Genio in sordina _parte terza

 

Dopo i fuochi d’artificio del duplice esordio, James Milne ha macinato chilometri su chilometri a rimorchio di svariate star della scena indipendente nordamericana, venendo anche cooptato per numerosi concerti in Europa e negli States. Ha cambiato residenza, optando per Londra, ha firmato con la mitica etichetta di Beach House, Explosions in the Sky, Midlake e Czars, la Bella Union, e, cosa più importante, si è fatto ampiamente desiderare. Ci sono voluti circa tre anni perché il moniker Lawrence Arabia tornasse sugli scaffali dei negozi specializzati con il fatidico sophomore effort, quasi un’eternità per un artista giovane ed emergente, ma bisogna riconoscere che difficilmente avrebbe potuto esprimere se stesso in maniera più fedele di quanto ‘Chant Darling’ non abbia fatto per lui. Arrivato sul mercato europeo con l’incredibile ritardo di oltre un anno, questo nuovo è un disco che ha tutto del suo autore, pure nell’inevitabile incompiutezza di una quarantina di minuti scarsi: ne incarna tutta l’irregolare, sofisticata e nostalgica grandezza ma, ancor più che in passato, ce lo presenta spesso e volentieri intento a concedersi pause inattese e non giustificate per un songwriter che ha in fondo ancora tutto da dimostrare. Miserie e nobiltà espressive convivono a stretto contatto nell’angusto spazio di un piccolo album, talento e broccaggine si danno il cambio in un’opera che sa deliziare e imbarazzare senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza mezzi termini. Al cantante di Christchurch viene a mancare troppo sovente la rinfrancante levità del giusto mezzo, un livello medio di tutto rispetto, e gli innegabili miglioramenti espressi in pezzi di superba fattura finiscono con l’essere accompagnati da passaggi di sconcertante pochezza, indisponendo automaticamente chiunque avesse riposto in lui determinate aspettative. ‘Chant Darling’, avrò modo di rilevarlo a breve, parte in maniera del tutto incoraggiante ma ha il grave demerito di svilirsi molto presto, girando a vuoto troppo a lungo e quasi irrimediabilmente. Dopo tre ottimi pezzi catchy, Lawrence Arabia non riesce a mettere il silenziatore alla propria immaturità e pecca d’ingenuità nell’azzardato calypso lounge di ‘Auckland CBD Part Two’, ibrido improbabile (ma ancora abbastanza godibile, almeno per il sottoscritto) offerto nella confezione povera di un risaputo lo-fi e con la recidiva ostinazione per il frammento che già aveva limitato il più che valido esordio del 2006. Nella sua ormai proverbiale (ed in fondo fallimentare) passione per il nascondino, James rivela una tendenza masochistica che nella musica leggera non può proprio pagare. Della squillante ma ricercata immediatezza e delle sgargianti tinte unite del miglior Milne non v’è traccia, mentre torna a prevalere l’effetto flou di ‘Lawrence Arabia’, l’amore per il soft focus e per certa fumosa indefinitezza, quella logica dispersiva che, spingendo l’ascoltatore a soffermarsi su dettagli secondari, non può che penalizzare per forza di cose l’efficacia e l’acutezza della scrittura. Altrove è la scarsa convinzione del neozelandese ad indebolire le sue canzoni. ‘The Beautiful Young Crew’ non sarebbe affatto male se James la sviluppasse con la dovuta accuratezza anziché abbandonarla in uno stato a dir poco embrionale, con striminzito ricamo di chitarra, coloriture sbiadite da qualche fiato tristanzuolo ed una carica corale invero alquanto smorta. Nella parte centrale del disco – una “pancia” sfortunatamente quasi interminabile – regna sovrana un’eccessiva approssimazione che pesa in quanto frutto di uno svogliato approccio al songwriting. Il basso profilo – il Nostro dovrebbe ormai averlo imparato – è ingrediente deleterio quando si punti a creare del buon easy listening. ‘Fine Old Friends’ non fa che confermarlo: carina sì, nel solco dell’esperienza condivisa con Ryan McPhun dei Ruby Suns per merito di quella discreta predisposizione alle trame semplici e di agevole impatto, eppure poco brillante anch’essa, praticamente un’outtake scarsina da ‘The Dance Reduction Agents’ e niente più. ‘Chant Darling’ riesce comunque a fare ben di peggio. Quello di ‘Eye A’, per dire, è un pop bandistico senza alcun mordente, con troppa faciloneria ed una piattezza di fondo disarmante: con il suo brio alla naftalina e la sua allarmante assenza di idee decenti sarebbe discutibile anche come sciapa B-side, mentre troneggia invece proprio nel cuore dell’album. Di poco migliore la successiva ‘The Crew of the Commodore’ (ennesimo riferimento metaforico a ciurme e viaggi per mare, tema sviluppato con buona efficacia nelle immagini promozionali che hanno accompagnato l’uscita dell’LP), forse un po’ troppo buttata li, affogata nella noia e nella sua stessa fiacca indolenza per riscire a colpire davvero l’attenzione di chi ascolta.
 
