Set 'Em Wild, Set 'Em Free

 

Doppia review per questo potentissimo nuovo album degli Akron/Family, e non poteva essere altrimenti. Riconosciuto dal sottoscritto come uno dei dischi del 2009 già ai primissimi ascolti, il nuovo lavoro di Seth Olinsky e compagnia ha rivelato una soddisfacente stagionatura nei seguenti sei mesi, presentandosi di fatto all'appuntamento con le classifiche di fine stagione come una delle prove più riuscite in ambito rock alternativo. Ho scritto rock e non altro perché la dimensione è quella. Si potrebbe discutere a lungo di etichette e 'file under' ma, nei fatti, ci si perderebbe dietro qualche sfumatura ingannevole. Ne ho parlato diffusamente in entrambe le recensioni, soprattutto in quella di Monthlymusic cui si accede dalla foto in basso: rimasti in tre dopo l'abbandono di colui che era forse il più prossimo all'idea di leader della squadra – il mistico Ryan Vanderhoof – i tre componenti della famiglia Akron hanno saputo trovare nelle difficoltà di una nuova vita live gli stimoli per proseguire la propria avventura discografica senza fermarsi ad una formula comoda, che avrebbe sicuramente mostrato presto la corda. La propensione al post, l'insopprimibile esigenza di sperimentazione sonora e destrutturazione formale, diventano in 'Set 'Em Wild, Set 'Em Free' una forza motrice che non si pone limiti e punta ad una liberissima riscrittura del proprio patrimonio identitario. Punto di partenza ed oggetto di questa profonda quanto caotica opera di ricodifica linguistica è il folk, quello cristallino degli esordi del gruppo newyorkese, quasi un pretesto per mettere in scena il più isterico dei tradimenti formali. Tutto l'album gioca sul paradosso di questa deflagrante corruzione stilistica, sia quando opta per soluzioni apparentemente agli antipodi rispetto al modello (le scudisciate fugaziane di 'MBF') sia quando si destreggia in un capolavoro di imitazione che ha già in sè i segni della negazione di quella stessa ortodossia ('River', bellissima). Ogni brano termina in maniera assai differente da come è cominciato, a riprova che alla band prema in primo luogo ribadire la sconfessione dell'apparente, della tranquillità di una forma-canzone e dei cliché di genere oramai dati per scontati. 'Gravelly Mountains of The Moon' è la vetta di questo processo creativo rigonfio di esasperazioni, che fagogita e devasta la quiete di un assurdo prog-folk bucolico. Anche l'ironia è ingrediente indispensabile per arrivare a risultati esaltanti, proprio come nella precedente gemma anarchica, 'Love Is Simple', forse ancora inarrivabile nella bacheca dei capolavori. La contaminazione che ribalta sorprendentemente ogni prospettiva resta la miglior testimonianza della superba intelligenza artistica di questi miti antieroi americani, tanto sfrontati da non far sconti neanche al vecchio traditional 'Auld Lang Syne' nella beffarda parodia che chiude 'Sun Will Shine'. Difficile pretendere di più da una band che è già al top della condizione.
 
 

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