meno regolari ne fa l’oggetto di garbate confidenze rivolte al lettore. Tra gli universitari, siamo invitati a seguire in particolare un manipolo di matricole di Le Havre, nei suoi ciondolamenti in solitaria o in gruppo nel gomitolo di strade attorno alla Sorbona e in tutto il Quartiere Latino. C’è il bugiardo viveur Armand Rohel, anticonformista ampiamente fuori luogo nell’esclusivo salotto letterario in cui è introdotto dal più inquadrato compagno Brennuire, autoctono, e dove desterà un certo clamore recitando versi cubisti; c’è Hublin, l’appassionato di spiritismo che un bel giorno parte per il Brasile per fare fortuna con il caffè e decide di voltare le spalle a tutto ciò in cui ha creduto.

E poi c’è Vincent Tuquedenne, quanto di più simile – in questa amarognola commedia per più voci – a un protagonista: schivo, malinconico, abitudinario, “asceta per debolezza”, si professa ora dadaista ora bergsoniano, vive di paradossi, di barbosissime letture e di poesia situazionista, ma il tempo tende più che altro ad ammazzarlo senza concludere nulla. Tra gli uomini maturi spicca il “Pasticca” Tolut, professore di geografia in pensione, macerato dal rimorso nella convinzione di non aver insegnato adeguatamente bene la materia, non avendo mai viaggiato. A scatenare questi dubbi quasi fuori tempo massimo è il fatale incontro con Brabbant, piccolo truffatore dalle mille identità, un Landru che non uccide e che ha deciso di tentare il tardivo salto di qualità con un raggiro memorabile, per sistemarsi fino alla fine dei suoi giorni. Per tutti l’occasione è lì, a portata. Ma come pronosticato dal mite Alfred, tutto andrà come deve, e poi l’ennesimo ciclo si chiuderà: i giovani si rimetteranno in quadro dopo un ambientamento difficoltoso, concluderanno gli studi e partiranno militari; i vecchi saranno traditi nell’ultimo slancio, chi dalla demenza senile, chi da una riconciliazione negata forse senza un vero perché. Tutti si faranno da parte, come le foglie morte che sui viali si decompongono in pozze fangose, spazzate via per lasciare il posto a quelle ingiallite e cadute dopo l’ennesima estate.

Romanzo giovanile, a torto o ragione considerato “minore” in seno alla produzione letteraria del grande autore francese, “Gli Ultimi Giorni” è un’opera piacevolmente fuori moda – meglio, sospesa in una sorta di bolla atemporale – che pennella con indubbia delicatezza lo sfumare delle stagioni della vita, attento al valore universale e in fondo inesorabile dei suoi assunti ma anche all’intima verità di pochi personaggi esemplari. Si discetta in lungo e in largo di morale, filosofia, ragione, scienza, esistenzialismo, ma non c’è pedanteria di sorta a inquinare queste pagine. Semmai un po’ di indolenza, quell’apatia languida e triste che il rinunciatario Tuquedenne trasmette quasi per osmosi capitolo dopo capitolo, prima di dare una sterzata alla sua pallida parabola di studente autoconfinatosi nella solitudine; oppure quella certa spolverata di ininterrotta amarezza, nascosta tra le righe, implicita ma innegabile, per lo spreco inesauribile di intelligenze, buoni propositi e tempo, tempo soprattutto. Non c’è spazio, tuttavia, per il pessimismo. Queneau condisce ogni capoverso con un’ironia gentile, mai beffarda, e si rivela fatalista nel senso migliore del termine, astenendosi da ogni forma di speculazione non neutra.

“Non vale la pena cercare il sole a mezzanotte”, sostiene a un certo punto uno dei ragazzi. E’ inutile cioè incaponirsi a caccia di significati reconditi, negli schemi oscuri dell’esistenza come in questo libro. Quello è compito di chi governa le clessidre, il destino. Squisitamente interpretato ne “Gli Ultimi Giorni” dal bonario cameriere di un caffè parigino, Alfred, sempre brillante nei vaticini sulla pittoresca umanità del quartiere e tenacissimo nel proposito di rendere finalmente giustizia al proprio padre, per tutta la cattiva sorte patita negli ippodromi cittadini. Ovviamente avrà ragione lui, su tutta la linea.

7.7/10

1 Comment

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  1. Fred Dakin
    maggio 14, 2017 at 12:38 pm (7 anni ago)

    Awesome Blogpost Thanks for sharing.

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