Tutto questo per rendere conto di quanto possa essere sciagurato il buon Milne quando gioca a risparmio o da per scontata la meraviglia del proprio tocco. Tutto questo per ribadire che non è proprio di un prodigio che si sta parlando. Anche se…beh, il resto di ‘Chant Darling’ mantiene e rilancia le promesse dei precedenti incoraggianti episodi. La partenza, come accennato, è da knock-out tecnico. ‘Looks Like a Fool’ è un numero magistrale da navigato ammiraglio del pop, sempre per la serie dei titoli di coda (o di testa, in questo caso) ideali. Raffinata ma diretta, con una voce finalmente priva di incertezze e i coretti angelici che esaltano la sua vocazione sixties, svela nello sviluppo della sua trama un calore ed una squisitezza armonica che testimoniano a fondo la volontà di James di rischiare qualcosa, il suo romanticismo da perdente d’altri tempi. E’ una canzone pop che insegue da vicino la perfezione solleticando con la sua apparente idea di scontatezza, con la falsa disinvoltura di chi vuol lasciar intendere che quanto creato sia il frutto di un’estrema, irrisoria facilità, mentre è vero l’esatto contrario. ‘Apple Pie Bed’ è un altro impeccabile congegno pop che emana prodigiosi aromi anni ’60 e tiene alta la soglia dell’espansività grazie ad un ritmo contagioso (prezioso il basso) e all’ennesimo ritornello bostick della ditta. Dietro la spensieratezza di facciata e la leggerezza del taglio e dei riferimenti, si affaccia però l’irriducibile malinconia (come suggerisce anche l’ambigua promiscuità del vizioso videoclip, raggiungibile dalla foto qui sopra), altro dardo vincente nella faretra del neozelandese. Tra i due brani forti d’apertura, ‘The Undesirables’ appare più elementare e stilizzata nella resa melodica, pulviscolare in quanto a sostanza e durata, eppure è un ulteriore pezzo di bravura per via di quel refrain maledetto (in pratica non c’è altro) che insiste a omaggiare Lennon come stella polare e si conficca implacabilmente nella testa di chi gli presta attenzione. A questa partenza prodigiosa fa seguito la lunga ellissi di cui si è detto, e bisogna arrivare addirittura alla nona traccia per ritrovare un passaggio di eguale pregio, se non superiore: ‘I’ve Smoked Too Much’, un gioiello, l’orgoglioso colpo di coda del genio dopo un mezzo oceano di banalità. Parte con i soliti coretti brillanti, prosegue con la melanconica e sfacciata (in senso buono) posa da crooner lagnoso per poi sfociare in un nuovo irresistibile ritornello, svoltando sempre con estrema perizia tra le più disparate ed amabili direzioni melodiche. Vuoi per la superba fattura, vuoi per la sorpresa di averlo ritrovato quando non lo si sperava più, è un vero piacere stargli dietro per tutti i cinque minuti e mezzo: durata doppia per gli standard di Lawrence Arabia, anche perché si tratta praticamente di due canzoni (ottime entrambe) in una. La chiusa, riservata all’affabile ‘Dream Teacher’, conferma il livello qualitativo elevato del miglior James pur con estrema economia di risorse, a conferma che con i suoi soli impasti vocali Milne è capace di risultati eccelsi. Molto più raccolto, aulico, delicato ma anche estremamente toccante (vedi la formidabile estasi wilsoniana che chiude il crescendo) ed immune al virus della maniera. Un momento di autentica goduria per il finale, irritante se ci si sofferma a raffrontarlo con le troppe pause precedenti ma comunque di buon auspicio per il futuro prossimo. Già, il domani alle porte che lo porterà in tour in Italia questo autunno e chissà cos’altro potrebbe riservare. La mia speranza è tutta rivolta ad un nuovo Reduction Agents, possibilmente con la franchezza succosa del primo capitolo e senza le scorie di timidezza e gli eccessi dispersivi che fin qui ne hanno sempre inzavorrato il talento.
 

Per una ideale raccolta: ‘You Beautiful Militant’ (da ‘Mars Loves Venus’, The Brunettes), ‘Talk About Good Times’, ‘Bloody Shins’, ‘Hold Us Together With Sutures’, ‘The Thinnest Air’, ‘I Hope The Pope Makes You a Saint’ (da ‘Lawrence Arabia’, Lawrence Arabia), ‘Cold Glass Tube’, ‘80’s Celebration’, ‘Mississippi Moonshine Girls’, ‘Sweet Ingredients’, ‘Our Jukebox Run is Over’ (da ‘The Dance Reduction Agents’, The Reduction Agents), ‘Looks Like a Fool’, ‘The Undesirables’, ‘Apple Pie Bed’, ‘I’ve Smoked Too Much’, ‘Dream Teacher’ (da ‘Chant Darling’, Lawrence Arabia).

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